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Un problema squisitamente politico

“La disuguaglianza è una violazione della dignità umana; è la negazione della possibilità che ciascuno possa sviluppare le proprie capacità. Prende molte forme e ha molte conseguenze: morte prematura, salute cattiva, umiliazione, subordinazione, discriminazione, esclusione dalla conoscenza e/o da dove si svolge prevalentemente la vita sociale, povertà, impotenza, mancanza di fiducia in sé stessi e di opportunità e possibilità della vita. Non è quindi solo questione delle dimensioni del proprio portafoglio. È un ordinamento socio-culturale che riduce le capacità, il rispetto e il senso di sé, così come le risorse per partecipare pienamente alla vita sociale.”

Queste parole del sociologo svedese Goran Therborn bene rappresentano la motivazione dell’instancabile lavoro di analisi e ricerca di Atkinson su questo tema e l’indignazione e l’impegno civile che lo accompagnano da sempre e ben prima che occuparsi di disuguaglianza diventasse, se non di moda, un’impresa del tutto rispettabile tra gli economisti e persino foriera di popolarità, come testimonia il successo imprevedibile del libro di Piketty e degli innumerevoli dibattiti che esso ha suscitato in diverse parti del mondo, nelle più prestigiose università e nei cenacoli di economisti e anche in sedi non accademiche come parlamenti nazionali e istituzioni politiche internazionali.

Come osserva all’inizio di questo libro Atkinson, cui oggi Piketty riconosce di essere stato il padre degli studi economici sulla disuguaglianza, il tema della disuguaglianza, anche limitatamente a quella economica, non è mai stato molto popolare tra gli economisti. Molti ritengono persino che le questioni della distribuzione non li debbano interessare proprio come studiosi. La situazione è parzialmente diversa in sociologia, ove lo studio delle disuguaglianze, delle loro cause, dimensioni, riproduzione e trasformazioni costituisce uno dei settori più importanti, affrontato da prospettive teoriche molto diverse. Anche se, come ha osservato severamente Therborn, ciò è avvenuto e avviene per lo più sotto l’etichetta, più “neutrale”, di stratificazione e mobilità sociale, con attenzione ai meccanismi di tipo micro (impatto dei sistemi educativi, dell’origine sociale, dei meccanismi distributivi e redistributivi, del capitale culturale e sociale e così via sulla collocazione sociale e sulle chances degli individui) piuttosto che per l’impatto che sulla disuguaglianza e sulle opportunità di vita delle persone ha il funzionamento dell’economia e delle decisioni che in essa o per essa vengono prese.

L’interesse di questo nuovo lavoro di Atkinson, pur concentrandosi solo sulla disuguaglianza economica, sta proprio nel suo costante legare macro e micro, nel rappresentare i fenomeni economici come qualche cosa che ha a che fare con la vita delle persone concrete – e diversificate per posizione sociale, genere, generazione – in società concrete, e allo stesso tempo come regolati non da leggi astratte, ma da specifiche decisioni, interessi di gruppo, rapporti di potere.

La prospettiva teorico-metodologica in cui l’autore colloca la sua analisi è efficacemente descritta all’inizio del Nono capitolo: “Nei primi capitoli dei manuali tradizionali, gli studenti leggono di famiglie e aziende impegnate in mercati concorrenziali in cui i prezzi uguagliano offerta e domanda. Se dovessi scrivere un manuale di economia, inizierei invece con aziende in concorrenza monopolistica e con potere di mercato, che negoziano sui salari, in un mondo in cui ci sono lavoratori disoccupati. Non sto scrivendo un manuale, ma la mia posizione condiziona la risposta che do alla domanda se si possa ridurre la disuguaglianza e al contempo migliorare l’efficienza. Se assumo un punto di vista diverso da altri economisti sulle conseguenze di varie forme di intervento pubblico, in parte è perché muovo da un modo differente di concepire il funzionamento dell’economia. La scelta del modello economico può influenzare profondamente le conclusioni che si traggono sulla desiderabilità di certe proposte politiche.”

In controtendenza rispetto ai dibattiti prevalenti oggi tra chi si occupa di politiche contro la disuguaglianza nell’ottica della strategia dell’investimento sociale, Atkinson, come Therborn, Piketty (di cui, per altro, è stato maestro), Stiglitz e, in Italia, Franzini, Granaglia e Raitano, ritiene che occorra preoccuparsi non solo della disuguaglianza delle opportunità, bensì anche della disuguaglianza degli esiti, sia per motivi di equità sia per motivi strumentali, legati alla coesione sociale e al benessere di una società nel suo complesso.

Per quanto riguarda le questioni di equità, ricorda che anche le politiche di pari opportunità più avvedute e la competizione più leale non possono escludere la sfortuna. Occorre, inoltre, distinguere tra opportunità competitive e non competitive, tra la possibilità di correre ad armi pari le stesse gare e la possibilità, come direbbe Sen, di condurre la vita che si desidera, nella consapevolezza che la struttura dei premi ottenibili nell’uno come nell’altro caso è fortemente differenziata e determinata da convenzioni sociali che non sempre hanno a che fare con il valore intrinseco di una determinata attività. Aggiungerei anche che focalizzarsi solo sulle disuguaglianze di partenza rischia di far trascurare gli inciampi che si incontrano lungo il percorso non solo in modo random (una malattia improvvisa, una crisi aziendale che produce licenziamenti), ma anche specificamente legato alle proprie caratteristiche.

Non è sufficiente, per esempio, far studiare nello stesso modo ragazzi e ragazze, se poi basta la sola ipotesi di una maternità a far considerare diversamente gli uni e le altre dai datori di lavoro, o se la divisione del lavoro familiare produce nuovi handicap per le une e simmetricamente vantaggi per gli altri. Infine, esiti disuguali hanno effetti anche sulle generazioni successive, come mostrano tutti gli studi sociologici sulla riproduzione intergenerazionale della disuguaglianza. Basterebbe solo questo dato a giustificare un interesse, a fine non solo di analisi, ma anche di policy, per le disuguaglianze di esito, oltre a quelle di partenza.

Dal punto di vista strumentale, Atkinson condivide con Stiglitz l’idea, sostenuta da evidenze empiriche, che la disuguaglianza abbia un prezzo alto in termini di indebolimento della coesione sociale, di tassi di criminalità e morbilità e di comportamenti rischiosi per sé e potenzialmente costosi per la società. I sostenitori delle pari opportunità e dell’approccio dell’investimento sociale direbbero che, almeno al di sopra di un certo livello e se si configura come un destino, la disuguaglianza è anche un enorme spreco di capitale umano. Per questo ha effetti negativi sullo stesso sviluppo e benessere complessivo di una società, come argomenta anche Cingano sulla base di un’analisi di quanto è successo nei Paesi OCSE negli ultimi trent’anni.

La disuguaglianza economica ha un prezzo anche per la stessa democrazia, nella misura in cui la concentrazione della ricchezza e del reddito portano con sé pure concentrazione del potere politico, quindi di influenza sulle decisioni in materia fiscale, di bilancio, della direzione che deve prendere lo sviluppo tecnologico e così via, ovvero su questioni di vitale importanza per le condizioni di vita e le opportunità delle persone.

Pur occupandosi di disuguaglianza negli esiti e non solo nelle opportunità, Atkinson non è un ingenuo utopista che vagheggia una società di uguali. Piuttosto ritiene che, smontando analiticamente i meccanismi che producono disuguaglianze eccessive o non giustificate da particolari meriti, sia possibile anche mettere a punto istituti, contromeccanismi che riequilibrino almeno in parte i rapporti di potere. Per questo le due parti del libro — quella analitica e quella propositiva in cui vengono illustrate dettagliatamente quindici proposte di policy — vanno lette insieme. Se si condivide l’analisi ma non le proposte, o non tutte, si è sfidati a elaborarne di migliori, o più fattibili, o più adeguate a uno specifico contesto nazionale (molte delle proposte di Atkinson sono articolate in relazione al contesto istituzionale britannico).

Non ho intenzione di riassumere qui né la parte analitica né quella propositiva. Mi limito a segnalare alcuni passaggi analitici che ritengo importanti, per poi arrivare ad alcune delle proposte che ritengo più interessanti.

[…]

Le proposte di Atkinson, quindi, non riguardano solo e prevalentemente un aumento della spesa sociale, perciò delle imposte, anche se implicano un rafforzamento e una ristrutturazione sia della spesa sociale sia delle imposte. Riguardano innanzitutto il modo in cui funzionano il mercato e i redditi che da questo provengono. Escono perciò dalla dicotomia (per altro un po’ astratta) tra politiche di investimento sociale cosiddette attive, che sarebbero quelle proprie di un welfare moderno, e politiche di protezione sociale cosiddette passive, che sarebbero proprie del welfare tradizionale. Protezione e investimento stanno assieme, nella misura in cui l’obiettivo è intervenire in primo luogo nei meccanismi che determinano i redditi da mercato del lavoro e da capitale per mettere gli individui in grado di esercitare controllo sulla loro vita, di essere meno costretti da circostanze sfavorevoli sia di partenza sia di percorso e anche più capaci di destreggiarsi in un mercato del lavoro che non sempre e non a tutti offre occupazioni “intere” e in cui la distinzione tra occupati e disoccupati non è sempre netta.

La combinazione di protezione e attivazione, per usare due termini di moda, è chiara, per esempio, nella proposta di introduzione di un salario minimo al livello di ciò che è consensualmente ritenuto necessario per vivere. Essa è integrata da due altre proposte: uno sconto fiscale sul reddito da lavoro e un reddito minimo universale, o reddito di partecipazione, non subordinato a requisiti di reddito ma solo a requisiti di attività – nel mercato, nelle cure familiari, nel volontariato, nello studio.

È questa una vecchia proposta di Atkinson, differente sia dalle proposte di reddito di cittadinanza senza condizioni, alla Van Parijs, sia da quelle, ben più ridotte, di reddito minimo per i poveri, incluse le varie forme di work tax credit messe in campo da alcuni Paesi per incentivare la ricerca e la permanenza nell’occupazione di chi guadagna troppo poco. A parere di Atkinson, infatti, i sostegni al reddito di tipo assistenziale, pur essendo meglio del niente che c’è, per esempio, in Italia, oltre a essere stigmatizzanti, hanno alti costi amministrativi e organizzativi e non risolvono il problema di chi, pur avendovi diritto, non li richiede perché non è informato o si vergogna. Un reddito di partecipazione, inoltre, consentirebbe di venire meglio incontro alle condizioni contemporanee del mercato del lavoro, con i suoi confini labili tra occupazione e disoccupazione.

In effetti, una sorta di reddito minimo garantito già esiste, come osserva Atkinson, sotto forma di quota esente da imposte, specie laddove (non in Italia) esiste anche l’imposta negativa, ovvero viene compensato ciò che non si può detrarre, o si integra la parte mancante fino alla soglia esente. Tuttavia, proprio i più poveri sono per lo più esclusi, in quanto difficilmente fanno una dichiarazione dei redditi. In chiara controtendenza rispetto al crescente utilizzo della prova dei mezzi per definire gli aventi diritto ai trasferimenti diretti, non solo nel Regno Unito ma in molti altri Paesi, tra cui l’Italia, Atkinson propone appunto di garantire a tutti il reddito di partecipazione, che sostituirebbe tutti gli sgravi fiscali (che oggi sono di fatto più favorevoli ai ricchi che non a chi ha un reddito modesto o scarso), salvo lo sconto sul reddito da lavoro.

Tra i vantaggi, oltre a bassi costi organizzativi, all’assenza di stigmatizzazione e di effetti disincentivanti sull’offerta di lavoro (rispetto a un reddito minimo basato su un test dei mezzi familiari), vi sarebbe il fatto che aumenterebbe la propensione al consumo dei ceti medio-bassi, con effetto positivo sull’economia.

Un primo passo per arrivare a questa misura potrebbe essere un assegno per i figli definito a livello europeo, quindi vincolante per tutti i Paesi membri. Calcolato in termini di redditi dopo tutti i trasferimenti ma prima dell’imposta sul reddito, contribuirebbe a ridurre la povertà dei bambini riequilibrando il bilancio delle loro famiglie spesso in tensione tra reddito disponibile e numero dei consumatori. Insieme alla proposta di istituire una dote sociale (un’eredità minima sociale) da trasferire a ogni cittadino al raggiungimento della maggiore età, costituirebbe una misura di pari opportunità tra bambini e di investimento sociale nelle generazioni più giovani. Per l’Italia significherebbe introdurre finalmente un sostegno al costo dei figli di tipo universale, non categoriale e non legato a una prova dei mezzi, anche se di importo variabile a seconda del reddito dei genitori e tassabile.

In alternativa al reddito di partecipazione, come strumento redistributivo per combattere la disuguaglianza economica, Atkinson vede solo un rafforzamento della previdenza e in parte un cambiamento di ciò che costituisce una base contributiva. Ciò significa garantire una pensione minima adeguata e ai cui fini contributivi conti anche il riconoscimento del lavoro di cura, e un’indennità di disoccupazione che possa essere fruita anche da chi è involontariamente occupato solo part time.

Mi sembra tuttavia, a differenza di quanto suggerisce Atkinson, che, diversamente dal reddito minimo universale, per quanto queste due misure siano auspicabili, non risolverebbero la povertà di chi è involontariamente inoccupato e, in assenza di un generoso assegno per i figli, anche dei lavoratori poveri e dei loro familiari. Non eliminerebbe, quindi, la necessità né di un reddito minimo assistenziale, né di forme di integrazione del reddito dei lavoratori poveri – due misure la cui introduzione sarebbe particolarmente urgente in Italia, l’unico Paese entro l’Unione Europea, insieme alla Grecia, a non avere una garanzia minima di reddito per i poveri e ad attardarsi in discussioni sul suo possibile effetto disincentivante sull’offerta di lavoro in un contesto in cui a mancare è piuttosto la domanda.

Dato che assegna all’occupazione, all’essere occupati, un forte valore in termini non solo economici, ma di integrazione sociale e di dignità personale, Atkinson non rifugge neppure dal proporre che lo Stato si faccia datore di lavoro di ultima istanza, anche se non necessariamente per occupazioni a tempo pieno e tanto meno per tutta la vita, ma sicuramente per occupazioni che producano utilità sociale e beni collettivi. Chi è a conoscenza di come siano andati e vadano i cantieri di lavoro soprattutto in alcune parti di Italia avrà modo di sorridere, o di sentire un brivido lungo la schiena. Ricordo io stessa il sindaco di una cittadina del Sud che, alla mia domanda su come utilizzasse i lavoratori socialmente utili, mi guardò sorpreso, dichiarando che non era nel suo potere farli lavorare, ma solo erogare il compenso (di fatto un sussidio a fondo perduto).

Eppure non si può negare che siano molti i lavori che potrebbero essere utilmente svolti e che non lo sono, o non a sufficienza: dalla cura del territorio alla cura delle persone all’informazione rivolta a chi è più marginale e altro ancora. Per altro, anche in Italia, accanto a esperienze negative ce ne sono di positive. Lo stesso fatto che lo Stato, in Italia, sia il maggiore utilizzatore dei contratti temporanei e co.co.pro. segnala che senza questi lavoratori molte attività necessarie non verrebbero svolte. Una ricerca fatta da un gruppo di studiosi di varie discipline e di professionisti diversi, per esempio, ha segnalato come, in termini comparativi, la Pubblica amministrazione italiana abbia un organico sottodimensionato rispetto al bisogno e che occorrerebbe assumere circa un milione di laureati e diplomati da impiegare nei servizi maggiormente necessari per lo sviluppo del Paese (sanità, sicurezza, scuola, giustizia civile, tutela del patrimonio artistico, e altri ancora), con ciò contrastando la disoccupazione giovanile e aumentando il volume del reddito da lavoro dipendente, quindi degli introiti fiscali. Anche in questo caso, come in quello del reddito di partecipazione (ma anche del solo reddito minimo per i poveri) e degli assegni universali per i figli, infatti, non si tratterebbe di pura spesa, perché il reddito così guadagnato si trasformerebbe in consumi, oltre a essere l’esito di una produzione di beni pubblici – ovviamente se si ha la volontà e la capacità di utilizzare i lavoratori.

Non mi dilungherò qui su come Atkinson pensa che queste e altre misure possano essere finanziate. Rimando al lettore la valutazione della correttezza delle sue stime circa non solo i costi, ma i risparmi e gli effetti positivi che possono avere anche sul piano economico. È un invito che avanza esplicitamente lui stesso. A differenza di molte proposte di economisti con maggiore influenza politica, la sua, oltre a essere complessa e articolata, non è una ricetta formulata in modo apodittico. Mi limito a segnalare, perché rilevante per il dibattito italiano contemporaneo e per gli annunci del governo di questa estate 2015, che, come è intuibile, le sue indicazioni non vanno in direzione di una diminuzione delle tasse (salvo che per quelle sul lavoro), tanto meno di quelle sulla proprietà, e neppure in direzione di uno spostamento dell’imposizione dal reddito (e dalla ricchezza) al consumo. Ciò per motivi di equità, prima che di far cassa. Le tasse sul consumo, infatti, colpiscono i ceti più modesti più di quelli abbienti. Tassare maggiormente l’eredità (lo diceva anche Einaudi) è un modo per ridurre le disuguaglianze nell’origine di nascita e i privilegi non meritati degli eredi.

Anche se Atkinson preferirebbe all’imposta di successione un’imposta sugli introiti da capitale ricevuti nell’arco della vita, in modo da comprendervi pure le donazioni in vita: un fenomeno che ha un ruolo rilevante tra i più ricchi e che oggi è sempre più diffuso a motivo dell’innalzamento delle prospettive di vita, che consigliano di diluire nel tempo la trasmissione ereditaria. Quanto all’imposta sulla casa, al contrario di quanto è stato fatto in passato in Italia e Renzi promette di rifare oggi, Atkinson, avendo in mente la situazione inglese, in cui pure c’è stata una progressiva diminuzione dell’imposizione a vantaggio soprattutto dei più ricchi, propone che venga reintrodotta una tassa proporzionale al valore catastale anche per l’abitazione principale. In questo modo, da un lato aumenterebbe la tassazione soprattutto per le abitazioni di maggior pregio; dall’altro lato si avrebbe un effetto di diminuzione complessiva dei prezzi di mercato, rendendo l’abitazione più accessibile, per l’acquisto o l’affitto, a chi, non avendo mezzi per acquistarla, non è stato beneficiato dall’aumento dei valori immobiliari e anzi ne ha subito il costo sotto forma di affitti elevati.

Quasi tutti i recensori di questo libro, pur non contestandone la parte analitica, hanno concluso che si tratta, per la parte propositiva, di un libro dei sogni, più o meno rivolto a un passato – politico-culturale – che non tornerà più. Ciò facendo, tuttavia, danno ragione a Atkinson, se non per quanto riguarda la fattibilità pratica, o l’efficacia, di questa o quella proposta, per la tesi di fondo che guida sia l’analisi sia le proposte e che sintetizzerei così: “It is not the economy, stupid, it is politics”. Se le cose vanno come vanno nel campo della disuguaglianza economica non è per qualche ineluttabile legge economica, ma per precise scelte politiche. Di queste occorre discutere.

Settembre 2015

 

 (*) Sociologa, Prefazione all’edizione italiana del libro di A. Atkinson, Disuguaglianza,   Raffaello Cortina Editore,2015

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