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Un accordo di portata storica

Da sempre il rinnovo del contratto dei metalmeccanici costituisce un passaggio delicato, non solo per la categoria ma anche per l’impatto che questo può avere sugli equilibri su cui si reggono le relazioni industriali. Una regola questa che ha trovato conferma nell’ipotesi di accordo firmato da Fim, Fiom e Uilm con Federmeccanica a fine novembre, che in un certo senso chiude un’era e apre una nuova fase.

Con alcune differenze fondamentali che rendono questo contratto unico rispetto al passato: l’assenza di un rinnovato sistema di regole (ancora in fase di definizione), un contesto economico segnato dalla più lunga crisi del dopoguerra, una disoccupazione giovanile al 40% (contro una media europea del 20%), la ”sorpresa” della deflazione e un clima di delegittimazione che si è venuto a creare (con grande responsabilità anche di una parte della politica) attorno ai corpi intermedi.  E’ ancora il contratto più grande del lavoro privato, si applica a 1.600.000 lavoratori.

Per questo la Fim ha spiegato fin dall’inizio della trattativa, nell’ultimo scorcio del 2015, che i metalmeccanici si trovavano alle prese con il rinnovo più difficile della loro storia. Per questo oggi siamo legittimati a dire che abbiamo raggiunto un accordo di portata “storica”: non lo sostiene solo la Fim, ma lo dicono anche i più autorevoli giuslavoristi italiani e gli osservatori più attenti alle dinamiche delle relazioni industriali. 

La proposta con cui Federmeccanica si è presentata al tavolo era potenzialmente dirompente: via dal contratto nazionale gli aumenti per tutti, e largo ad un salario minimo di garanzia che avrebbe riconosciuto solo ad una esigua minoranza (grosso modo il 5% dei lavoratori) l’adeguamento in busta paga. Per Fim, Fiom e Uilm ciò avrebbe significato mandare in soffitta il contratto nazionale. In realtà, era puntare su un solo livello contrattuale. E sappiamo bene che sarebbe rimasto solo il Contratto Nazionale, vista la scarsa popolarità che ha il contratto di secondo livello a partire dalle imprese.

In realtà, l’idea era un Contratto Nazionale per pochi, solo dove non vi è il Contratto aziendale e soprattutto un livello nazionale leggero che lasciasse spazio agli aumenti individuali unilaterali, che sono l’altra faccia della medaglia della scarsa disponibilità che per tutto il negoziato abbiamo fronteggiato; solo nelle ultime 48 ore, siamo riusciti ad evitare manomissioni sull’inquadramento. Accettando questa impostazione avremmo indebolito il lavoro ma paradossalmente anche la rappresentanza datoriale.

Puntare al livello territoriale non solo sull’elemento perequativo, ma su una sede a cui affidare il compito di sviluppare e diffondere la contrattazione di secondo livello è un grande risultato. Se si comprendesse che la contrattazione territoriale sulla produttività può essere un elemento vincente anche per le imprese, sarebbe una vera rivoluzione. Gli indicatori di produttività sono disastrosi sotto i 20 dipendenti e insostenibili sotto i 10. Affrontiamo insieme la sfida rivitalizzando le relazioni industriali territoriali, oggi in arretramento, proprio su questa partita o ci limitiamo a contare le piccole aziende che chiudono? Il diktat di Confindustria su questo capitolo sa di vecchio e ci auguriamo che venga superato rapidamente.

Anche il sistema di assorbimenti serve a superare l’ambiguità tra i due livelli contrattuali che ci portiamo dietro dal ’93. Aumenti fissi “ma anche” variabili. Premio di Risultato che può scimmiottare il Contratto Nazionale e viceversa. Questa ambiguità è stato uno dei fattori che ha indebolito entrambi i livelli contrattuali. Anche in una categoria in cui la contrattazione aziendale ha un buon livello di copertura, ovvero il 37% delle imprese che occupano il 70% dei lavoratori della categoria. 

Aver chiarito una volta per tutte che il contratto nazionale difende, esclusivamente, il potere di acquisto dei salari e che il periodo di deflazione è un’occasione per rafforzare il decentramento senza abbandonare il Contratto Nazionale è di grande importanza. Aggiungere medie di produttività nazionale (nella gran parte dei settori negativa) scontenta chi è sopra la media e mette in difficoltà chi è sotto. Per questo è di grande attualità la linea della Cisl che da Ladispoli ’53 lanciando la contrattazione articolata sostenne che “la ricchezza va distribuita là dove si crea”. Cioè in azienda.

Questo Contratto ricorda molto le soluzioni, il contesto e la strategia contrattuale del ’73, uno dei contratti più belli della nostra storia. Analogo contesto di crisi e con scarso spazio salariale allora come oggi si puntò all’innovazione con il nuovo inquadramento unico e le 150 ore. Oggi rinnoviamo l’inquadramento e puntiamo sulle “150 ore digitali”.

Come abbiamo previsto, non è stato facile, e per indurre Federmeccanica a cambiare rotta sono state necessarie venti ore di sciopero, manifestazioni nazionali, il blocco degli straordinari e una serie di proteste a livello locale e aziendale. La mobilitazione non solo ha centrato l’obiettivo di rimuovere le rigidità della controparte, ma ha anche contribuito a rafforzare una nuova l’unità di intenti tra i sindacati, da rifondarsi sul rispetto delle diverse posizioni ricercandone al contempo una sintesi alta e autorevole.

Va comunque sottolineato che il conflitto non poteva essere spinto oltre il punto di non ritorno: questo per la consapevolezza (almeno da parte nostra) che un fallimento – proprio per le ragioni di contesto che abbiamo evocato all’inizio – avrebbe avuto ripercussioni gravi per tutto il settore, e non solo, e più in generale per il sistema della rappresentanza. Abbiamo volutamente evitato toni rabbiosi, espressioni definitive, limitato la retorica dell’armamentario conflittuale. 

Federmeccanica alla fine ha compreso che da parte nostra non avremmo mai rinunciato ad un contratto nazionale dotato di “autorità salariale” e che, in definitiva, lo schema del salario minimo di garanzia celava al suo interno un baco da cui rischiava di venir infettata lei stessa. Come non avremmo mai rinunciato ad un sistema di regole e strumenti che valesse per tutti i 1.600.000 lavoratrici e lavoratori del settore e che facesse da cornice e da spinta proprio per la contrattazione di secondo livello, che da questo contratto esce rafforzata. 

Abbiamo convinto Federmeccanica che la tutela del potere d’acquisto delle retribuzioni non poteva essere circoscritta ad un 5% di lavoratori e così, essere derubricata ad un vecchio arnese di cui liberarsi per raggiungere l’agognato “rinnovamento culturale”. Gli ultimi giorni di trattativa hanno poi portato alla revisione del meccanismo di decalage, che impediva il recupero pieno dell’inflazione, e hanno sminato il terreno dalla questione degli assorbimenti relativi a quanto contrattato aziendalmente in questi anni. Ma soprattutto siamo riusciti a ridefinire in modo più efficace i due livelli di contrattazione e, in questa ridefinizione, a valorizzare gli aspetti e gli strumenti più innovativi per abbattere il tabù degli imprenditori (e non solo) verso la partecipazione dei lavoratori, istituire nuovi diritti (come quello soggettivo alla formazione), rafforzare enormemente il welfare (sanità integrativa, previdenza complementare e flexible benefits) e centrare l’obiettivo di rivedere il sistema di inquadramento  professionale, bloccato al 1973.

Il risultato è un accordo che avvicina la contrattazione alle persone e ai luoghi di lavoro. Che rafforza la contrattazione di secondo livello e lega strettamente produttività e aumenti nella forma di premi di risultato. Che innova sul terreno della partecipazione grazie all’introduzione dei comitati consultivi nelle grandi aziende e degli osservatori territoriali. Che punta su una più efficace e mirata formazione per rafforzare i lavoratori di fronte alla quarta rivoluzione industriale.  Ma entriamo nel dettaglio.

I 92 euro di aumento a regime (la durata del contratto sarà di quattro anni) si dividono in maniera quasi uguale tra recupero dell’inflazione (51 euro), che sarà calcolato ex post sulla base dell’indice Ipca certificato dall’Istat ed erogato nel giugno dell’anno successivo, e quel pacchetto di formazione e welfare che è la vera novità dell’intesa. Ai lavoratori andranno infatti 7,69 euro per la formazione e 33,29 per il welfare, di cui 12 per la sanità integrativa, 7,69 per la previdenza complementare, 13,6 in flexible benefits (buoni benzina, spese scolastiche, carrello della spesa, etc: tutte voci detassate). Numeri a parte, il Contratto Nazionale sarà un grande contenitore di welfare che consentirà l’omogeneità di standard minimi a livello nazionale con possibilità di integrazione aziendale o territoriale.

La sanità integrativa verrà estesa a tutti i lavoratori, che si vedranno azzerare il contributo al fondo Métasalute, ed ai loro familiari. Creando il fondo sanitario più grande d’Europa con oltre un milione di lavoratori. Si rafforza anche la previdenza complementare: la quota di retribuzione che le imprese sono chiamate a destinare al fondo Cometa sale dall’1,6 al 2%. Ci sono tanti spazi di innovazione, sulla partecipazione nei gruppi sopra i 1500 dipendenti, sulla prevenzione in materia di ambiente e sicurezza e sui diritti dei migranti.

Per la prima volta viene inoltre introdotto il diritto soggettivo alla formazione, diritto che si traduce per le aziende nell’obbligo di destinare 24 ore nei prossimi tre anni al miglioramento delle competenze di ogni lavoratore o, in alternativa, di erogare 300 euro per corsi da seguire fuori dal perimetro aziendale. Il diritto soggettivo alla formazione è da tempo, da prima che decollasse la trattativa, uno dei punti qualificanti della visione della Fim, che lo considera il principale elemento di tutela del lavoro – dopo salute e sicurezza – specie ora che la rivoluzione digitale bussa con prepotenza alle porte della nostra industria. Le nuove tecnologie alla base di Industry 4.0 ci consegneranno non solo una fabbrica nuova ma anche un nuovo lavoratore, sempre più centrale nel processo produttivo, sempre più vicino a compiti di co-progettazione. Un’opportunità che rappresenta però una sfida in un’economia globalizzata, nella quale la competizione si gioca anche sulla crescita del capitale umano. 

Il fatto che l’accordo sia stato firmato anche dalla Fiom – un epilogo unitario dopo una lunga stagione di divisioni tra le fila dei metalmeccanici – rappresenta ovviamente un altro fatto importante. Un fatto che a nostro avviso costituisce un esempio per il Paese in una congiuntura in cui le posizioni gridate prevalgono sul senso di responsabilità, in cui prevale l’esasperazione delle differenze rispetto all’alto valore delle sintesi incentrate sul merito, e non su altro. Solo così l’unità sindacale ha veramente senso: se è frutto di rispetto reciproco e di sintesi. Rispetto che ora deve trovare però piena attuazione in tutte le fabbriche, in tutti i posti di lavoro. Ci vorrà tempo per superare le aspre e a tratti violente divisioni di questi anni, ma la strada per noi non può che essere questa, perché ora il contratto fa fatto vivere nel concreto in tutti i contesti e realtà industriali del Paese. 

In tutto ciò, rimane fermo e determinato il nostro principale obiettivo, che – per la FIM – è quello di continuare a portare avanti la forza delle nostre idee, simbolo di un sindacato che, non solo guarda al futuro senza temerlo, ma che ha anche il coraggio di anticiparlo. Questo è un dato da sottolineare, una volta tanto un risultato unitario non è la sommatoria di posizioni o bandierine ma la valutazione di quello che serve per il futuro della categoria, in prospettiva. Insomma, una unità costruita senza guardare nello specchietto retrovisore.

 

Non abbiamo la pretesa di rappresentare un modello per altre categorie che fanno bene a costruire le soluzioni sulle loro specificità. Questo è anche il risultato di non aver definito un modello contrattuale prima dei rinnovi, che generalmente orienta e facilita la modalità dei rinnovi. E forse non è detto che sia per forza un male che ogni settore persegua una propria strada, la più rispondente alla necessità di imprese e lavoratori di quel settore. L’obiettivo di fondo è migliorare quantità e qualità della contrattazione ed estendere l’area di contrattabilità verso le nuove sfide di partecipazione, verso una vera democrazia industriale.

 (*) Segretario Generale FIM-CISL

 

 

 

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