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Siamo a un bivio decisivo, bisogna pensare e agire in grande

Il 1° giugno scorso, Giorgia Meloni ha tenuto un comizio a Piazza del Popolo a Roma, in chiusura della campagna elettorale per le elezioni europee, ponendo sé stessa in gioco. La visione del proprio ruolo è racchiusa nella frase clou del lungo discorso rivolto al suo popolo (ed escludendo finanche il partito): “io ho rinunciato a tutto, voi rinunciate a cinque minuti per dirmi che siete al mio fianco. Perché finchè ci siete voi, ci sono anch’io”.

Poche ore dopo, Carlo Ancellotti, allenatore del Real Madrid, commentava in conferenza stampa la partita vinta contro il Borussia, conquistando l’ennesima finale della Champions League. Ha raccontato che, dopo il primo tempo, essendo insoddisfatto dell’andamento della squadra, nello spogliatoio ha parlato con i giocatori. “Ho detto che bisognava fare qualche cambiamento e loro sono stati d’accordo. Ciascuno di loro è un fuoriclasse, però in campo non pensa a sé stesso, ma a come vincere tutti insieme”.

Due modi di concepire il comando; uno che chiede un mandato incondizionato, l’altro che evita l’approccio autoritario e cerca il confronto e l’accordo. Tutte le società democraticamente mature sono attraversate da questo dualismo a tutti i livelli. Figuriamoci in Italia, dove le strutture istituzionali e le organizzazioni sociali sono rese fragili dai continui tentativi di piegarli alle convenienze del momento da parte di chi detiene il potere. Di questi tempi, il motore dell’IO tira forte. Andrea Riccardi, nel suo libro “Rigenerare il futuro”(Scholé, 2024) è perentorio: “del resto un mondo fatto di tanti IO vive una politica diversa, fatta di polarizzazioni estreme ed emotive, di rifiuto dell’impegno civico, oppure di ricerca di leader rassicuranti in senso populista”.

Non ci si può rassegnare. La sfida è veramente alta anche se l’IO non sarà mai in grado di farcela. Ma anche il NOI entra in difficoltà. Deglobalizzazione, denatalità, decarbonizzazione, delocalizzazione di popolazioni – sia per la dimensione planetaria che per l’estensione delle conseguenze che implicano – rendono tanto l’IO che il NOI piccoli piccoli. Se non cercano il dialogo, l’incontro, l’abbandono di ogni velleità egemonica, falliscono entrambi.

Non basta la buona volontà. Occorre che si formi una corrente di pensiero e di azione che si ispiri ad un nuovo riformismo umanitario e rispettoso della natura. Purtroppo tutto ciò non è materia per medici pietosi. Questo non è un cammino dai piccoli passi. Anzi, occorreranno leadership “visionarie”, un lavoro culturale profondo e diffuso, organizzazioni aggreganti per un coinvolgimento delle persone nella progettazione del futuro.

Le stesse elezioni europee sono un campanello di allarme significativo. Il negazionismo, il prendere tempo, impedire ciò che è impedibile, il rifiuto di pensare in grande attanagliano ancora una buona parte del sistema politico europeo che si esprime nell’avanzata delle destre e nella diserzione dalla partecipazione al voto. Se i più convinti europeisti, di fronte a questi esiti, abbassano la bandiera dell’Europa federale, ripiegano sull’esistente e scelgono governance sbiadite, non fanno il classico “due passi indietro per fare poi un balzo in avanti”, ma semplicemente si danno la zappa sui piedi. Di sicuro, non tolgono acqua alle velleità delle destre; le possono contenere ma non togliere argomenti alla loro propaganda.

Per questo, serve un nuovo riformismo, che non può prescindere dalla realizzazione di un’Europa nella quale tanto l’IO quanto il NOI abbiano cittadinanza, si riconoscano, trovino le ragioni dell’intesa più che il distinguo ideologico, tragicamente ripiegato sul passato. Fulcro di questo compromesso deve essere quello di assicurare che il più debole – sia esso essere umano, animale, vegetale – non sia umiliato, inascoltato, scartato, distrutto. Cura della natura, sicurezza e dignità del lavoro, potenziamento del welfare, primato della cultura e dell’educazione devono continuare a trovare in Europa la sede ideale per cui pubblico e privato cooperino per una programmazione robusta di adeguamento ai cambiamenti in atto, valido per tutti gli europei.

In funzione di questa prospettiva, la questione fiscale diventa cruciale. La concorrenza tra Stati, che si trasforma in gara a realizzare paradisi fiscali, deve finire in Europa. E’ incomprensibile che esiste un mercato unico del lavoro e non c’è un mercato unico dei capitali. Nessuna lotta per una tassazione progressiva, come prevista dalla Costituzione italiana, può avere successo se uno Stato europeo si mette a corteggiare tanto il piccolo risparmiatore che il grande finanziere di un altro Stato. 

C’è di più. Un nuovo riformismo deve riguardare anche la fiscalità, perché ormai la ricchezza non si ridistribuisce più come nel Novecento. Soltanto una ricomposizione della tassazione sull’insieme dei redditi derivanti dalle rendite di vario tipo, dei capitali investiti nelle attività produttive e delle entrate dei singoli individui e l’introduzione di criteri di conflitto d’interesse potranno combattere evasione, elusione e tassazione “alla carte”. La stagione delle esenzioni corporative e dei bonus fiscali, specie se annuali, deve essere rifiutata e un nuovo disegno complessivo deve essere portato al centro dell’attenzione dalle forze del riformismo.

E poi il tema del lavoro. Un riformismo profondo deve caratterizzare il futuro delle politiche attive del lavoro e le relazioni contrattuali tra le parti sociali. Anche in questo campo, IO e NOI devono incontrarsi. La lotta di classe è archiviata. Ma chi vuol fare il padrone delle ferriere è un fallito. Le riallocazioni tra le nazioni e i continenti delle attività produttive, l’allargamento della faglia tra professioni e mestieri nuovi e quelli vecchi per effetto della digitalizzazione e dell’IA avranno bisogno di cambiamenti profondi nella percezione delle esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici e nella struttura delle tutele. E specie in Italia, nulla più si potrà risolvere giocando fondamentalmente sul minor costo del lavoro e sui bassi salari.

Tutto ciò implica una nuova stagione di impegno innanzitutto delle forze sociali. Non c’è realizzazione di riforme profonde senza il contributo che cresca nella società, che plasmi convincimenti diffusi, che proponga ai partiti di fare la propria parte. Dall’alto, se non vi è una condivisione sociale che accelera i processi innovativi, il cambiamento non produrrà risultati positivi e durevoli. 

Grande responsabilità è assegnata all’associazionismo sociale, a quello culturale, a quello professionale, a quello imprenditoriale. Ma soprattutto a quello sindacale che resta un soggetto di significativa e decisiva aggregazione sociale. Le spinte identitarie, pur legittime e segno di vitalità, dovranno servire a promuovere il confronto delle idee, essenziale per progredire. 

Ma l’obiettivo deve essere chiaro e cioè deve essere finalizzato alla composizione unificante delle proposte ed alla loro gestione unitaria per ottenere il sostegno di tutti i lavoratori. Senza di questo, anche la più affascinante delle idee sfiorisce nell’impatto disordinato e competitivo nei rapporti con i lavoratori. Il deficit di sintesi unitaria si percepisce; così IO e NOI sono sulla graticola, anche nel mondo del lavoro. L’inquietudine va sconfitta, se no prevale la rassegnazione, a tutto vantaggio dei falsi riformisti, già all’opera, sia pure in maniera scomposta e di per sé perdente.  

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