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Il sistema pensionistico è di nuovo sotto pressione

Se la Corte Costituzionale darà il via libera, il referendum proposto dalla Lega sulla legge Fornero si terrà nella primavera del prossimo anno. Il mondo politico non ha fino ad oggi reagito a questa ipotesi. Nel sindacato vi è stata una dichiarazione di appoggio della Camusso, contestata dalla segretaria dello Spi-Cgil Cantoni. La Cisl ha sottolineato la necessità di rivedere alcuni aspetti della Fornero senza condividere l’ipotesi del referendum.

L’abrogazione della legge 214/2011 causerebbe il venir meno “ex-nunc” delle norme abrogate. Ci sarebbero effetti sulle età di pensionamento di vecchiaia e anticipata e, parzialmente, sull’aumento di contribuzione degli autonomi, mentre non ci sarebbero effetti sulla mancata indicizzazione della pensioni nel biennio 2012-13. Secondo le previsioni fatte dalla Relazione Tecnica di accompagnamento della legge, le norme soggette all’abrogazione referendaria avrebbero prodotto risparmi pari a 6,5 mld nel 2015 e poi crescenti nel tempo fino a 16,2 mld nel 2020. A queste cifre vanno tolte le maggiori spese intervenute per i successivi interventi sugli esodati e per gli effetti comunque prodotti dall’applicazione della Fornero fino all’abrogazione. Si tratta, in ogni caso, di un ammontare notevole di risorse, probabilmente  maggiore di quello utilizzato per l’eliminazione dello scalone di Maroni nel 2007. L’eventuale successo del referendum produrrebbe, pertanto, un non semplice problema di copertura. 

La legge 214 è stata il completamento di una serie di interventi fatti tra il 2004 e l’agosto del 2011 (legge 243/2004 di Maroni (modificata dalla l. 247/2007), il D.L. 78/2010, il D.L. 98/2011, il D.L. 138/2011). Queste leggi hanno successivamente innalzato i requisiti minimi di accesso al pensionamento anticipato, introdotto il sistema delle quote, portato a 65 anni l’età di pensionamento delle donne nel pubblico impiego, gradualmente allineato ai 65 anni il requisito per la pensione di vecchiaia delle donne nel settore privato, eliminata la flessibilità di uscita nel sistema contributivo, introdotto e via via anticipato l’adeguamento dei requisiti anagrafici all’aumento della speranza di vita. Tutte queste norme resterebbero in vigore. 

Poco cambierebbe per le pensioni di vecchiaia. Considerando le finestre, l’età di pensionamento resterebbe quella attuale. Nel settore privato l’adeguamento dell’età di pensionamento delle donne a quella degli uomini ritornerebbe ai ritmi pre-Fornero (2026 anziché 2020, ma con la certezza di una richiesta accelerativa da parte della UE), verrebbe meno il rinvio del pensionamento a 70 anni nel caso di non raggiungimento di una pensione pari a 1,5 volte l’assegno sociale. Resterebbero tutti gli adeguamenti alla speranza di vita delle varie età anagrafiche e contributive e dei coefficienti di trasformazione dei montanti in rendita previsti dalle leggi precedenti (ogni tre anni invece che ogni due). 

I mutamenti più significativi riguarderebbero il ripristino delle pensioni di anzianità. Si tornerebbe nei sistemi retributivo e misto alla quota 97, con un età di pensionamento, tenendo conto della finestra di 12 mesi, di 63 anni e tre mesi con 36 anni di contribuzione o di 62 anni e tre mesi e 37 anni di contribuzione o, in alternativa, 41 anni di contribuzione, compresa la finestra, a prescindere dall’età anagrafica. Era quest’ultima la principale “anomalia” del sistema pensionistico italiano. Il pensionamento anticipato a 62/63 anni è previsto in molti sistemi pensionistici (la stessa legge Fornero lo prevede a 63 anni nel sistema contributivo). Dal punto di vista della sostenibilità, dopo tutte le riforme effettuate tra il 2004 e l’agosto del 2011 era l’unico punto su cui era “necessario” intervenire. Tutto il resto rispondeva ad esigenze di cassa, di finanza pubblica, di “assicurazioni” all’Europa. 

Con l’abrogazione della Fornero questo punto tornerebbe ad essere un punto critico unitamente ad altri due punti non affrontati dalla legge 214, la perdita di flessibilità operata dalla legge 243/2004 e l’incapacità del sistema contributivo di assicurare pensioni adeguate in caso di carriere contributive irregolari. Nessuna risposta darebbe il referendum a questi due ultimi problemi.

Tra i numerosi errori della Fornero vi è stato quello di ignorare gli effetti del taglio drastico delle pensioni di anzianità in un momento di crisi economica. La realtà ha poi costretto a correzioni successive che hanno comportato interventi in deroga per un totale di 162.000 lavoratori. A prescindere dal referendum, la legge 214 andrebbe sottoposta, quindi, a un robusto tagliando che affronti in primo luogo il problema di un legame più stretto, specie nelle situazioni di crisi, tra ammortizzatori sociali e accesso alla pensione, e che reintroduca nel sistema un forte elemento di flessibilità volontaria, e che affronti il rapporto tra mercato del lavoro e sistema pensionistico in modo da assicurare sempre importi di pensione socialmente sostenibili.

Nel sistema contributivo è necessario tornare all’impostazione originaria della legge 335 ritornando al principio della neutralità di costo dell’età di pensionamento in funzione dell’età grazie al diverso valore dei coefficienti di trasformazione del montante in rendita, principio negato con la legge Maroni del 2004 (obbligo dei 35 anni di contribuzione)  e negato nella legge Fornero dal requisito d’importo di 2,8 volte l’assegno sociale per potere accedere alla pensione a partire dai 63 anni di età. Va quindi eliminato questo requisito d’importo. 

Il problema maggiore, tuttavia, anche e soprattutto dal punto di vista delle coperture da trovare, sta nel reintrodurre una flessibilità di uscita oggi, nel sistema retributivo/misto. Il problema da risolvere è se si vuole continuare con provvedimenti ripetuti su nuovi contingenti di esodati o se si sceglie di rimodulare l’età di pensionamento in funzione del mercato del lavoro e della struttura degli ammortizzatori sociali, coinvolgendo anche le imprese nei costi di queste modifiche. Le regole del sistema pensionistico non possono prescindere dalla struttura del mercato del lavoro e questo vale anche per la determinazione della copertura pensionistica. 

Il sistema attuale, sia quello pubblico che quello integrativo, sono modellati su di un lavoratore regolare a cui, complessivamente, è assicurato una buona copertura. Chi non rientra in questa figura non è invece sufficientemente tutelato dal sistema pubblico e tanto meno da quello integrativo. Il sistema va quindi ripensato per il futuro anche sotto questo aspetto

Nel necessario tagliando vi sono altri punti specifici sui quali sarebbe utile/necessario intervenire oltre a disboscare il sistema da privilegi vari. Il primo riguarda il sistema di rivalutazione annua dei contributi versati o, nel retributivo, di rivalutazione delle retribuzioni pensionabili. L’indice stabilito dalla l. 335 per la rivalutazione dei montanti contributivi (la variazione media quinquennale del Pil nominale) per la prima volta ha assunto un valore negativo con la conseguente possibilità di diminuzione del montante. 

Questo effetto paradossale pare scongiurato, ma ha sollevato l’attenzione sul fatto che negli ultimi anni la rivalutazione dei montanti è stata sistematicamente inferiore al tasso di inflazione, tanto che nell’ultimo quadriennio sono diminuiti in termini reali del 4,2% con effetti negativi sull’ammontare di pensione. L’indice che sembrava così “garantista” non ha retto rispetto a un periodo lungo di crisi accompagnato da una caduta di inflazione. Si può sostenere che questo fatto sia lo scotto da pagare per rendere sostenibile il sistema pensionistico che non può esserne immune da una caduta prolungata del Pil. 

Questa tesi, tuttavia, diventa insostenibile se riferita alla rivalutazione dei montanti confrontata con la contemporanea rivalutazione delle retribuzioni pensionabili nel sistema retributivo. In quest’ultimo sistema la retribuzione pensionabile utile per il calcolo della quota A della pensione (periodi fino al 1992) è rivalutata in base al costo della vita, mentre la retribuzione pensionabile utile alla quota B (periodi dal 1992 al 2011) è rivalutata in base al costo della vita più 1 punto ogni anno. Il valore della retribuzione utile per la quota A non ha perso valore in termini reali, mentre il valore di quella utile per la quota B è cresciuta in termini reali di 1 punto ogni anno. In questo caso non c’è alcun legame tra sistema pensionistico e Pil. 

Non è detto che uno dei due sistemi sia sempre più favorevole dell’altro; in un periodo di forte crescita del Pil nominale è probabile che l’indice con base Pil sia più favorevole dell’indice con base prezzi. Negli ultimi anni, tuttavia, gli effetti di questi diversi sistemi di rivalutazione sono stati paradossali. Nel settore del pubblico impiego, ad esempio, in cui il blocco contrattuale ha comportato una diminuzione in termini reali delle retribuzioni, i lavoratori con la parte prevalente della pensione nel retributivo hanno goduto di un aumento in termini reali della retribuzione pensionabile, e quindi della pensione futura, mentre i lavoratori in tutto o in buona parte nel contributivo hanno subito una diminuzione reale del montante con effetti negativi sulle pensioni. Appare urgente evitare strutturalmente gli affetti negativi prodotti dall’indice con base Pil, ma anche la riunificazione dei sistemi di rivalutazione.

Altro punto bisognoso di manutenzione è certamente il sistema di rivalutazione annua delle pensioni. Le pensioni più basse, quelle inferiori a tre volte il minimo (1.486 euro lorde nel 2014 pari a 1.217 euro nette), sono state sempre integralmente coperte rispetto all’aumento del costo della vita, nei limiti in cui questo è rappresentato dagli indicatori Istat. Le pensioni più alte hanno invece goduto di indicizzazioni via via più ridotte al crescere del loro importo. 

Se prendiamo il periodo tra il 2007 e il 2014 osserviamo come, a fronte di un aumento del costo della vita pari al 13,5%, le pensioni fino a tre volte il minimo siano aumentate del 15%, le pensioni tra 3 e 5 volte il minimo del 8,5%, le pensioni tra 5 e 6 volte il minimo del 7,8%, le pensioni tra 8 e 9 volte il minimo del 5,4% e così via Il problema, quindi, in termini di indicizzazione non riguarda le pensioni più basse, integralmente coperte, o quelle più alte chiamate a un indiretto contributo di solidarietà attraverso un ridotto sistema di perequazione in funzione dell’importo, ma le pensioni medie indebitamente bloccate dalla legge 214 e sulle quali vanno impediti nuovi interventi. 

Vi è tuttavia un problema più generale che si pone dal punto di vista della sostenibilità, in particolare del rapporto spesa/Pil. Sempre nel periodo 2007-14 a fronte dei valori sopra ricordati della perequazione dei vari importi di pensione vi è stato un aumento del Pil nominale dello 0,9% e una diminuzione del Pil reale del -9%. Che le pensioni, specie quelle più basse, vadano tutelate non vi è dubbio, ma è anche irragionevole pensare che la loro perequazione sia totalmente indipendente dall’andamento di quella ricchezza nazionale che è chiamata a sostenerle. Era ed è giusta la rivendicazione di un legame rispetto alla crescita del Pil, ma questo legame non può non esserci anche nei momenti di diminuzione della ricchezza nazionale.

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