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Solo le donne possono fermare la guerra

Un anno e mezzo fa, di questi tempi piangevamo le vittime di Bucha in Ucraina. Quello che è successo in Israele a Kfar Aza e a Reim il 7 ottobre scorso è un massacro di Bucha moltiplicato per cento. E non un gemito! Soltanto condanne formali, qualche manifestazione e preghiere nelle sinagoghe.

In televisione vediamo morti tutti i giorni. E siamo abituati a veder morire gli ebrei. Dal punto di vista storico, non si tratta certo di una novità. Ne siamo inorriditi, naturalmente, ma pensiamo già alle conseguenze e alle vittime di Gaza.

In Ucraina, i russi sono considerati assassini. In Francia si fa fatica a considerare “terroristi” gli assassini di Hamas. «Mal nominare le cose è aggiungere sventura al mondo», diceva Albert Camus.

Quando il rivoluzionario russo Željabov e i suoi amici assassinarono lo zar Alessandro II, o quando la giovane Fanny Kaplan sparò contro Lenin, utilizzarono la violenza nel nome dell’idea di libertà che si erano fatti. Agirono per le loro convinzioni politiche. L’assassino del presidente egiziano Sadat, o del Primo ministro israeliano Rabin, pensava di essere soltanto il braccio armato di Dio. Allo stesso modo, gli assassini di Hamas non hanno massacrato i giovani ebrei che partecipavano al Festival Tribe di Nova, dove ballavano in spirito di festa e di comunione, e non hanno decapitato i neonati di Kfar Aza gridando «Viva la Palestina!», ma «Dio è grande!». Di fronte a chi agisce nel nome di Dio, qualsiasi azione razionale è destinata a fallire. Alcuni secoli fa, Voltaire ne ha preso atto con amarezza nel suo Trattato sulla tolleranza.

Peraltro, è trascorsa un’eternità da quando Dio ha parlato agli uomini. E quando ha parlato loro, secondo i libri sacri delle tre grandi religioni monoteistiche, lo ha fatto per professare la pace. «Non ucciderete nessuno di coloro che Dio ha reso sacri» (Corano, sura VI, versetto 151). Oggi, quelli che parlano a suo nome usano la fede dei fedeli per il loro tornaconto. Dietro gli assassini di Hamas ci sono l’Iran e i suoi mullah, quegli stessi che in nome di Allah decapitano le giovani iraniane che si rifiutano di indossare il velo, quelli che rivendicano il diritto di scegliere per loro gli uomini che devono sposare.

Gaza. Per quasi vent’anni questo territorio è stato occupato dall’Egitto. Poi, dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967, da Israele, fino alla sua evacuazione militare nel 2005, secondo quanto previsto dal piano di disimpegno unilaterale voluto da Ariel Sharon, allora Primo ministro, e al ritiro, con la forza, delle colonie ebraiche che vi si erano installate. Tutto questo accadeva diciotto anni fa. Fatah e Hamas, però, non sono riuscite a dar vita a un governo di unità nazionale. Gli scontri omicidi tra queste due fazioni si sono moltiplicati, fino a quando, nel giugno 2007, Hamas ha preso il potere a Gaza. La sua gestione profondamente corrotta del territorio ha scatenato proteste. La rivolta del giugno di quell’anno si è conclusa con uno spargimento di sangue.

Ecco spiegato il motivo per cui, davanti alle immagini trasmesse dalle televisioni di un bambino ebro chiuso in gabbia e portato in giro per strada, non si è vista una folla esultante, ma soltanto alcuni uomini che gridavano «Allah akbar». Gli abitanti di Gaza hanno paura.

Dall’altra parte, in Israele, la popolazione è traumatizzata dalle immagini dei bambini ebrei decapitati. Gli israeliani sono pieni di rabbia. È un dato di fatto, e si sa: rabbia e paura non vanno mai d’accordo.

Tuttavia, mentre l’Occidente si preoccupava per i passi avanti dell’Iran in ambito nucleare, Teheran ha creato bande di assassini in tutto il Medio Oriente, capaci di modificare l’assetto della regione. Negli ultimi mesi a Beirut si sono svolte numerose riunioni alle quali hanno partecipato rappresentanti di Hamas, Hezbollah, Jihad islamica, al-Qaeda e Isis. Il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Israele ha costretto i mullah ad accelerare il loro progetto per l’intera regione, e Hamas ne è stato il detonatore. Dall’ottica di Teheran, l’aggressione contro Israele avrebbe dovuto essere abbastanza violenta da costringere lo Stato ebraico a impegnare tutte le sue forze contro Gaza. Le immagini della popolazione annientata dalle bombe sioniste erano pronte. Circolavano già sui social network. Israele è caduta nella trappola. Ma avrebbe potuto andare diversamente? In qualsiasi guerra, giusta o ingiusta che sia, Israele – unico Paese al mondo la cui esistenza stessa è contestata da alcuni – si batte con le spalle al muro. E gli iraniani lo sanno.

E adesso? La fase successiva, secondo me, sarà l’entrata in guerra di Hezbollah e poi di al-Qaeda nel Nord di Israele. Nel frattempo, altrove, nel mondo arabo, altri gruppi terroristici prepareranno atti di sabotaggio contro gli oleodotti dei Paesi che hanno firmato accordi con Israele. Le reti dei Fratelli Musulmani – ben radicate in Europa – continueranno ad adoperarsi per destabilizzare il mondo occidentale. Lo dimostra l’omicidio del professore Dominique Bernard: anche se a prima vista non ci sono collegamenti operativi tra i terroristi di Hamas e il terrorista di Arras, il collegamento esiste sul piano ideologico.

Nel progettare la loro adesione ai Brics (il blocco antioccidentale), gli iraniani sono riusciti a far cadere in trappola sia la Russia sia la Cina, trascinandole in una guerra non loro e in linea con la quale si sono schierate davanti al Consiglio di Sicurezza. Gli americani hanno fatto bene a mandare nel Mediterraneo la loro flotta di navi da guerra.

Se penso che soltanto quattordici anni fa, nel 2009, ho accompagnato un convoglio di pace composto da trentasei autoarticolati contenenti settantacinque tonnellate di viveri, materiale scolastico e giocattoli da distribuire ai bambini di Gaza, sul versante palestinese, e ai bambini di Sderot, sul versante israeliano. Il minibus a bordo del quale viaggiava la nostra delegazione precedeva i camion ed era decorato da uno striscione enorme, sul quale si leggeva «paix, shalom, salam, peace». Avevo avvisato le autorità israeliane e anche Khaled Mechaal, il capo di Hamas conosciuto a Damasco nel 2006 quando avevo perorato la liberazione di Gilad Shalit, un giovane soldato israeliano tenuto in ostaggio dai suoi uomini. L’avventura del Bene è molto più complessa di quella del Male. L’omicidio di un unico individuo è molto più spettacolare del suo salvataggio.

Un giornalista mi ha chiesto se sono pronto a ricominciare. Sì, certo. Quando si vogliono salvare delle vite umane, capita di ritrovarsi in mezzo a persone poco raccomandabili. Il Talmud non ordina forse a qualsiasi comunità il riscatto dei prigionieri, comprese le loro spoglie per dare loro degna sepoltura?

Ammettiamolo: noi occidentali, noi ebrei, abbiamo commesso molti errori. Persuasi che il peggio fosse ormai alle spalle, non abbiamo riletto la Storia. Si dice che, prima di prendere una decisione importante, Pericle rileggesse Omero.

«E adesso?». Mi sento come Sisifo, leggendario personaggio della mitologia greca condannato a sollevare per l’eternità un pesante macigno che, trasportato in cima a una montagna, rotola giù di continuo, costringendolo a ripetere la sua fatica all’infinito. Non eravamo vicinissimi a raggiungere la vetta quando, esattamente trent’anni fa, israeliani e palestinesi hanno firmato la pace a Oslo? Quella pace fu assassinata da un estremista ebreo, un fanatico religioso che sparò alle spalle a Yitzhak Rabin, il Primo ministro di Israele di allora.

In ogni caso, convinto come Sisifo che ci sia sempre una opportunità, io non desisterò mai. So che questa opportunità oggi è nelle mani delle donne. Ricordiamo tutti la guerra fratricida tra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord e il corollario dei morti. Ci furono vari tentativi di risolvere la questione a livello politico. Ci furono molti intermediari. Alla fine, però, a mettere fine al massacro furono le mogli e le madri delle vittime di quella guerra inutile. Si espressero parlando a nome della Coalizione delle Donne dell’Irlanda del Nord. Migliaia di donne di entrambi gli schieramenti si erano date appuntamento a Belfast ogni quindici giorni prima e tutte le settimane poi, fino alla firma degli accordi di pace del 10 aprile 1998. Quella guerra fa ormai parte del passato.

Proviamo a immaginare quindi, a nostra volta, che decine di migliaia di donne israeliane e palestinesi si mettano in marcia in massa da Gerusalemme in direzione di Gaza, sventolando una bandiera su cui si legge «paix, peace, shalom, salam». Proviamo a immaginare che tutte le televisioni del mondo le riprendano. Proviamo a immaginare che sui social i loro volti diventino virali. E immaginiamo che, ovunque, le donne si uniscano a distanza a questa manifestazione cliccando semplicemente sul loro cellulare. Insieme, potrebbero essere milioni.

Chi oserebbe aprire il fuoco su una simile folla di madri, mogli, sorelle e figlie di combattenti?

Direte che sto sognando a occhi aperti… Facciamo in modo che questo sogno si trasformi in realtà. 

* scrittore ebreo polacco, che nel 2009 guidò il corteo per la pace a Gaza e a Sderot traduzione di Anna Bissanti, La Stampa 22/10/ 2023 

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