Quando fu istituito nel 1978 il Servizio Sanitario Nazionale, Tina Anselmi che lo volle con tenace determinazione – contro i tanti estimatori della situazione esistente imperniata sulle Mutue, presenti soprattutto all’interno della Democrazia Cristiana e cioè in casa propria – così definì i suoi capisaldi: “globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza dei trattamenti, rispetto della dignità e della libertà della persona”. Una rivoluzione progressista che faceva fare un salto di qualità al benessere degli italiani e sigillava la maturità della cultura del welfare anche nel nostro Paese.
Dopo 45 anni, quelle caratteristiche appaiono quanto meno sbiadite, spesso negate, molto arlecchinate, alquanto bistrattate. Finanche l’universalità dei destinatari che è il criterio che resta il più solido, nei fatti vede l’esclusione dei meno abbienti, specie per quanto riguarda le prestazioni extra ospedaliere, verso le quali è sempre più necessario il concorso economico dell’interessato e il ricorso forzoso e quindi costoso alle prestazioni private.
Nell’insieme, quel Servizio soffre di disservizi di varia natura, dato che ipotizzato per un Paese relativamente giovane, ora deve fare i conti con un invecchiamento della popolazione secondo soltanto al Giappone; perché c’è una programmazione delle professioni che non tiene conto di questo cambiamento epocale e il numero chiuso universitario è solamente scandaloso; perché al professionismo espresso nelle varie attività sanitarie mediamente elevato, corrisponde un’organizzazione del lavoro assolutamente inadeguata e la piaga delle liste di attesa non è che la coda di una “catena del disvalore” che finora non è stata né interrotta, né ridimensionata, salvo qualche situazione di eccellenza; perché a decidere sono in tanti e prevalentemente le Regioni, le quali hanno bilanci per due terzi destinati alla sanità e quindi negli anni le risorse sono state utilizzate in maniera autarchica dalle singole amministrazioni e inevitabilmente disomogenee, come abbiamo potuto toccare con mano nella fase della pandemia.
La lista potrebbe continuare. Ma l’altro capitolo dolente è quello delle risorse. Qui siamo al capolinea. Né lo Stato ha disponibilità a sufficienza per finanziare i tanti capitoli di spesa per renderla più efficiente, né le Regioni possono continuare ad aumentare l’IRAP, che è imposta sul reddito e quindi sostanzialmente solo a carico dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. Tutti gli altri cittadini godono delle stesse prestazioni di chi paga la ritenuta, senza alcun obbligo partecipativo.
Se questo è il quadro della situazione, almeno nei suoi tratti essenziali, la sorte del Servizio Sanitario Nazionale non può essere affidato ai pannicelli caldi delle misure emergenziali che di anno in anno si tirano fuori dal cappello per poter dire che è stata messa una toppa nel vestito che si sta sdrucendo da tutte le parti. Sono necessarie scelte radicali e chiare, adeguate al mutato contesto demografico, sociale ed economico.
Innanzitutto, bisogna riattrezzare i presidi territoriali. Ci sono le risorse del PNRR che potrebbero essere utilizzate a questo scopo e se non bastassero potrebbe essere buona l’occasione per chiudere la diatriba sul prestito MES, vincolandolo alla integrazione con la progettualità sanitaria per tutto il territorio nazionale. Questo è l’unico modo serio di affrontare la questione “code d’attesa” e assicurare prestazioni universalistiche vere; ciò non esclude la cooperazione con i privati, ma il pallino deve rimanere saldamente nella mano pubblica.
In secondo luogo, dare priorità alla formazione di nuovo personale medico e infermieristico, partendo dall’abolizione del numero chiuso per l’iscrizione alle facoltà del settore, divenuto strumento di selezione non di merito per l’entrata e di abbandoni in abbondanza lungo il corso degli studi. Parallelamente si può favorire l’integrazione di laureati e tecnici dai Paesi a forte emigrazione, organizzando “corridoi” ad hoc per immetterli nel nostro mercato del lavoro in modo stabile.
Inoltre, va pianificato l’obiettivo di considerare residuale il ricorso alle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), per rendere realistica la proposta di curare e assistere gli anziani non autosufficienti nelle proprie case. Evitare di ghettizzare i vecchi ma anche di non ridurli alla solitudine è una opzione di civiltà che implica però che non si scarichi tutta la problematica sulle famiglie, quando ci sono. C’è un’esigenza di organizzazione dei servizi che soltanto la crescita del welfare di prossimità può favorire.
Infine, è inevitabile aprire il cantiere di come si finanzia il SSN. Tutte le forze sociali ed economiche devono essere chiamate a co-definire le condizioni per dare gambe solide al SSN, rivedendo in radice il sistema di raccolta delle risorse e stabilendo condizioni e modalità per una contribuzione generale ad hoc, fondata sulla regola “pagare meno, pagare tutti”. Questa coralità è necessaria per evitare che gli egoismi corporativi e le convenienze più immediate si coalizzino al di là del merito, per lasciare le cose così come stanno.
A corollario di tutto ciò, c’è da chiedersi se ha senso una sanità regionalizzata. E’ quasi un quarto di secolo che essa esiste e un bilancio pacato andrebbe fatto, sia sotto il profilo dell’efficienza amministrativa piuttosto che medico ospedaliero, sia sotto il profilo costituzionale della parità tra i cittadini del diritto alla tutela della salute, sia sotto il profilo strettamente politico a riguardo della qualità delle decisioni assunte e della capacità di corrispondere ai cambiamenti della società. Dare per scontata l’immodificabilità di un assetto istituzionale a presidio di una attività così importante per la vita dei cittadini, mi sembra una pigrizia mentale che potrebbe essere nociva per la stessa tenuta democratica del Paese. Non dice niente la progressiva disaffezione degli elettori che si registra da troppi anni, quando vengono chiamati a scegliere i consigli regionali?
In definitiva, lavoro dignitoso e welfare pubblico sono state le bandiere di un progresso civile del nostro Paese. Se cede uno, anche l’altro non resta in piedi. Per entrambi, quindi, è tempo di disegni nuovi, di allontanamento dal Novecento e di immersione nella nuova realtà che non ancora si è delineata compiutamente, ma richiede già di formulare direttrici di profonda innovazione.