Nelle statistiche dell’Unione Europea il nostro paese risulta costantemente agli ultimi posti per quanto concerne la spesa per prestazioni sociali a favore delle famiglie. In rapporto al Pil la percentuale di spesa è pari (ultime statistiche disponibili 2013) all’1,2%. Ci fanno compagnia in fondo alla classifica altri paesi cattolici come la Polonia e la Spagna e l’Olanda. In testa alla classifica, con una spesa per la famiglia superiore al 3% del Pil, si collocano invece Danimarca, Lussemburgo, Finlandia, Svezia, Germania, Regno Unito, Norvegia. La Francia viene subito dopo con una spesa pari al 2,5%.
E’ da dire che questa spesa non comprende tutto l’intervento pubblico a favore della famiglia, ne è escluso ad esempio l’intervento fiscale operato con formule tipo quoziente familiare (Francia), splitting (Germania) o detrazioni d’imposta (Italia) che riducendo il carico fiscale operano di fatto come strumenti che aumentare il reddito disponibile delle famiglie.
Prendiamo ad esempio il caso italiano. La spesa per prestazioni sociali in denaro e in natura a favore delle famiglie nel 2013 è stata pari a 19,4 miliardi di euro. Nello stesso anno le detrazioni d’imposta per familiari a carico sono ammontate a poco più di 12 miliardi di euro. E’ chiaro che conteggiando anche le detrazioni d’imposta gli interventi a favore delle famiglie sono sensibilmente maggiori rispetto a quanto indicato nelle statistiche europee, ma questo vale anche per altri paesi.
Nei due anni dal 2013, in base ai dati italiani già disponibili, la nostra spesa sociale per la famiglia mostrerà una sensibile crescita (fino al 1,6-1,7%) dovuta non a interventi specifici sulla famiglia ma alla collocazione sotto questa voce del bonus di 80 euro, classificato come spesa e non come riduzione fiscale in base alle regole Eurostat.
In quei 19,4 miliardi di euro conteggiati come spesa sociale vi sono voci molto diverse. Un terzo circa (6,3 mld) è rappresentato dagli assegni al nucleo familiare (Anf), 4 mld derivano da indennità di malattia, per infortuni e maternità. Ci sono poi un insieme eterogeneo di altri sussidi e assegni per 3,3 mld (equo indennizzo, liquidazioni in capitale, assegni, indennità, sussidi complementari al reddito) e 3,7 mld corrispondenti a prestazioni sociali in natura in massima parte erogati da enti locali. Dal 2014, come detto, a queste voci si è aggiunto il bonus di 80 euro pari a regime a poco più di 9 mld.
Si tratta di un insieme eterogeneo di interventi, alcuni di natura assistenziale, altri di natura previdenziale, finanziati diversamente, che non evidenziano una chiara e strutturata politica per la famiglia. Anche gli interventi degli ultimi governi con misure correttive delle detrazioni per figli a carico o con i vari bonus bebè, pur utili in sé, non contribuiscono certamente a delineare una politica complessiva a favore della famiglia e/o comunque a sostegno dei figli.
Questa mancanza è certamente una delle cause che hanno portato il nostro paese ad avere uno dei più bassi tassi di fertilità in ambito europeo. Ho sottolineato una perché non è certo la sola mancanza di sostegno economico alla famiglia a determinare un basso tasso di fertilità. Lasciando stare paragoni fuorvianti con paesi poveri ad alta natalità, abbiamo in Europa paesi in cui la spesa sociale per le famiglie è elevata ma il tasso di fertilità è, come in Italia, estremamente basso. La Germania che vanta un’alta spesa per la famiglia, 3,1% del Pil, ha un tasso di fertilità di poco superiore a quello italiano (nel 2014 1,47 contro 1,37). Molteplici sono le cause che incidono sul tasso di fertilità: cause culturali, composizione per età della popolazione, presenza o meno di servizi sociali capaci di conciliare figli e lavoro, l’età del matrimonio o di unioni stabili e altro ancora. E tuttavia è innegabile che una politica di sostegno con prestazioni monetarie e servizi può contribuire a rendere più elevato il tasso di fertilità e comunque a garantire maggiore equità nella distribuzione del reddito disponibile.
Se, come detto, un’alta spesa per la famiglia non garantisce questo risultato, le statistiche Eurostat (maggio 2016) ci dicono anche che i paesi dell’Unione con più alto tasso di fertilità hanno generalmente un’elevata spesa sociale per la famiglia e, viceversa, che i paesi con basso tasso di fertilità hanno generalmente una bassa spesa sociale per le famiglie. Germania, Austria e Olanda rappresentano le principali eccezioni a queste correlazione, con le prime due che affiancano ad una elevata spesa un basso tasso di fertilità e la terza all’opposto che mostra un discreto tasso di fertilità a fronte di una bassa (1% del Pil) spesa per la famiglia. Da sottolineare che l’unico paese dell’Unione che ha un tasso di fertilità superiore a 2 è la Francia mentre tutti gli altri si collocano sotto quel valore. Difficile con questi numeri ignorare la tendenza all’invecchiamento più o meno rapido della popolazione in tutti i paesi europei e il ruolo necessario che assume l’immigrazione.
Il confronto tra paesi sulle politiche di sostegno alla famiglia non può limitarsi all’ammontare della spesa sociale. Non ha molto senso ignorare il ruolo del quoziente familiare in Francia o quello della presenza e/o gratuità di servizi specifici spesso collocati dal punto di vista statistico fuori dalla spesa sociale. Negli ultimi venti anni, ad esempio, la spesa sociale per le famiglie in Italia è passata dallo 0,9 all’1,2% del Pil ma nello stesso periodo il costo di alcuni servizi (asili nido e scuole materne ad esempio) è sensibilmente aumentato. Che questi servizi, oltre che disponibili, siano gratuiti oppure no può fare una grande differenza nel tempo e nel confronto tra paesi.
Le due principali voci a sostegno della famiglia sono rappresentate oggi nel nostro paese dagli Anf e dalle detrazioni per familiari a carico. Si tratta di due interventi che non hanno alcuna correlazione tra loro, che riguardano platee diverse, che fanno riferimento a redditi diversi, familiare il primo e individuale il secondo, che hanno natura diversa rispettivamente previdenziale/assistenziale e fiscale.
Gli Anf nascono come prestazione previdenziale per i lavoratori dipendenti con finanziamento a carico delle imprese. Attualmente il contributo è sceso sotto l’1% e parte degli Anf è finanziato dalla Gias (Gestione delle prestazioni assistenziali). La platea dei beneficiari è costituita da lavoratori dipendenti, dagli iscritti alla gestione separata, dai pensionati a carico del fondo pensioni lavoratori dipendenti, fondi speciali ed Enpals. Il reddito di riferimento è quello familiare e deve essere composto, per almeno il 70%, da reddito derivante da lavoro dipendente ed assimilato.
L’ammontare degli assegni è correlato da un lato al reddito del nucleo familiare, dall’altro alla composizione e numerosità della famiglia a prescindere che i suoi componenti siano o meno a carico (l’ammontare degli importi è indicato ogni anno con validità dal 1° luglio). Gli assegni cessano quando i figli raggiungono la maggiore età (a meno di inabilità). Per la determinazione del reddito familiare ci si basa su autodichiarazioni.
Informazioni sul numero e caratteristiche dei beneficiari e sull’ammontare della spesa si hanno solo per gli assegni erogati dall’Inps per il settore privato. Nel settore pubblico si ha certezza solo sull’ammontare delle prestazioni erogate dalle amministrazioni centrali, mentre è solo stimato quello derivante dalle prestazioni erogate dagli enti locali.
Il limite maggiore degli Anf è che riguardano sostanzialmente solo i lavoratori dipendenti. Coprono poi solo i figli minori. Il pregio maggiore è che non soffrono essendo una spesa a differenza delle detrazioni del problema dell’incapienza.
Le detrazioni d’imposta per familiari a carico hanno tutt’altra natura. I beneficiari sono tutti i contribuenti che versano un’imposta Irpef e hanno come riferimento il reddito individuale soggetto a questa imposta. Le detrazioni riguardano familiari considerati a carico e non cessano con la maggiore età. Sono decrescenti in funzione del reddito e tengono conto dell’età dei figli e della presenza di un numero di figli superiore a tre.
Il loro maggior difetto è dato dall’incapienza ossia dalla possibilità che il contribuente abbia un’imposta lorda inferiore alle detrazioni teoricamente spettanti. In questo caso godrebbe solo di una parte delle detrazioni teoriche e si stima in circa 2 mld la perdita di detrazioni dovuta a questa causa. Inoltre, siccome il presupposto è un reddito Irpef, ne sono del tutto esclusi i soggetti senza reddito o con reddito non imponibile a prescindere dai carichi familiari.
Dalla breve descrizione fatta risultano esclusi dai due principali interventi di sostegno alle famiglie tutti coloro che non godono di un reddito da lavoro dipendente o assimilato e che hanno un reddito inferiore al minimo imponibile Irpef. Possiamo dire che ne sono esclusi buona parte dei soggetti in condizioni di povertà
Che la situazione sia questa è universalmente noto, come il fatto che il nostro sistema di welfare escluda totalmente o parzialmente da tutele gli strati più poveri della popolazione. E’ un welfare molto correlato all’età e alla tipologia di lavoro e meno alle condizioni reddituali che non rientrano nelle prime due categorie. E’ un sistema di welfare rimasto legato agli anni sessanta/settanta e che stenta in buona misura ad adeguarsi a condizioni diverse di mercato del lavoro e di società.
Diverse sono state le ipotesi di revisione delle politiche per la famiglia, ma spesso sono state viziate da pregiudizi ideologici (tipologia di famiglia) e dalla difesa, pur comprensibile, di posizioni acquisite. Hanno comunque sempre dovuto fare i conti con i problemi di bilancio pubblico e di altre priorità.
Il basso tasso di fertilità e il conseguente invecchiamento della popolazione sono stati indicati tra le cause della necessità di riforme pensionistiche ma non hanno mai prodotto una reale consapevolezza della necessità di politiche per la famiglia, così come sono sempre mancate politiche di contrasto alla povertà.
C’è la necessità di politiche a favore della famiglia e/o dei figli che tutelino in primo luogo tutte le situazioni di povertà e che estendano questa tutela almeno ai redditi bassi e medi a prescindere dallo loro genesi.
Questo intervento non può essere, a mio avviso, di natura fiscale perché incontrerebbe i limiti dell’incapienza, a meno di non introdurre un’imposta negativa, e non potrebbe avere a riferimento, data la natura della nostra Irpef, il reddito familiare.
Dovrebbe essere una prestazione sociale sotto forma di assegno erogata in funzione del reddito e della composizione del nucleo familiare a totale carico dello stato ed estesa a tutti. Certo se si prendessero a riferimento gli attuali valori dell’Anf per i lavoratori dipendenti e li si estendessero a tutti la spesa sarebbe elevata. Tuttavia si partirebbe con un ammontare di risorse già disponibili derivante dall’eliminazione delle detrazioni (circa 13 miliardi). Il punto sta nelle priorità che governo e parti sociali intendono perseguire. Se una politica di intervento a favore delle famiglie e dei figli è ritenuta necessaria questa mi pare una strada obbligata.