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Spostare le priorità dal reddito al lavoro

Uno sciopero non si nega a nessuno. Era un modo non svilente ma   sdrammatizzante che negli anni 70 e 80 correva nei corridoi delle sedi sindacali, quando la conflittualità era all’ordine del giorno. Non valeva, però, per lo sciopero generale confederale. Tutti erano e sono consapevoli che, in qualsiasi vertenza, quell’arma, una volta usata, non poteva essere riusata. Era il classico colpo in canna che, una volta partito, metteva in soffitta l’arnese da cui era uscito. Questa regola non scritta, ma praticata, ha portato molti successi al sindacato se era unitario, ha provocato più danni che vantaggi ai lavoratori, quando non lo è stato.

Infatti, per attenuare la portata del danneggiamento, resta negli annali del sindacalismo italiano la decisione di Benvenuto, Carniti e Lama di mantenere lo sciopero generale indetto con massiccia manifestazione a Roma (siamo nel 1982 ed in ballo c’era il destino della scala mobile, con evidenti divergenze più tattiche che strategiche tra le organizzazioni) ma di realizzarlo nel silenzio più assoluto. Quindi niente slogan, niente discorsi finali, solo bandiere al vento ma ben distinte per organizzazione e i tre leaders in testa al corteo, uno a fianco all’altro. La priorità era data innanzitutto al protagonismo dei lavoratori. Altri tempi. 

Nessuna persona di buon senso ha contestato a CGIL e UIL di esercitare la prerogativa di indire lo sciopero generale. Nessuno ha messo sotto processo la CISL per non averlo proclamato. Tutti abbiamo capito che CGIL e UIL, per avere di più di quello già acquisito dagli innumerevoli incontri a Palazzo Chigi, hanno ritenuto che bisognava politicizzare la vicenda. Anche la CISL ha dichiarato di volere di più, ma che il modo migliore per ottenerlo era quello di non politicizzare la vicenda. Le divergenze non riguardano prevalentemente il merito, almeno nelle apparenze, ma semmai il metodo. Però, anche questo è sostanza, se di mezzo c’è lo sciopero generale.

E che sostanza! Non si è capito chi fosse il destinatario. Non il Governo, su questo Landini, più di Bombardieri, è stato categorico. Non le controparti imprenditoriali, verso le quali c’è stata più indifferenza che chiamata alla connivenza per la presunta pochezza delle risposte ottenute. Restano i partiti che siedono in Parlamento ed in particolare quelli della maggioranza. Anche se è stata ventilata una loro primaria responsabilità nell’aver convinto CGIL e UIL a dichiarare lo sciopero generale, c’è da credere che non vi fosse alcuna intenzione eversiva ma solo dialettica. Paradossalmente, anche la CISL ha visto nelle forze della maggioranza parlamentare l’interlocuzione giusta per migliorare ciò che non si era ottenuto con il Governo.

In questa indeterminazione di obiettivi e di interlocutori, di positivo c’è che lo sciopero generale, con il passare dei giorni, ha perso di vera politicità. E’ rimasta in piedi soltanto la valenza identitaria. Non fa male alla salute del sindacato, nonostante le contraddittorie notizie circa il suo successo non nelle piazze ma nei luoghi di lavoro, ma è un po’ pochino, appunto, “politicamente”. 

Ed ora che è stato consumato, occorre capire cosa sia mancato all’insieme del sindacalismo confederale italiano per essersi ritrovato diviso dopo una fase non breve di unità di intenti e di iniziativa. L’accento posto sulle politiche redistributive per dare risposte alle crescenti disuguaglianze, dopo la lunga stagione dell’austerità, si scontra con la realtà di un loro finanziamento in deficit. Non c’è ricchezza prodotta sufficiente per redistribuire, in modo adeguato, alle aspettative delle fasce più deboli della società. Se fosse il contrario, da tempo si sarebbe scatenata una diffusa guerriglia salariale e pensionistica.  Il gradualismo è una necessità e il fatto che la BCE annunci che ridurrà gli acquisti di titoli di Stato, per non alzare i tassi d’interesse a seguito della crescente inflazione, non è una buona notizia.

La verità è che le disuguaglianze non si fermano nei connotati quantitativi della distribuzione dei patrimoni e dei redditi delle persone e delle imprese. Si alimentano di mancate riforme (catasto, evasione, improduttività amministrativa e giudiziaria, violazione di diritti, illegalità diffusa, ecc.) e di inadeguate politiche per l’occupazione. Il lavoro che manca e che cambia non crea meno disuguaglianze della distribuzione iniqua della ricchezza. Specie in una fase come l’attuale che ripropone una nuova rivoluzione produttiva e di servizi per realizzare un’economia circolare ed ecosostenibile.

Si stanno accumulando documenti e prese di posizione di intere categorie e settori che, responsabilmente, stanno ragionando su come affrontare la sostenibilità ambientale coniugando innovazione tecnologica e digitale e tenuta dell’occupazione. Dalla chimica, all’automotive; dall’edilizia all’agroalimentare; dalla grande distribuzione al sistema bancario ci si sta interrogando su come e in che tempi il processo di cambiamento possa avvenire senza morti e feriti di aziende e di occupati. I soldi del PNRR non possono essere utilizzati senza dare un respiro convincente sul mutamento qualitativo e quantitativo dell’occupazione. Non sarebbe esagerato se il sindacato fosse coinvolto preventivamente nella cabina di regia che sarà preposta alla individuazione degli investimenti finanziati dal PNRR.

E’ su questo scenario che sarà interessante, dopo l’approvazione della legge di stabilità, verificare se l’unità del sindacalismo italiano si allontanerà perché insiste soltanto sulla priorità delle questioni redistributive o si rivitalizzerà scegliendo di assegnare alla realizzazione delle riforme e al superamento delle disuguaglianze ambientali, territoriali ed occupazionali quella rilevanza che è necessaria per dare speranze ai giovani e ai lavoratori più esposti alle presenti e future fragilità.   

  

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