Il settore dell’auto è ciclicamente esposto a situazioni di difficoltà, collegate a crisi economiche, salti tecnologici, interventi normativi; tuttavia, le vicende che riguardano Stellantis ci pongono di fronte ad un inedito scenario di governance e government.
La competizione internazionale presente nel settore, anche a causa delle importanti aggregazioni necessarie a mettere in campo gli investimenti per la ricerca, innovazione e sviluppo, è soggetta ad un tavolo di governance inedito.
Infatti, la scelta del nuovo amministratore delegato di Stellantis si farà ad un tavolo in cui saranno presenti Trump, Macron e Scholz non nel loro ruolo di governanti dei rispettivi paesi ma in quello di azionisti.
A quel tavolo, per l’Italia, non sederà Giorgia Meloni, ma John Elkann; iL risultato è che Trump, Macron e Scholz potranno agire sia la leva degli azionisti sia quella dei governanti; l’Italia, invece, sarò rappresentata da Elkann – Presidente di Stellantis e quindi nella condizione di dover tutelare tutti gli azionisti.
In realtà, la competizione giocata solo tra singoli paesi, pur avendo in mano le leve governative, è largamente insufficiente; la vera protagonista – per presenza o per assenza – al tavolo globale sull’industria dell’auto è l’Europa.
Ma, allo stato attuale, l’Europa degli egoismi nazionali non è stata (ancora?) in grado di dare vita a un grande player dell’auto a matrice europea.
I primi concorrenti di Stellantis, dentro questa prospettiva, sono Renault e Volskwagen, ma, se Sparta (Stellantis) piange, Atene (Renault e Volkswagen) non ride.
Il risultato è che, in assenza di cooperazione europea, la partita della competizione è perdente: non per Stellantis, per tutti i costruttori europei.
Un altro tratto della crisi Stellantis, almeno sul panorama nazionale, riguarda un problema ricorrente nella storia della Fiat; a un certo punto, si perde di vista il prodotto e si creano ritardi di tempi, di capacità di innovazione e di modelli che fanno giocare la competizione con una mano legata dietro la schiena.
L’Italia ha avuto per molto tempo una leadership sulle motorizzazioni ibride e diesel; inspiegabilmente, abbandonata la ricerca e lo sviluppo su queste propulsioni, il risultato è che – in tempi di transizione ambientale – l’unica risposta sul mercato appare l’elettrico.
Eppure, nella gamma prodotto delle vetture Fca, fino a 6 anni fa, vi erano alimentazioni a metano, gpl, ibride; e vi era in sviluppo l’ibrido a gasolio.
Per non parlare dello stile, fiore all’occhiello dell’automotive made in Italy; cosa c’è del family feeling Fiat (in questo caso l’azienda va chiamata così) nella nuova 600 e nella nuova Ypsilon? Potrebbero essere tranquillamente vetture Opel, Citroen o Peugeot.
Motorizzazioni e stile: tutto improvvisamente e inspiegabilmente abbandonato.
Il terzo tratto di questa situazione, strettamente collegato agli altri due, è la fuga di competenze, si potrebbe dire di cervelli dell’auto; nel silenzio dei mezzi di comunicazione e della politica – abituati a vedere l’iceberg solo quando emerge dall’acqua – il settore automotive in Italia ha perso 21.000 addetti, di cui 8.000 in Stellantis.
8.000: come aver chiuso due stabilimenti.
Nel mondo non ci sono cento luoghi in cui risiede il sapere dell’automotive; Detroit negli USA, Wolfsbourg e Russelsheim in Germania, Poissy e Mulhouse in Francia; Toyoda in Giappone; e Torino.
Sono posti in cui si pensa l’auto, la si sviluppa, la si progetta e industrializza, la si produce.
In Europa ci sono 104 siti produttivi; ma i posti in cui si scruta, sviluppa e realizza il futuro dell’auto si possono contare sulle dita di una mano.
La vera crisi di Stellantis, su Torino, e quindi sull’Italia, riguarda la capacità di presidiare tutto il processo di ideazione, sviluppo e produzione dell’auto.
A questo occorre dare risposta, per Stellantis e per tutto l’indotto, che ancora rappresenta il 70% del valore aggiunto di una vettura.
Per preservare il dominio su tutto il processo dell’auto occorre preservare e potenziare le competenze su tutta la filiera.
Al Governo non va chiesta la politica industriale; quella, com’è noto, la fanno le imprese.
Al Governo va chiesta una politica per l’industria, vale a dire un insieme di provvedimenti che guardino alla capacità di preservare e ricostruire il capitale umano che può fare ricerca, innovazione, sviluppo e produzione.
Una leva a disposizione delle pubbliche amministrazioni è anche quella regolatoria e immobiliare, su ispirazione di quanto fatto nel 2005 con lo “scambio” tra acquisto di parte dei capannoni Fiat e produzione della Grande Punto.
Per questo, le poche risorse disponibili vanno veicolate a favore dell’indotto dell’automotive; Stellantis cerchi tra i propri azionisti i capitali utili a rilanciare la sua capacità competitiva.
E, infine, l’indotto: esistono grandi multinazionali della componentistica che decidono dove allocare i propri stabilimenti e centri di ricerca sulla base dell’attrattività del territorio e – naturalmente – dei volumi che vi vengono sviluppati.
Torino e il Piemonte hanno ancora un tessuto locale di indotto, fatto di imprenditori e di autonome imprese di medie dimensioni, che può ancora contribuire al processo di innovazione e sviluppo dell’automotive.
Se vuole sopravvivere, e se le istituzioni locali lo vogliono preservare e sostenere, occorre sviluppare un consorzio dell’indotto alla cui testa mettere il Politecnico di Torino e il Centro per l’intelligenza artificiale, che sappia proporre ai mercati internazionali sistemi e componenti made in Torino, uno dei posti in cui si pensa l’auto.
Non è troppo tardi per convincersi che per il sistema dell’indotto per stare in campo nella dimensione dell’automotive internazionale, cooperare è meglio che competere.
*Già Segretario Generale CISL Torino e poi Vice Sindaco di Torino