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Studio e lavoro, un binomio sponsorizzato da un ”giusto”

Normalmente i sacerdoti di campagna o di periferia vengono ricordati poco dai loro superiori di Chiesa o dai cultori delle letture erudite, ma sono ricordati molto dalla gente comune, credenti e non credenti. Don Lorenzo Milani è tra questi ultimi, nonostante siano passati 100 anni dalla sua nascita e 43 dalla sua morte. Qualche merito deve per forza averlo.  

Considerato quasi “eretico” dalla Chiesa del suo tempo, post mortem è stato riabilitato con grande prudenza, fino a quando Papa Francesco si recò sulla sua tomba per dirgli che la sua vita è stata “un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa”. Ed ora i credenti aspettano che venga accolto tra i “giusti”, che sotto il profilo ecclesiale, dovrebbe essere il suo approdo naturale.

Ma sotto quella veste talare, divenuta sempre più logora man mano che a Barbiana si consumava la sua vita, batteva un cuore civile di raffinata fattura. Caparbiamente, voleva affermare che la dignità umana aveva bisogno di libertà democratica, di giustizia sociale, di partecipazione attiva. E la molla che poteva alimentare queste tre esigenze, la individuò nel binomio studio e lavoro. Chi aveva accesso a queste due fonti del benessere individuale e comunitario, poteva esercitare con maggiore convinzione e sensibilità le libertà costituzionali, la lotta alle disuguaglianze, l’esercizio del voto. Non a caso, molti dei suoi primi studenti divennero sindacalisti, nelle file della CISL, ricoprendo incarichi anche importanti (fra tutti mi piace citare Michele Gesualdi, diventato Segretario Generale della CISL di Firenze, poi Presidente della Provincia di Firenze e infine Presidente della Fondazione don Milani e consiglio la lettura del suo libro “Don Lorenzo Milani, l’esilio di Barbiana, San Paolo Edizioni, 2016). 

Allargando il campo visivo, qualche anno dopo,  la stessa convinzione la espresse Romano Prodi: “non si può essere un Paese ricco e nello stesso tempo ignorante; prima o poi uno dei due termini deve adeguarsi all’altro”. Don Milani e Prodi non avevano fatto nessuna scoperta; leggevano la realtà che avevano sotto gli occhi e ne traevano le più ovvie conclusioni.

Nonostante i progressi realizzati dagli anni 60 dello scorso secolo ai giorni nostri, nelle scuole e sul lavoro, nonostante che don Lorenzo abbia ispirato insegnanti, studenti, famiglie, legislatori e Governi nel loro agire, una felice interazione tra i due termini non è stata ancora raggiunta. 

Lo studiare non ancora ha metabolizzato la sua funzione di formazione di persone consapevoli che di solo tecnica e nozioni non si può vivere. Il lavoro, a sua volta, non si è candidato in modo determinante a essere sempre più ricco di contenuti, di senso, tanto da stimolare una voglia di sapere che fosse non al suo servizio ma neanche del tutto estranea.

Per troppo tempo si è teorizzata e praticata una distanza astrale tra studio e lavoro, in nome della tutela del primo dall’egemonia del secondo. Una separatezza che ha provocato spesso sia svuotamento di valore dello studio, sia squalifica professionale del lavoro. In altri termini, possiamo contare molte eccellenze tra studenti e best practies di lavoratori. Ma non annebbiano l’enorme bacino di educazione mediocre e di lavoro povero, esistente nel nostro Paese.  

Così i più poveri, i più sfortunati si sono convinti che disertare la scuola non è un dramma esistenziale e solo il lavoro, ma nero, può assicurare i soldi necessari per sé e per la propria famiglia. E’ impressionante ancora oggi l’alta percentuale di abbandoni scolastici dei giovani. Come è sconcertante il gap tra domanda e offerta di lavoro, sia dal punto di vista qualitativo che da quello territoriale. 

L’innovazione tecnologica non aspetta certamente i tempi lunghi se non estenuanti dell’adeguamento delle strutture formative pubbliche, ma non intercetta neanche le forme sussidiarie di formazione che molte strutture private esercitano nei territori. Conosco ottimi istituti tecnici pubblici, buone scuole professionali, efficienti enti formativi della società civile (Enaip, Ial, ecc.), ma il grosso è al di sotto degli standard europei. Conosco ITS e Accademy di seria reputazione. Ma i primi sono poco più di 100 in Italia e le seconde ancora più mosche bianche. 

Migliorare ed alzare il livello di fornitura culturale da parte delle scuole, mettere in campo una politica di continua qualificazione degli insegnanti, non inseguire la domanda innovativa ma possibilmente anticiparla, dotare le scuole pubbliche di strumenti moderni di supporto all’insegnamento, dare strutturalità all’orientamento al lavoro, coinvolgere gli studenti in esperienze vere e non fasulle di alternanza scuola lavoro rappresentano le condizioni minimali per rilanciare la centralità del sapere, come arma vitale per aspirare ad un lavoro decente. 

Le risorse per investimenti in buona parte sono nel PNRR. Ma anche la società civile potrebbe cooperare a dare al binomio studio e lavoro una valenza positiva. Le grandi associazioni del lavoro (da quelle imprenditoriali a partire dalla Confindustria, a quelle sindacali, quali la CISL, la CGIL e la UIL) potrebbero far convergere le loro forze economiche e formative verso un’unica grande struttura di formazione, efficiente ed efficace e capillarmente presente in tutto il territorio nazionale. 

Essa  può diventare un punto di attrazione formidabile, un preliminare importante per un migliore governo del mercato del lavoro e una fonte di riduzione del disinteresse dei giovani rispetto al loro destino lavorativo, soprattutto alla vigilia dell’irruzione dell’Intelligenza Artificiale, che sarà dilagante in tutti i settori dell’attività umana. Scrive Umberto Galimberti “la tecnica ha una razionalità elementare, ma prepotentissima…. chiede all’uomo solo efficienza e produttività. Il rischio è di mettere fuori gioco tutto quello che ci rende veramente umani. Perché l’uomo non è solo razionalità, ma anche irrazionalità, immaginazione, desiderio, sogno ma ciò che fuoriesce dalla tecnica, diventa elemento di disturbo.” (Psiche e Techne, Feltrinelli). Parti sociali che prendessero in mano la formazione dei giovani e degli adulti, dovrebbero anche sotto questo profilo, impedire che la nostra cultura sia solo omologazione ai proprietari della tecnologia. 

Per questo, sono convinto che il civismo  e la visione di don Milani,  dovrebbero continuare ad ispirare anche il nostro tempo, le nostre elaborazioni, i nostri programmi e soprattutto le nostre coscienze. 

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