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Sulla cultura dell’autonomia sindacale

Per quanto indigesti risultino una serie di giudizi storici di Pietro Merli Brandini nel suo libretto “Tornare al futuro” ( Edizioni Lavoro, 2014 ), tuttavia l’autore colleziona una documentazione storica e la riproposizione di alcuni fondamenti dell’autonomia degni di riflessione non solo dei “cislini storici”, ma anche per il dibattito contemporaneo.

Tanto piu’ che le sue riflessioni sono arricchite dalla consenziente prefazione di Giuseppe Bianchi.

Diro’ subito delle cose indigeste per me e per tante persone di lungo corso sindacale, che continuano a interessarsi dei problemi sociali: sono valutazioni storico politiche che con ostinazione egli ripropone in tutti i capitoli della sua elaborazione.

Secondo Merli Brandini l’equilibrio che deve esserci fra societa’ civile e Stato in Italia “si e’ rotto definitivamente nel periodo successivo al 1970. L’evento si e’ realizzato con la creazione dello Statuto dei lavoratori “.

Con un solitario giudizio demolitorio l’autore definisce “traumatico” tale evento perche’ la legge 300/70 avrebbe tolto sovranita’ alla contrattazione obbligando la “trasposizione in legge di tutte le norme regolatrici degli accordi interconfederali“. E quindi “la sovranità sulla gestione delle norme interconfederali e’ passata dalle parti sociali allo Stato e alla sua giurisdizione“.

Messa in questo modo eversivo, l’acquisizione dello Statuto (dei diritti) dei lavoratori mi porta a chiedere a M.B., oltre a confessarsi, di confrontarsi con l’opinione pubblica dei lavoratori, e particolarmente con quella degli stessi cislini di ieri e di oggi. Io confesso di aver vissuto negli anni ’60 il conflitto di posizioni fra la mia anima aclista (sostenitrice della legge sui diritti) e la mia militanza cislina (che invece si opponeva a quella legislazione). Per fortuna fu un ministro ex dirigente CISL (Carlo Donat-Cattin) a risolvere la contraddizione varando il provvedimento e acquisendo il consenso di tutto il movimento sindacale. Cioè anche i cislini piu’ restii salirono sul carro del vincitore e si appropriarono dei benefici dello Statuto.

Tra i diritti dei lavoratori e delle associazioni sindacali nei luoghi di lavoro non figurano norme che condizionino la contrattazione. Rimane l’indicazione della Costituzione (art. 39) che per l’efficacia dei contratti collettivi di lavoro occorre che la stipulazione avvenga attraverso una rappresentanza unitaria. Questa soluzione mediatoria secondo M.B. e’ un “instabile compromesso tra il passato corporativo e il futuro liberale“, perche’ manca il riconoscimento “di un ordinamento pluralistico nei rapporti di lavoro“. 

Questo svilimento (seppur leggero) della legge costituzionale denota un incontinente apprezzamento per il pluralismo sindacale: non basta che “l’organizzazione sindacale e’ libera”, ma si desidererebbe la costituzionalizzazione del pluralismo! Eppure la possibile separazione tra il riconoscimento giuridico e l’efficacia contrattuale attraverso l’accordo unitario, e’ stata praticata in tutto il periodo d’oro della contrattazione interconfederale (1945-1970). Ricordo un unico caso di temporanea dissociazione della Cgil nel 1954 nella trattativa sul conglobamento, poi recuperata. Dunque di fatto, anche dopo la rottura del sindacato unitario nato col Patto di Roma (1944), la pratica unitaria e’ stata riconosciuta come unica misura del “contropotere” sindacale.

Ritornando allo Statuto, il quale ha segnato il riconoscimento delle condizioni di libertà e dignità per i lavoratori – e di autonomia per le organizzazioni sindacali sui luoghi di lavoro – e’ ben chiaro su piano storico e politico che una serie di acquisizioni non sarebbero state alla portata della contrattazione nel nostro paese fra le parti sociali. Faccio due soli esempi: le ore di permesso retribuito per le riunioni degli organismi sindacali costituiti con le rappresentanze aziendali;  l’ingresso del patronato sindacale in fabbrica.

E’ poi singolare il confronto su aspetti positivi della contrattazione che M.B. istituisce con i paesi del Nord Europa, quando in quelle realta’ la condizione con cui opera il sindacato è l’organizzazione e la rappresentanza unitaria.

Noi cislini siamo stati i teorizzatori di partecipazione associata e pratica contrattuale come essenza e fondamento del sindacato. Anzi, talora abbiamo estremizzato questi concetti. Vorrei ricordare un altro dirigente storico della Cisl, su posizioni diversificate rispetto a M.B.: parlo di Luigi Macario che predicava
“contrattare tutto, contrattare anche col diavolo”! In particolare questa sua predicazione si espresse durante l’esperienza di segretario generale della Fim, e creò in tutti noi un fuoco di passione per il contrattualismo….che alla fine peò’ lasciò anche qualche effetto negativo. Parlo della mia esperienza nel Consigio di Gestione Olivetti, ancora in vita nel 1970, quando si stipulava il contratto della “rinascita sindacale”. Ebbene la responsabilità di aver chiuso quell’ esperienza è quasi interamente nostra, perché quell’istituto andava sostituito con le commissioni contrattuali, consensualmente concordate nel 1971 fra le parti sociali aziendali. Eppure poteva essere un’occasione per un laboratorio di sperimentazione, utile quando si decise più tardi di resuscitare l’applicazione dell’art. 46 della Costituzione sulla partecipazione dei lavoratori “alla gestione delle aziende”.

E ora dopo questa analisi critica, rimane da sottolineare lo stimolo positivo che la riflessione di Merli Brandini ci trasmette. Devo innanzitutto ricordare che M.B. negli anni ’70 e’ stato un estimatore del rinnovamento sindacale, e come ricercatore si era inserito bene nell’indagine “su nuove forme di rappresentanza operaia”, ossia i delegati operai, con Roberto Aglieta e Giuseppe Bianchi (Roma, Coines 1970). Allora forse viaggiavamo sulla stessa lunghezza d’onda. Poi le nostre posizioni si sono diversificate, e come usa dire Pietro “siamo diventati semi-consenzienti” cioe’ l’empatia culturale e umana ha sempre fatto premio rispetto alle divergenti posizioni politiche.

Dunque con il suo elaborato M.B. valorizza soprattutto componenti economiche delle relazioni contrattuali: inflazione, debito pubblico/Pil , finanza/economia reale, salari e produttività, occupazione e competitività; mentre per i diritti individuali e collettivi fa un rapido rinvio al “decoro di vita” e alla responsabilità totale delle parti sociali a livello aziendale per ogni tipo di problema.

In sostanza M.B. vede un mercato mondiale esasperatamente concorrenziale e sempre più incontrollato, dove non esiste più la “coesione comunitaria“: che potrebbe essere recuperata a livello aziendale se le parti sociali si rendessero pienamente cooperative o corresponsabili attraverso lo strumento della contrattazione.

L’attenzione critica che l’autore dedica alla nostra struttura industriale e alle forze di lavoro, come anche sulle remore all’innovazione, alla ricerca e all’investimento produttivo, vanno considerate nella parte costruttiva del suo ragionamento. Mi pare ponga al centro delle sue sollecitazioni il risanamento finanziario del debito pubblico (pur nel lungo termine) e il recupero di produttività per la crescita. Importanti (anche se utopiche, oggi 2016) le sue fiduciose aspettative dalla Unione Europea.

E poi veniamo al punto controverso ma importante della sua analisi: la legificazione che ha distrutto tessuto e prassi del contrattualismo. In fondo Pietro e’ un pessimista che osa pensare al futuro: deve solo scartare l’ipotesi presuntuosa che al futuro si possa andare tornando al passato. Come diceva un altro sindacalista
intelligente come Pietro, Vittorio Foa, “il passato ci suggerisce le domande da porre al futuro”, non le soluzioni.
E avrei apprezzato che M.B. avesse annotato questa discrasia, su cui certamente ci troviamo d’accordo: insieme abbiamo lavorato e lottato a lungo per delegificare e contrattualizzare il settore pubblico (ma ormai da anni e’ tutto congelato); invece in quello privato abbiamo permesso l’invasione di tecnici e politici che se ne sono appropriati fino a esondare negli interventi sulle politiche del lavoro e delle relazioni industriali.

Attualmente, il sindacato e’ inchiodato al suo immobilismo culturale di fronte a un mondo in continuo cambiamento. Questo immobilismo si manifesta tanto sul piano della rappresentanza, quanto su quello delle relazioni sindacali; ma io aggiungo anche rispetto all’affiorare di problemi di status etico.

Forse potremmo continuare a dolerci insieme di questa situazione di “accerchiamento” e di “solitudine” del, sindacato: proviamo a dire che oggi non perdere la fiducia e osare creatività non e’ unicamente un problema per la nostra generazione di riservisti, ma e’ una insoddisfazione e una ribellione che dobbiamo trasmettere ai giovani, che sono anche il nostro patrimonio per il futuro.

 (*) Ex Segretario Generale Cisl Piemonte

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