“Dal Governo niente. Sciopero? Solo il Parlamento può evitarlo” così titolava il Corriere della Sera del 19 novembre scorso. Virgolettava un’affermazione di Susanna Camusso, contenuta nell’intervista concessa a valle dell’ultimo incontro con il Governo (ne è previsto un altro il 20), dal quale la Segretaria Generale della CGIL era uscita del tutto insoddisfatta. Non voglio entrare nel merito del giudizio espresso sulle proposte del Governo relative alle pensioni. E’ legittimo che un’organizzazione possa non condividere le soluzioni che le vengono indicate dalla controparte, anche quando si chiama Governo e per di più di centro sinistra. E’ da tempo che tutto il sindacato italiano si è affrancato dalla suggestione del “Governo amico”.
Ciò che sorprende è il riferimento al Parlamento. Sembra che Camusso lo consideri una sede d’appello, rispetto al tavolo del Governo. Sono convinto che sa benissimo che Camera e Senato non sono istituzioni a missione negoziale. Pensa di convincere la maggioranza parlamentare a smentire il suo Governo? Pensa ad una moral suasion sugli schieramenti parlamentari per formare una maggioranza diversa sul tema delle pensioni (Salvini si è già dichiarato a favore finanche per lo sciopero generale)? Pensa, in caso di insuccesso, di mobilitarsi contro il Parlamento? In ogni caso, pensa ad una pesante politicizzazione della questione?
Sarebbe interessante che il capo della più grande organizzazione dei lavoratori dipendenti delineasse meglio i termini della sua lapidaria dichiarazione. I tempi non sono di quelli da ordinaria amministrazione. L’avvicinarsi delle elezioni politiche sprona alle esagerazioni. Il populismo sta montando da tante parti. Sempre in merito alle pensioni, Berlusconi ha già lanciato un’opa sui pensionati promettendo 1000 euro al mese, come minimo per tutti (sentendo l’esigenza di precisare che è per 13 mensilità) e il M5S ne vuole dare altrettanti a tutti i maggiorenni che non hanno lavoro. La CGIL non ha rivendicazioni così qualunquiste ma se, per dare forza alle proprie richieste, alza il tiro non solo contro il Governo ma anche verso il Parlamento è inevitabile che si assume la responsabilità di entrare in un campo più politico che sindacale. Con tutti gli onori ma anche gli oneri.
Certo, tutti i pensionandi sono diventati allergici verso decisioni che spostano l’asticella dell’età di uscita dal lavoro sempre più in alto. Moltissimi apprezzeranno la strategia con cui si sta muovendo la CGIL. Specie quelli che si sentiranno esclusi dalle proposte governative (cioè la maggioranza, dato che pochi sono disponibili a non considerare gravosa la propria attività lavorativa: mai come in questo caso, il “percepito” ha la prevalenza sul “reale”!). Gli onori, quindi, non mancheranno e se si arriverà allo sciopero, non sarà disertato. Ma ci sono anche un paio di oneri che andrebbero presi in considerazione.
Il primo è che, se il tasso di politicizzazione diventasse corposo, si scadrebbe in una crescente vocazione veterolaburista del ruolo del sindacato. Ovunque in Occidente, il modello anglosassone delle Trade Unions pre Blair è stato archiviato. Non per ragioni ideologiche – che per la verità sarebbero sufficienti per giustificare l’abbandono di forme di etero direzione del sindacato nell’agone politico – ma per valorizzare l’autonomia sostanziale della rappresentanza sindacale. Questo rischio è tanto più latente quanto maggiore diventa la diaspora tra le forze riformiste di questo Paese. La contrapposizione – non tra schieramenti destra/sinistra, ma nella sinistra – può portare, finanche involontariamente, nella direzione del sindacato che “dà la linea” in politica. Questo sarebbe più un onere che un onore.
Il secondo costo riguarda l’unità del fronte sindacale. La frattura non sarebbe routinaria. Peserebbe, inevitabilmente, sul futuro del ruolo del sindacato nelle scelte di politica economica e sociale. Ne vale la pena? La questione pensionistica, lo sanno tutti, non si risolve nel bloccare l’automatismo tra pensionamento e speranza di vita. E’ purtroppo enormemente più complessa non solo in Italia ma in tutte le società mature, almeno in Europa. Entro un paio di decenni, il modello attuale risulterà vicino al default finanziario. E’ un modello ancora fordista, anche se la riforma Dini ha retto già per una trentina d’anni, con aggiustamenti successivi e dolorosi, come quello a cui è legato il nome di Fornero piuttosto che quello di Monti. Un modello che il sindacato ha contribuito a realizzare e anche ad emendare e quando non lo ha fatto, non lo ha neanche contrastato, facendosi carico della situazione di emergenza in cui si era cacciata l’Italia berlusconiana. Bisognerà darsi da fare per tempo per rifondare il sistema previdenziale e occorrerà tutta l’unità possibile tra le grandi organizzazioni per non subire soluzioni tecnocratiche e ciniche. E sia chiaro, l’obiettivo di preservare l’unità non riguarda le ragioni di breve periodo, ma è questione di visione lunga sulla società e le sue contraddizioni.
Pochi giorni fa si è ricordato, da più partri, il 60mo anniversario della morte di Giuseppe Di Vittorio. Più passa il tempo e più emerge la sua grandezza di uomo e sindacalista. Fu il primo a mettere in discussione la cinghia di trasmissione tra PCI e CGIL, nei fatti: appoggiò la costituzione delle Partecipazioni Statali, condivise la creazione della Cassa del Mezzogiorno, condannò l’invasione sovietica in Ungheria. Decisioni sempre contrastate dai vertici del PCI. Ma soprattutto, dopo la rottura dell’unità sindacale, non fu mai vendicativo, sempre attento al recupero dell’unità d’azione. Non per buonismo – anche se lui era considerato un buono – ma per consapevolezza dell’ importanza dell’unità per meglio rappresentare i lavoratori. Il suo pallino era quello del riscatto dalla condizione di subalternità dei lavoratori ai poteri di quel tempo. E la divisione poteva perpetuarla. Voleva che i lavoratori fossero, essi stessi classe dirigente. Una prospettiva di grande attualità, per la quale, anche in questo tormentato frangente, occorrerebbe fare riferimento.