Elemento centrale del processo di riforma dei rapporti finanziari tra i livelli di governo, iniziato negli anni ’90 e proseguito con la riforma costituzionale del 2001 e la legge delega del 2009, è il superamento di un modello di pressoché totale centralizzazione del prelievo tributario con l’attribuzione agli enti territoriali di spazi di autonomia nell’attivazione e nella gestione dei tributi decentrati. L’obiettivo era innanzi tutto di rafforzare l’accountability degli amministratori locali nei confronti dei propri cittadini, garantendo agli enti territoriali un complesso di risorse finanziarie relativamente stabile in relazione alle funzioni da svolgere e riconoscendo spazi di variazione dei tributi al margine sufficienti ad assicurare l’equilibrio dei bilanci e ad offrire servizi aggiuntivi rispetto agli standard statali.
In condizioni ideali una riforma di questa portata avrebbe richiesto una stabilità di fondo della finanza pubblica che, soprattutto negli anni più recenti, certamente è mancata. Di fatto, la precarietà del contesto generale della finanza pubblica si è sovrapposta al processo di riforma, condizionando e limitando l’autonomia fiscale locale.
Questa audizione intende offrire un contributo a questa linea di riflessione. Innanzitutto verranno richiamati sinteticamente i risultati e le mancate realizzazioni della riforma del federalismo fiscale in tema di fiscalità regionale e comunale (quella provinciale non viene qui trattata) e come questo quadro sia stato investito dagli interventi “fuori delega”, soprattutto in materia di tributi municipali, in gran parte finalizzati alla correzione dei conti pubblici.
Si guarderà poi ai principali tributi a livello comunale (ICI/IMU e addizionale comunale all’IRPEF) e regionale (IRAP e addizionale regionale all’IRPEF) per illustrare gli spazi di autonomia territoriale che la normativa riconosce attualmente su questi tributi, quali siano state le scelte effettive degli enti decentrati in tema di variazioni di aliquota e agevolazioni negli anni recenti e quali siano infine gli spazi di autonomia fiscale ancora disponibili.
Si concluderà tentando un’interpretazione delle manovre di comuni e regioni alla luce delle variazioni di risorse finanziarie complessivamente disponibili a questi livelli di governo (come risultato delle riduzioni dei trasferimenti erariali e dell’operare del patto di stabilità interno) nonché della incompleta realizzazione di una componente fondamentale del sistema di finanziamento decentrato qual è il sistema dei trasferimenti perequativi.
Risultati e carenze della riforma del federalismo fiscale in ambito tributario
Un blocco della riforma del federalismo fiscale rimasto in gran parte incompiuto per mancanza dei provvedimenti attuativi e per gli eventi connessi con la crisi dei debiti sovrani è quello del riassetto tributario delle regioni a statuto ordinario. L’operazione di “fiscalizzazione” dei trasferimenti statali prevista nel decreto legislativo 68/2011, nel caso dei trasferimenti a favore delle regioni non si è mai realizzata. Il decreto che avrebbe dovuto individuare i trasferimenti statali da sopprimere non è stato adottato anche perché tali trasferimenti sono stati oggetto delle manovre di taglio succedutisi negli ultimi anni (dal d.l. n. 78/2010 in poi). Conseguentemente non è stata rideterminata l’aliquota base dell’addizionale regionale all’IRPEF – con speculare arretramento delle aliquote statali – che avrebbe dovuto realizzare appunto la fiscalizzazione, garantendo un gettito equivalente ai trasferimenti cancellati. A decorrere dal 2013 si sarebbe dovuta anche individuare la compartecipazione al gettito IVA sufficiente da un lato ad assicurare, insieme a IRAP e addizionale IRPEF, il finanziamento delle funzioni relative ai livelli essenziali delle prestazioni (Lep) ai fabbisogni standard in almeno una regione (quella dove il divario tra i fabbisogni da finanziare e la capacità fiscale è minore) e, dall’altro, ad alimentare trasferimenti perequativi a favore di tutte le altre regioni tali da garantire anche a esse il pieno finanziamento dei fabbisogni standard.
Anche l’applicazione delle misure volte a rafforzare l’autonomia tributaria delle regioni in tema di addizionale all’IRPEF (introduzione di detrazioni per carichi di famiglia e ad incentivo di forma di sussidiarietà orizzontale), fissata inizialmente al 2013, è stata progressivamente rinviata al 2015. Infine pressoché non ancora avviata è poi la costruzione delle varie componenti del sistema perequativo regionale che avrebbe dovuto applicarsi già dal 2013. Manca la ricognizione dei Lep che le regioni oggi effettivamente garantiscono e dei relativi costi nei settori di intervento pubblico diversi dalla sanità (assistenza, istruzione, trasporti pubblici locali per la parte in conto capitale), operazione prodromica alla determinazione dei corrispondenti fabbisogni standard. Manca la valutazione della capacità fiscale standard su IRAP e addizionale regionale all’IRPEF così come il disegno del fondo perequativo regionale nelle sue due componenti, quella per le funzioni essenziali (basata sui fabbisogni standard) e quella per le restanti funzioni (basata invece sulle capacità fiscali).
Rispetto a questa sostanziale inerzia della riforma del federalismo fiscale sul fronte dei tributi regionali, numerosi sono stati gli interventi del governo centrale sull’IRAP, la principale imposta derivata di competenza regionale. L’obiettivo della riduzione del cuneo fiscale sull’impiego del lavoro ha portato a una progressiva esclusione dalla sua base imponibile di componenti del costo del lavoro, a partire dai contributi previdenziali e arrivando con la legge di stabilità 2015 alla deducibilità integrale del costo del lavoro a tempo indeterminato. Si tratta di interventi che, indipendentemente dalle altre considerazioni di merito, incidono sulla sua funzionalità come tributo decentrato, riducendo gli spazi effettivi di autonomia regionale.
Anche nel caso del sistema tributario dei comuni la riforma del federalismo fiscale di per sé non ha avuto risultati realmente innovativi. Il decreto legislativo n. 23/2011 ha confermato nella sostanza il “menu” dei principali tributi già disponibili alle autonomie locali. Per buona parte la riforma si è esaurita in un’operazione di fiscalizzazione dei trasferimenti statali attraverso un ampliamento delle compartecipazioni ai tributi erariali o un innalzamento delle aliquote base dei tributi locali derivati dalla legislazione statale.
Limitati sono stati invece gli interventi sulla struttura dei tributi propri (al di là dei cambiamenti di nome) e gli ampliamenti dei margini di autonomia effettivamente riconosciuti agli enti locali. Nel complesso il nuovo assetto dei tributi locali uscito dall’attuazione della legge delega sul federalismo fiscale non ha comportato significativi progressi sul piano della semplificazione del sistema tributario locale e nazionale e non ha dato maggiore trasparenza al prelievo locale.
Su questo impianto sono poi intervenute le misure (decreti n. 98, 138 e 201 del 2011 e legge di stabilità per il 2013) adottati in materia di fisco municipale a partire dalla fine del 2011, e in particolare la nuova disciplina dell’IMU, anticipata in “via sperimentale” al 2012 dal decreto Salva-Italia. Si è trattato di misure assunte al di fuori dello schema di attuazione della riforma del federalismo fiscale, fortemente condizionate dall’emergenza economico-finanziaria e dal conseguente sforzo di consolidamento dei conti pubblici che doveva necessariamente coinvolgere anche gli enti locali. L’ampliamento della base imponibile (con inclusione dell’abitazione principale) e la completa “centralizzazione” dei maggiori gettiti mediante una “compartecipazione verso l’alto” e il taglio dei trasferimenti erariali erogati ai comuni a titolo di fondo perequativo confermano come gli interventi sull’IMU abbiano perseguito obiettivi di consolidamento di bilancio del’intera pubblica amministrazione. Nel disegno del decreto Salva- Italia l’IMU è stata, insieme all’inasprimento dell’IVA, la componente di gran lunga più importante dell’aumento del prelievo richiesto dall’aggiustamento dei conti pubblici e della (parziale) svalutazione fiscale realizzata attraverso la riduzione dell’IRAP gravante sul costo del lavoro.
Come è ben noto, l’assetto dell’IMU uscito dal decreto Salva-Italia si è rivelato tuttavia assai precario. Da un lato, la necessità di separare in modo più riconoscibile e trasparente la componente statale dell’IMU da quella comunale ha portato alla cancellazione della riserva statale inizialmente prevista e all’attribuzione allo Stato del gettito ad aliquota standard derivante da una tipologia specifica di immobili (quelli ad uso produttivo del gruppo catastale D). Dall’altro, la questione dell’esenzione o meno dell’abitazione principale, che ha monopolizzato per lungo tempo il dibattito politico sui temi fiscali, si è risolto in un rincorrersi di interventi che lasciano un quadro complessivo della fiscalità immobiliare probabilmente non ancora assestato. Dapprima la cancellazione nel 2013 dell’IMU sull’abitazione principale, con il venir meno di uno dei principi fondamentali del federalismo fiscale quale è quello della corrispondenza tra soggetti beneficiari dei servizi e contribuenti, e poi il suo recupero attraverso l’introduzione nel 2014 della TASI e il suo affiancamento all’IMU.
Le scelte di comuni e regioni in materia di autonomia tributaria
A partire da questo quadro generale può essere interessante analizzare, sulla base delle evidenze quantitative disponibili, le scelte di autonomia tributaria effettivamente realizzate da comuni e regioni negli anni più recenti, quelli di attuazione delle riforma del federalismo fiscale. Si vuole in tal modo verificare quali leve di autonomia impositiva siano state attivate dai vari enti diversamente caratterizzati e in quale misura, e se esistano, alla luce della normativa attuale (vedi Appendice 1), ancora spazi disponibili di gettito aggiuntivo. L’indagine è circoscritta ai principali tributi assegnati ai comuni (ICI/IMU e addizionale comunale all’IRPEF) e regionale (IRAP e addizionale regionale all’IRPEF).
3.1 Le scelte dei comuni
Si consideri innanzitutto l’addizionale comunale all’IRPEF. La figura 1 mostra come le scelte dei comuni siano molto eterogenee per quanto riguarda il disegno del tributo (aliquota unica per tutti i contribuenti, previsione di un’esenzione per i redditi bassi, progressività per scaglioni) e soprattutto il livello della/e aliquota/e applicata/e. In termini di confronti intertemporali, risulta evidente la tendenza dei comuni ad affidarsi in misura crescente a strutture più sofisticate di prelievo (soglie di esenzione o progressività per scaglioni) a scapito dell’aliquota unica e ad applicare più diffusamente l’aliquota massima dello 0,8%.
La tabella 1 guarda alle manovre attuate dai comuni sull’addizionale IRPEF ma questa volta in termini di incrementi di gettito potenziali residui, non ancora utilizzati dagli interventi deliberati nei vari anni. Nel 2014 il 15,9% dei comuni ha esaurito gli spazi di sforzo fiscale. Questa percentuale equivale al 18,5% in termini di popolazione residente. Inoltre il 14,5% dei comuni – a cui corrisponde il 39,8% della popolazione italiana – se intende aumentare i gettiti, dovrebbe farlo accrescendo il prelievo sui redditi più bassi (dato che quelli più elevati sono giù tassati all’aliquota massima), con conseguenti costi politici assai gravosi. Peraltro la quota dei comuni (e delle popolazioni residenti) che non hanno più spazi di aumento del gettito sull’addizionale all’IRPEF, o hanno spazi di prelievo sui redditi più bassi, cresce significativamente nel corso del tempo.
Le figure 2, 3 e 4 scompongono i dati aggregati ora illustrati sullo sforzo fiscale residuo rispettivamente per aree territoriali, dimensione demografica e livello delle risorse finanziarie comunali pro-capite. Guardando agli spazi residui di incremento di gettito ripartiti per aree regionali è molto evidente la separazione tra i comuni localizzati nelle regioni a statuto speciale (in cui i margini di incremento sono mediamente molto elevati) e quelli localizzati nelle regioni a statuto ordinario (in cui invece gli spazi di sforzo fiscale restanti sono molto più limitati) mentre non emerge con chiarezza alcuna correlazione con la ripartizione nord-sud. Passando dai comuni più piccoli a quelli maggiori per dimensione demografica le possibilità di accrescere i gettiti sembrano ridursi significativamente, o quanto meno sono collegate a interventi gravosi in termini di praticabilità politica (tassazione più pesante sui redditi più bassi). Infine appare chiaro che gli spazi di sforzo fiscale residuo sono inversamente correlati con il livello di risorse complessive pro-capite del comune (i comuni più “poveri” esercitano maggiore sforzo fiscale dei più “ricchi”), il che riflette la mancanza di un sistema di attribuzione delle risorse finanziarie (via tagli ai trasferimenti) che abbia contenuti perequativi, cioè sia calibrato sulle differenze nelle capacità fiscali tra i diversi comuni.
Passando all’ICI/IMU, la figura 5 illustra le scelte di aliquota applicate dai comuni distintamente sull’”abitazione principale” e sugli “altri immobili” (ICI per il 2011, IMU per il 2012-13). Anche qui, come per l’addizionale comunale sull’IRPEF, l’immagine complessiva è di una forte eterogeneità nelle scelte dei comuni (tra coloro che non applicano alcun incremento di aliquota rispetto a quella base, o addirittura prevedono agevolazioni, e coloro che fissano l’aliquota al di sopra dello standard nazionale). Le maggiorazioni di aliquota sono applicate più frequentemente nel caso degli “altri immobili” piuttosto che nel caso dell’abitazione principale.
Come già sopra per l’addizionale comunale all’IRPEF, la tabella 2 valuta i margini residui di aumento dei gettiti che possono derivare dalle manovre su ICI (per quanto riguarda l’aliquota ordinaria) e IMU negli anni considerati. Nel passaggio dall’ICI (2011) all’IMU (2012 e 2013) è evidente un cambiamento strutturale: la riforma ha comportato un ampliamento degli spazi di autonomia riconosciuti ai comuni sulla tassazione immobiliare (allargamento della base imponibile, margini di variazione delle aliquote anche sull’abitazione principale) con il risultato di conferire loro un potenziale di gettito aggiuntivo rispetto a quello, in gran parte già sfruttato, previsto precedentemente dall’ICI1. La tabella 2 mostra chiaramente gli effetti sulle scelte dei comuni di questo riaggiustamento degli spazi di sforzo fiscale (con solo riferimento agli “altri immobili” in quanto l’”abitazione principale” era esentata dall’ICI): il grado di autonomia ancora non sfruttato, che era quasi esaurito con l’ICI (il 30,2% nella media dei comuni e il 17,8% nella media della base imponibile), cresce sensibilmente con la nuova IMU 2012 (71,9% nella media deicomunie 38,7% nella media della base imponibile) 2. La tabella mostra poi come in un solo anno dopo l’introduzione dell’IMU, tra il 2012 e il 2013, il gettito residuo si sia ridotto fortemente, soprattutto per gli “altri immobili”, come effetto dell’ulteriore utilizzo di leva fiscale deliberato per quell’anno dai comuni.
Le figure 6, 7 e 8 scompongono lo sforzo fiscale residuo sull’IMU 2013 (limitatamente agli “altri immobili”) rispettivamente per aree territoriali, dimensione demografica e livello di risorse finanziarie comunali pro-capite. Come già per l’addizionale comunale all’IRPEF, gli spazi residui di incremento di gettito sono molto ampi per i comuni localizzati nelle regioni a statuto speciale (con l’eccezione della Sicilia) e più contenuti per i comuni localizzati nelle regioni a statuto ordinario. Anche in questo caso non emerge con chiarezza alcuna correlazione con la ripartizione nord-sud. La distribuzione dello sforzo fiscale residuo per comuni con differente popolazione indica in modo assai netto che le potenzialità di gettito decrescono quasi monotonicamente con la dimensione demografica, con i comuni più grandi che hanno già esaurito tutti gli spazi di incremento nel prelievo per quanto riguarda l’IMU altri immobili. Infine i comuni meno dotati di risorse finanziarie hanno fatto ricorso maggiormente alla leva fiscale mostrando dunque spazi di sforzo fiscale residuo più limitati.
3.2 Le scelte delle regioni
La tabella 3 illustra le manovre adottate negli anni più recenti dalle regioni sulle aliquote
dell’addizionale regionale all’IRPEF. In un quadro generale caratterizzato da una forte eterogeneità nelle scelte regionali, due profili strutturali emergono con chiarezza. Da un lato, le regioni che hanno adottato l’aliquota massima prevista nei vari anni, sia secondo un regime di aliquota unica sia attraverso un sistema di progressività, sono state quasi sempre soltanto le regioni soggette a piani di rientro sanitari, secondo quanto imposto dalle norme. Si tratta di regioni del centro-sud a cui si è aggiunto di recente il Piemonte. Dall’altro, è evidente una separazione netta tra le scelte delle regioni a statuto speciale e quelle delle regioni a statuto ordinario, dove le prime (ad eccezione della Sicilia, in piano di rientro sanitario) applicano aliquote sempre più basse rispetto alle seconde. In alcuni casi le regioni a statuto speciale hanno previsto, grazie alla loro speciale autonomia, aliquote super-ridotte sugli scaglioni di reddito bassi. Per il resto, le regioni del centro-nord hanno tutte sfruttato il margine di aumento di 0,5 punti salvaguardando gli scaglioni di reddito più bassi con aumenti differenziati secondo criteri di progressività, applicati in alcuni casi per classi e in altri per scaglioni3.
Guardando all’evoluzione temporale delle manovre regionali sull’addizionale IRPEF va ricordato che la possibilità di incrementare le aliquote è stata ripristinata soltanto nel 2012 (per cui fino a quell’anno le variazioni di aliquota sono riconducibili soltanto all’ingresso di alcune regioni nei piani di rientro sanitario e all’incremento dell’aliquota standard disposto dalla legge statale a decorrere dal 2011, con corrispondente riduzione dei trasferimenti erariali). Nel 2012 e 2013 gli interventi regionali sono stati assai limitati, con aumenti contenuti delle aliquote applicate. Nel 2014 invece alcune regioni (Piemonte, Umbria, Lazio, Molise, Basilicata) hanno deliberato incrementi più significativi del prelievo. Si tratta di manovre che sono presumibilmente da porre in relazione con la contestuale entrata in vigore del più ampio margine di manovrabilità dell’aliquota, che passa nel 2014 da 0,5% a 1,1% (a cui consegue l’obbligo per le regioni in piano di rientro di adeguare le aliquote ai nuovi massimi), con la modifica dei vincoli del patto di stabilità interno a decorrere dal 2015, modulati non più in termini di tetto di spesa ma in termini di saldo di bilancio, nonché con la significativa riduzione dei trasferimenti erariali prevista dalla legge di stabilità 2015 a decorrere da tale esercizio.
Il quadro complessivo che emerge sulle manovre regionali sull’IRAP (tabella 4) è molto simile a quanto ora illustrato sull’addizionale regionale IRPEF, con una ancor maggiore stabilità delle aliquote generali applicate nel corso degli anni4. Anche in questo caso le regioni a statuto speciale fissano aliquote basse (salvo ancora la Sicilia, in piano di rientro sanitario), con in testa Bolzano e, dal 2013, la Sardegna, che ha applicato una riduzione drastica dell’aliquota. Le regioni con le aliquote più alte sono quelle in deficit sanitario, tenute ad applicare le aliquote massime (4,82%) o maggiorate (4,92% 5), mitigate da esenzioni e agevolazioni settoriali, di portata ampia in alcuni casi (Sicilia) o del tutto assente in altri (Calabria). Le altre regioni a statuto ordinario evidenziano una certa inerzia a intervenire sulle aliquote, anche se si nota un crescente utilizzo della facoltà di modulare le agevolazioni specifiche, per particolari territori, settori produttivi, tipologie di imprese, fattispecie di natura sociale.
Le tabella 5 e 6 riportano i gettiti corrispondenti alle manovre regionali rispettivamente sull’addizionale IRPEF e sull’IRAP per le diverse regioni negli anni più recenti. A partire da questi dati, le tabelle 7 e 8 illustrano, analogamente a quanto già discusso per i comuni, i margini residui di incremento dei gettiti non ancora utilizzati dagli interventi deliberati nei vari anni.
Pur nell’ambito di una diversificazione tra regioni che rispecchia l’eterogeneità dei regimi adottati a livello territoriale, e con l’ovvia eccezione delle regioni in piano di rientro sanitario, è evidente che esistono ancora ampi spazi di incremento di gettito non ancora sfruttati, e ciò accade in misura maggiore per l’IRAP (media nazionale 72% nel 2013) che per l’addizionale regionale sull’IRPEF(media nazionale 38% nel 2013).
Elementi per un’interpretazione delle scelte degli enti territoriali in tema di autonomia tributaria
Come accennato nell’introduzione, il percorso di attuazione della delega sul federalismo fiscale è stato perturbato dall’introduzione delle misure di natura emergenziale di consolidamento dei conti pubblici che hanno ampiamente coinvolto l’assetto della finanza decentrata. In particolare, nel caso dei comuni, gli interventi che hanno significativamente ridotto la capacità di spesa degli enti (da un lato tagli dei trasferimenti non compensati da dotazioni di imposte standard e, dal’altro, inasprimenti degli obiettivi del patto di stabilità interno) sono stati disposti in combinazione con la ridefinizione dei margini di autonomia impositiva degli enti, soprattutto per quanto riguarda il versante dell’imposizione patrimoniale (passaggio dall’ICI all’IMU).
La tabella 9 ricostruisce, per il periodo 2010-2013, la dotazione complessiva di risorse dei comuni in termini di trasferimenti statali e gettiti tributari (ICI, IMU e addizionale energia elettrica) al netto degli obiettivi di patto di stabilità interno ed evidenziando l’evoluzione dello sforzo fiscale complessivo6. Nel periodo considerato le risorse “standard” (al netto cioè dei maggiori gettiti derivanti dallo sforzo fiscale su IMU e addizionale comunale all’IRPEF) si riducono di circa 9,7 miliardi, a fronte di uno sforzo fiscale aggiuntivo di circa 5,2 miliardi, di cui 1 miliardo di maggiore addizionale IRPEF e 4,2 di IMU. In altri termini, a livello di comparto, l’esercizio dell’autonomia tributaria ha permesso agli enti di recuperare circa il 54% della perdita della capacità di spesa subita nel triennio. Più in particolare, lo sforzo fiscale più’ consistente è stato esercitato nel 2012, per un ammontare complessivo superiore al 100% dei tagli subiti nell’anno.
Non è ovviamente possibile stabilire un legame causale tra riduzione delle risorse ed esercizio dello sforzo fiscale, anche perché, a livello di singolo ente, si riscontra nel periodo considerato un’ampia variabilità del rapporto sforzo fiscale/riduzione delle risorse (figura 10). Se per circa 1/3 degli enti lo sforzo fiscale esercitato attraverso IMU e addizionale comunale sull’IRPEF ha infatti superato le minori risorse, per oltre la metà degli enti lo sforzo esercitato è risultato meno della metà della contrazione delle risorse; per circa un 10% degli enti infine l’andamento dello sforzo fiscale è risultato in controtendenza rispetto alla variazione delle risorse standard. Peraltro, questa eterogeneità nelle risposte date dai comuni, con le loro scelte sulle aliquote, alle variazioni delle risorse “standard” conferma una volta di più la necessità e l’urgenza di introdurre un sistema di finanziamento degli enti locali chiaramente basato sui criteri perequativi dei fabbisogni standard e delle capacità standard che fornisca un parametro di valutazione dello sforzo fiscale.
Se dunque da una semplice analisi descrittiva dei dati aggregati come quella qui presentata non si può concludere che necessariamente la riduzione delle risorse abbia spinto allo sforzo fiscale, è certo che diversi elementi ulteriori, tra cui l’andamento della progressione dell’utilizzazione dello sforzo fiscale a disposizione (molto più accelerato rispetto a quanto accaduto per l’ICI, cfr. figura 9) e alcuni risultati di analisi econometriche condotte a livello micro7 suggeriscono un ruolo rilevante della compressione delle risorse nell’esercizio dell’autonomia favore dei comuni in questi ultimi anni.
In ambito regionale, al contrario, l’analisi dei dati non evidenzia alcun legame tra interventi di consolidamento dei conti pubblici e manovre regionali su IRAP e addizionale regionale all’IRPEF: le regioni, al di fuori degli incrementi di prelievo imposti dalla normativa nazionale per i territori in piano di rientro sanitario, sono state sostanzialmente inerti, almeno sul piano degli incrementi di gettito, nel manovrare le leve fiscali loro riconosciute. Una motivazione di questo diverso comportamento tra comuni e regioni nell’utilizzo dell’autonomia tributaria risiede presumibilmente nei vincoli sulla spesa per le funzioni extra-sanitarie previsti per le regioni dal patto di stabilità interno, in vigenza dei quali molte regioni non avrebbero avuto spazi finanziari per l’utilizzo del gettito aggiuntivo conseguibile dalle loro manovre. E tuttavia, come sopra evidenziato, già nel 2014 invece alcune regioni hanno manovrato verso l’alto le aliquote dell’addizionale sull’IRPEF forse in risposta ai tagli dei trasferimenti approvati con la legge di stabilità 2015 e in relazione alla riforma del patto di stabilità interno a decorrere dal 2015 non più in termini di tetto di spesa ma di saldo (8).
In conclusione, almeno nell’esperienza recente dei comuni, da un lato la contemporanea somministrazione di tagli e concessione di spazi di sforzo fiscale ha contribuito a un utilizzo compensativo della leva fiscale locale mentre, dall’altro lato, la presenza di rilevanti differenziali sistematici nello sforzo fiscale tra comuni in funzione di caratteristiche strutturali, quali l’ampiezza demografica o la dotazione di risorse, segnalano come l’autonomia tributaria ancora oggi operi come un meccanismo di compensazione della imperfetta perequazione delle risorse locali. Anche da questa prospettiva l’avvio della costruzione degli elementi costitutivi di un sistema di attribuzione delle risorse tra enti locali basato su criteri perequativi (fabbisogni e capacità fiscali standard) non può essere visto che positivamente.
Peraltro, l’aver lasciato ai comuni margini assai ampi di scelta della combinazione desiderata IMU-TASI ha contributo ad accrescere ancor di più, se possibile, il grado di complessità del comparto dell’imposizione immobiliare, e i conseguenti di costi di compliance, rispetto agli inconvenienti già pesanti sperimentati con la sola IMU. L’esplosione di una babele di regimi differenziati tra comune e comune per aliquota, disegno delle detrazioni e regimi agevolativi mostra quanto sia necessario trovare una soluzione equilibrata tra esercizio dell’autonomia locale e semplificazione del prelievo a livello territoriale e fa presagire un prossimo possibile intervento di correzione.
In allegato
Note
1 Nel passaggio all’IMU lo sforzo fiscale ICI è stato per così dire “inglobato” nello standard IMU: i comuni che avevano esercitato sforzo ICI si sono visti riconoscere le corrispondenti risorse nel passaggio all’IMU standard.
2 Nel passaggio all’IMU lo sforzo fiscale ICI è stato per così dire “inglobato” nello standard IMU: i comuni che
avevano esercitato sforzo ICI si sono visti riconoscere le corrispondenti risorse nel passaggio all’IMU standard.
3 In alcuni casi la ripartizione per scaglioni non risulta conforme a quella prevista per l’IRPEF (Bolzano, Emilia
Romagna, Liguria, Marche e Piemonte). Tale conformità diverrà obbligatoria a decorrere dall’anno di imposta 2015.
4 Anche in questo caso il potere regionale di deliberare aumenti di aliquote è stato ripristinato dal 2012 (sospensione disposta dal DL n. 93/2008, arti 1, comma 7 e soppressa dal DL 201/2011, art. 13, c. 14, lett. a)
5 Tale obbligo è previsto per le regioni i cui piani di rientro non presentino tagli di spesa sufficienti. E’ il caso di Molise, Calabria e Campania, in quest’ultimo caso in via permanente per finanziare gli squilibri del settore del trasporto pubblico.
6 Nella tavola l’intero ammontare dell’addizionale IRPEF comunale viene considerato come sforzo fiscale. Non viene invece incluso nella valutazione dello sforzo fiscale il gettito derivante dall’applicazione di aliquote ICI superiore a quella ordinaria del 4‰ che con il DL 201/2011, che abolisce l’ICI, viene compensato ai singoli enti che lo esercitavano con l’attribuzione di gettito standard IMU insieme con una opportuna rimodulazione dei trasferimenti.
7 Cfr. C. Pollastri e A. Zanardi, “The determinants of local tax setting in the event of a tax system under reform:
the case of Italian municipal property tax” (2014).
8 Si sottolinea peraltro, che nelle previsioni di finanza pubblica gli effetti delle misure disposte dalla legge di stabilità a carico delle regioni sono iscritte in termini di riduzione della spesa corrente, mentre l’utilizzo della leva fiscale regionale in funzione compensativa dei trasferimenti subiti dalle regioni potrebbe in parte riflettersi su una diversa composizione della composizione delle voci di spesa e di entrata del comparto regionale rispetto alle previsioni.
(*) Consigliere dell’ Ufficio Parlamentare di Bilancio