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Timeo Danaos et dona ferentes

Timeo Danaos et dona ferentes” (temo i Greci anche quando portano doni): questa citazione dell’Eneide ben si adatta all’attuale discussione sul salario minimo per legge.

Un tema che c’è e che non solo il dibattito politico – dopo la direttiva europea – e la proposta di legge delle opposizioni hanno rimesso al centro, ma anche e soprattutto perché l’intervento recente e sempre più prescrittivo della magistratura ci ripropone oggi, con forza, i limiti a cui è giunta una parte del sistema delle relazioni industriali.

Una magistratura che oggi va oltre la consolidata tradizione interpretativa (la presa a riferimento dei costi contrattuali minimi, a partire dal salario, dei CCNL comparativamente più rappresentativi) e che, di fatto, mette in mora diversi contratti collettivi in quanto, pur dotati di rappresentatività dei firmatari, non garantiscono paghe orarie “dignitose” (art. 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se’ e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”).

La domanda vera dovrebbe allora essere: perché, al di là delle corrette valutazioni per cui la povertà di chi lavora è connessa ad una pluralità di fattori (quante ore di lavoro a settimana, quale tipologia di contratto, quale condizione familiare, ecc.) nel 2023 vi sono ancora paghe orarie di 5/6 euro per di più “collegate” a mancati rinnovi di CCNL per diversi anni? Così come dovremmo chiederci – a fronte di invasioni di perimetro (da parte di CCNL meno costosi) o contratti sottoscritti senza rappresentatività, ad uso e consumo di questo o quel consulente del lavoro – se il problema non dovrebbe essere affrontato in termini più generali, di modello di sviluppo: possiamo competere in molti comparti, ancora, esclusivamente sulla svalutazione del fattore lavoro invece che con investimenti in innovazioni di prodotto, processo, formazione, crescita della produttività per ora di lavoro, ecc.? E’ possibile, con questa strategia, reggere la sfida della riconversione verde e digitale nella nuova divisione internazionale del lavoro, anche in settori come quello dei servizi, del turismo, della cultura?

Ecco io ritengo che se dobbiamo assumere la complessità del problema, possa non bastare una mera decisione da parte del legislatore limitata per di più esclusivamente a fissare (siano 9 euro, sia una mediana intorno ai 7 euro) un salario minimo legale. Qualcuno legittimamente potrebbe dire “intanto iniziamo da lì”, ma gli effetti sarebbero comunque limitati e le controindicazioni possibili diverse e non tutte positive.

Soccorre allora il vecchio metodo di scomporre problemi complessi, in una serie di problemi più semplici.

Partiamo dal primo: come è possibile che siamo arrivati alla moltiplicazione di CCNL “pirata”, soprattutto nei servizi e nel mondo della cooperazione spuria, ma anche nell’artigianato, con evidenti effetti di dumping sul salario e di riduzione di fatto dello stesso rispetto al costo della vita?

La risposta sta nell’occasione mancata (mancata ancora oggi) di applicare l’art. 39 della Costituzione sulla validità erga omnes dei CCNL sottoscritti dai soggetti più rappresentativi che, tra l’altro, avrebbe l’effetto di “blindare di più i perimetri dei CCNL” (sulla scorta per esempio del modello insito nel codice dei contratti pubblici, ovvero sia nel Codice Appalti; si vedano su questo anche i recenti contributi del Prof. Treu) e di individuare di fatto, per ogni settore, un “contratto leader” (richiesta avanzata da tempo da Confindustria, che condivido, per cui è la prestazione e il lavoro che fa l’azienda ad individuare il CCNL relativo e non viceversa, principio questo contenuto anche nel “Patto per la Fabbrica” e mai divenuto esecutivo). Un modo per capirci per cui è l’effetto “erga omnes” che riconduce i vari codici Ateco al CCNL “leader” evitando i contratti “a la carte”.

Come sistema delle relazioni industriali abbiamo perso tutti una grande occasione: sottoscritto il C.d. Testo Unico sulla rappresentanza nel 2014 dovevamo tenere insieme l’attuazione dell’art. 39 con l’attuazione dell’art. 46 (Partecipazione dei lavoratori in azienda) e pretendere dal legislatore il recepimento dell’accordo in norma generale, come fu fatto all’epoca del Prof. D’Antona per il pubblico impiego. Oggi tratteremmo l’art. 36 della Costituzione in un altro modo. Da quel “testo unico” dovremmo saper ripartire tutti per una richiesta unanime al legislatore.

Seconda questione: che modello è quello che non rispettato non prevede “sanzioni” o meccanismi di “salvaguardia”, permettendo che passino anni e anni prima di rinnovare i CCNL ed i relativi minimi tabellari?

E questo rimanda alla soppressione dell’istituto di Vacanza Contrattuale, definitivamente superato dal “Patto della fabbrica”. Perché alla fine il limite vero di quell’intesa, tutta pensata per il manifatturiero e dintorni, è che non fa i conti con la qualità di tenuta di un sistema che, dando per scontati i rinnovi dei CCNL, scommetteva (e scommette) sulla crescita della produttività (e relativa redistribuzione) con un di più di contrattazione di secondo livello (aziendale e neanche territoriale).

Ma quando passano 6-7 anni per un rinnovo di CCNL questo non funziona. Il tema era ed è come vincolare i “più deboli” (gli accordi interconfederali servono per dare regole ai settori deboli o frammentati, perché i forti una quadra la trovano “in natura”), penso soprattutto a realtà come il terziario o l’artigianato, con i suoi 7 e passa milioni di lavoratori. Serve allora, forse sì in questi casi, un automatismo che invogli a concludere i rinnovi, che sostenga il ruolo delle parti. Ad un primo impatto mi verrebbe da proporre un sistema per cui, scaduto un CCNL, dal 13 mese scatti una rivalutazione automatica sui salari in base all’inflazione pura (il vecchio “FOI” per intenderci, che ben tratta l’inflazione nei beni alimentari, di prima necessità, ecc.).  Almeno la funzione principale del CCNL di essere autorità salariale verrebbe mantenuta, a partire dalla difesa reale del potere d’acquisto.

Terza questione: e seppure di fronte a CCNL erga omnes, seppur di fronte a CCNL con perimetri più saldi, seppur di fronte ad automatismi inflattivi a fronte di “vacanza contrattuale”, i salari orari dovessero rimanere sotto una soglia decente(prendiamo a riferimento la cifra mediana tra i 7 e i 9 euro) o non riguardare parte crescente del mondo del lavoro (para subordinati, autonomi mono committenti, professioni non regolate tramite ordini, ecc.), cosa fare?

In questo caso l’intervento legislativo di sostegno sarebbe auspicabile/inevitabile, ma sarebbe “residuale” (un po’ come lo è per l’aggiornamento salariale delle colf e badanti). In primis si dovrebbe riconoscere il principio della prestazione (e salario) assimilato sempre al corrispettivo lavoratore subordinato in base al settore (in edilizia vorremo sperimentare una cosa simile, per cui se sei una P. Iva – pensiamo a restauratori, archeologi, ecc. – non puoi non avere un salario/costo lordo inferiore a quello del dipendente a parità di qualifica; il tema “lordo” è per compensare il diverso sistema previdenziale e fiscale). Principio giuridico da estendere poi anche alle tutele base (da qui la proposta Cgil di un “nuovo Statuto” per tutti i prestatori di lavoro indipendentemente dalla tipologia contrattuale).

Il secondo intervento dovrebbe definire una rete salariale minima, complessiva prendendo a riferimento un mix di indici per la paga oraria (se fosse anche di 9 euro) e di intervento di trasferimento diretto (sul modello di altri Paesi, integrando reddito da lavoro e reddito da cittadinanza, questo anche al fine di affrontare il tema fondamentale dei “part time involontari” e con premialità verso il lavoro). Un mix definito tramite accordi interconfederali a partire da quei settori dove, nonostante i vari interventi di manutenzione delle relazioni industriali, l’obiettivo di garantire un reddito dignitoso (per esempio 1200 euro netti?) non viene raggiunto.

In sostanza – questo il senso degli appunti sparsi qui indicati – comunque vada il dibattito e le decisioni finali che verranno prese una cosa, a mio parere, è chiara: si può anche accettare che il legislatore intervenga nei vuoti o nei limiti delle relazioni industriali, per sostenerne l’azione o per colmarne lacune. Quello che si dovrebbe evitare però è che le parti sociali non provino loro, prima del legislatore, ad affrontare nodi e contraddizioni presenti nel modello attuale… Ma questo rimanda alle volontà di tutte le parti, a partire dal mondo delle imprese e relative associazioni (queste ultime molto più in crisi, in termini di rappresentanza, delle organizzazioni operaie), alla capacità di ricercare quello che unisce le diverse Confederazioni dei lavoratori più che quello che divide. E al ruolo che il Governo vuole/deve riconoscere ai soggetti realmente rappresentativi (il fatto che a Palazzo Chigi siedano allo stesso tavolo CGIL, CISL e UIL e organizzazioni con poche migliaia di iscritti la dice lunga).

Su questo però mi sento di dire che se la Cgil potrebbe fare di più e meglio (sempre si può fare di più e meglio), le strategie messe in campo dalla Cisl e da Confindustria (per non dire di Confcommercio, Coldiretti e Associazioni Artigiane), l’assordante silenzio del Governo, non sembrano concedere spazi a questo tipo di ragionamenti.

E poiché nella politica sindacale (come in genere nella politica tutta, per non dire in natura) il vuoto non è contemplato, qualcun altro potrà/dovrà riempirlo. Anche i positivi esempi che in diversi settori si vanno consolidando (dai chimici al settore legno-arredo, dall’edilizia al settore metalmeccanico) non basteranno, temo, ad evitare lo scivolamento verso il basso del nostro sistema di relazioni industriali. Un sistema che, nei momenti più difficili, ha sempre fatto la differenza per la tenuta economica, sociale e democratica del Paese.

*Segretario Generale Fillea Cgil

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