Nella tensione polemica, un paio di quesiti sui quali dobbiamo iniziare a riflettere
Il dibattito in corso in Europa e, con particolare tensione polemica, in Italia sugli immigrati manifesta una forte preoccupazione per il repentino aumento dei flussi degli stranieri che sono già arrivati in Europa nei primi otto mesi del 2015 (340 mila) e sugli altri milioni che potrebbero raggiungere i paesi dell’Unione nei prossimi anni.
Per il commissario europeo all’emigrazione Dimitris Avramopoulus “è la più grave crisi di rifugiati dalla Seconda guerra mondiale”. Bisogna riconoscere che solo la cancelliera Angela Merkel sembra affrontare in modo più misurato e razionale il fenomeno, annunciando persino che il suo Paese sospenderà le regole di Dublino e accoglierà tutti i profughi siriani, senza domandarsi quale sia stato il loro primo approdo. I dati sulla Germania, analizzati in quest’articolo, sembrano spiegare la sua tranquillità nell’affrontare un fenomeno che non sconvolge, se non in misura contenuta, le dinamiche demografiche del suo paese.
Ma ci sono un paio di domande alle quale nessuno dedica attenzione, che sono indispensabili per valutare l’impatto effettivo degli immigrati sul sistema economico e sociale europeo: a prescindere dagli ultimi flussi migratori, qual è la domanda reale di stranieri da parte dei 28 paesi europei nel corso dei prossimi anni, determinata dalla necessità di compensare la forte riduzione della popolazione autoctona causata dalla diminuzione delle nascite? Il sistema economico europeo di quanti lavoratori immigrati ha bisogno per mantenere l’attuale capacità produttiva nei paesi europei ed eventualmente per aumentarla?
L’Istituto statistico europeo ha sviluppato la previsione delle dinamiche demografiche dei 28 paesi dell’Unione, dal 2015 al 2080, sulla base della stima di tre principali indicatori: il tasso di fecondità (numero medio di figli per donna), la speranza di vita alla nascita degli uomini e delle donne (numero medio di anni che restano da vivere a un neonato) e il saldo migratorio (la differenza tra il numero d’immigrati e quello degli emigrati). I primi due indicatori non possono ragionevolmente subire modifiche impreviste e seguiranno, senza significativi scostamenti, l’andamento registrato nel passato, mentre l’unico indicatore sul quale vi possono essere incertezze è il saldo migratorio, dal momento che i flussi in entrare e in uscita degli immigrati e degli autoctoni possono variare, anche in modo significativo, in relazione al ciclo economico e cioè in conseguenza della crescita o della riduzione della domanda da parte delle imprese e delle famiglie e d’incrementi non previsti dei flussi migratori determinati da eventi bellici.
Secondo lo scenario centrale delle proiezioni dell’Eurostat, si attende che la popolazione complessiva dell’Unione europea (28 paesi) cresca da 508 milioni del 2015 a 520 milioni del 2080, con un aumento del 2,3% (+12 milioni di unità). Prendendo in considerazione le proiezioni per i prossimi 65 anni dei cinque più grandipaesi, che rappresentano il 63% del totale della popolazione dell’Unione, si può osservare che i residenti cresceranno in Spagna (2,6%; 1,2 milioni di unità), in Francia (19,1%; 12,7 milioni), in Italia (6,8%; 4,1 milioni) e soprattutto nel Regno Unito (31,7%; 20,5 milioni), mentre si prevede una loro netta flessione in Germania (-19%; -15,3 milioni) (figura 1).
Figura 1 – Previsioni della popolazione al 1° gennaio in alcuni paesi dell’Unione europea – Anni 2015–2080 (valori assoluti in milioni)
Riducendo a 15 anni la lontananza dalla data di partenza delle proiezioni, per renderle più robuste, si può osservare che complessivamente nei 28 paesi la popolazione crescerà dal 2015 al 2030 del 2% (+ 10 milioni di unità), ma con forti differenze tra i cinque più grandi paesi europei (tavola 1). Si prevede che in Spagna e Germania la popolazione subirà una flessione rispettivamente del 4% e dell’1,2%, mentre aumenterà in Francia (6,4%), in Italia (5,2%) e nel Regno Unito (9%).
Tavola 1 – Previsioni della popolazione al 1° gennaio in alcuni paesi europei e nella media dell’Unione – Anni 2015–2030 (valori assoluti e percentuali)
Come si può osservare nel grafico successivo, la modesta crescita della popolazione complessiva dell’Unione a 28 paesi prevista nel periodo dal 2015 al 2030 (la crescita totale1) sarà garantita in misura largamente prevalente dall’aumento degli immigrati (il saldo migratorio positivo2) perché la crescita naturale (la differenza tra il numero dei nati vivi e quello dei morti3) è negativa a partire dal 2017 (figura 2). In pratica, i flussi migratori riusciranno a compensare il calo demografico dovuto al basso tasso di natalità, sempre inferiore a quello di mortalità, garantendo anche un modesto aumento della popolazione europea complessiva. La percentuale degli stranieri nell’Unione europea nel 2014 è pari al 6,7%.
Figura 2 – Bilanci demografici nella media dell’Unione europea – Anni 2015-2030 (per 1.000 residenti)
La Germania non riuscirà a compensare un saldo naturale negativo tra i più elevati, determinato da un basso tasso di fecondità (1,4 figli per donna nel 2013), con il flusso degli emigrati, dal momento che la popolazione complessiva subirà una netta flessione nel periodo considerato, anche a causa della stagnazione del saldo migratorio (figura 3). Se vuole correggere questa dinamica negativa della popolazione, dovrà incrementare ulteriormente i flussi in entrata degli stranieri, pur tenendo conto che nel 2014 la percentuale degli stranieri è molto elevata (8,7%). È possibile che le recenti prese di posizione della cancelliera Merkel sui profughi siriani siano state fortemente influenzate da queste evidenze. Del resto, la Germania è il paese nel quale è maggiormente aumentato il flusso annuale degli immigrati dal 2009 al 2013, raddoppiando il numero degli stranieri da circa 346 mila a quasi 700 mila).
Figura 3 – Bilanci demografici in Germania – Anni 2015 – 2030 (per 1.000 residenti)
La Spagna è l’unico paese fra quelli presi in considerazione nel quale si registrerà sia un saldo naturale negativo (il tasso di fecondità è di 1,27 figli per donna), sia un saldo migratorio negativo fino al 2024 (il numero di emigrati è superiore a quello degli immigrati), che determineranno una netta flessione della popolazione totale (figura 4). L’attuale chiusura delle sue frontiere ai flussi migratori, determinata dall’elevato tasso di stranieri (10,1%), dovrà interrompersi a partire dal 2025, per contenere su livelli più accettabili la flessione della popolazione.
Figura 4 – Bilanci demografici in Spagna – Anni 2015 – 2030 (per 1.000 residenti)
Le dinamiche demografiche della Francia sono del tutto diverse da quelle della media europea, dal momento che la crescita della popolazione totale sarà garantita sia da un saldo migratorio positivo, sia da un saldo naturale ancora positivo grazie a un elevato tasso di fecondità (2 figli per donna, quasi pari alla soglia di rimpiazzo di 2,1 figli) (figura 5). Di conseguenza la Francia potrà mantenere il suo equilibrio demografico ottimale con un saldo migratorio di circa 90 mila stranieri l’anno ed è, di conseguenza, nettamente contraria ad aprire le sue frontiere a flussi migratori aggiuntivi, nonostante la quota di stranieri nel 2014 sia relativamente bassa (6,3%).
Figura 5 – Bilanci demografici in Francia – Anni 2015 – 2030 (per 1.000 residenti)
In Italia la modestissima crescita della popolazione sarà garantita esclusivamente dall’afflusso degli emigrati che compenseranno interamente il saldo naturale negativo, determinato anche da un tasso di fecondità di 1,39 figli per donna, di gran lunga inferiore al tasso di rimpiazzo (figura 6). Nel 2014 la quota degli stranieri era vicina a quella della Germania (8,1%). Analizzando il bilancio per le due componenti di popolazione residente, italiana e straniera, si osserva che i saldi del movimento naturale e migratorio saranno sempre negativi per i residenti con cittadinanza italiana e positivi per quelli con cittadinanza straniera. Ma come si osserva in seguito, le dinamiche demografiche sono totalmente diverse tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno.
Figura 6 – Bilanci demografici in Italia – Anni 2015 – 2030 (per 1.000 residenti)
Infine, il Regno Unito avrà una dinamica demografica simile a quella della Francia, dal momento che si registreranno valori positivi sia per il saldo naturale sia per il saldo migratorio. Si prevede, nel periodo dal 2015 al 2030, solo un modesto aumento del saldo migratorio di quasi 37 mila unità per compensare la lieve flessione del saldo naturale (il tasso di fecondità è di 1,83 figli per donna, di poco inferiore al tasso di rimpiazzo) (figura 7). Anche questo paese non ha alcun interesse ad aumentare gli attuali flussi migratori, in particolare se composti da lavoratori non qualificati, nonostante la quota di stranieri nel 2014 sia relativamente bassa (7,8%).
Figura 7 – Bilanci demografici nel Regno Unito – Anni 2015 – 2030 (per 1.000 residenti)
La prossima tabella consente di rispondere al primo quesito iniziale sulla “domanda” d’immigrati da parte dei paesi europei e in particolare dell’Italia nei prossimi anni, per compensare la bassa natalità (tavola 2). A partire dal flusso in ingresso annuo reale degli stranieri (le nuove iscrizioni all’anagrafe) del 2013, sono stati stimati i flussi per il 2015 e per il 2020, applicando la stessa variazione del saldo migratorio registrata per ciascun paese, analizzata nei grafici precedenti. Per stabilizzare la popolazione dell’Unione europea intorno a 500 milioni di persone è necessario un flusso annuo che aumenta da circa 2,6 milioni d’immigrati stranieri del 2015 a oltre 2,9 milioni del 2020. Nel 2030, se saranno confermate le proiezioni, il numero medio d’immigrati stranieri supererà 3,7 milioni.
L’afflusso complessivo di 2,9 milioni d’immigrati del 2020 sarà determinato, per la quota maggiore, dalla Germania (18%) che, tuttavia, registra una flessione del numero degli stranieri che entrano nel paese rispetto al 2015. Se questa tendenza non sarà modificata, si registrerà una flessione della popolazione di questo paese. Il secondo paese per quota d’immigrati nel 2020 è il Regno Unito (17,1%, pari a 502 mila unità), con una crescita rispetto al 2015 dell’8,9%. Segue l’Italia (11%), con un afflusso nel 2020 di 323 mila stranieri e una crescita dell’11,1% rispetto al 2015. Secondo le stime più conservative dell’Istat, la popolazione straniera aumenterà dal 2015 al 2020 di circa 1,3 milioni (da 5,8 a 7,1 milioni), con una media annua di circa 263 mila stranieri. Gli ingressi in Francia degli immigrati stranieri si manterranno intorno a 220 mila unità con una lieve crescita dal 2015 al 2020 (1,5%), mentre in Spagna si registrerà, nello stesso periodo, una netta flessione del flusso annuo d’immigrati (-23,9%), che diminuiranno da 246 mila a 187 mila. Il restante flusso migratorio del 2020 (1,2 milioni di stranieri) si distribuirà tra gli altri 23 paesi dell’Unione.
Tavola 2 – Stima dei flussi annui degli stranieri in nei paesi dell’Unione europea – Anni 2013, 2015 e 2020 (valoriassoluti e percentuali)
La disponibilità di previsioni demografiche più dettagliate da parte dell’Istat, che in questo caso possono essere limitate alla sola popolazione in età lavorativa (15-64 anni), consente di analizzare quale sarà la probabile domanda di lavoratori stranieri da parte del sistema produttivo italiano, in una prospettiva più lunga, dal 2015 al 2065, al lordo ovviamente degli inattivi. In generale lo scenario centrale delle previsioni dell’Istituto statistico italiano prevede un aumento della popolazione complessiva molto più contenuto rispetto a quella dell’Eurostat (la stima della popolazione totale nel 2065 è di 61,3 milioni, 65,8 milioni per l’Eurostat).
La popolazione complessiva in età lavorativa diminuirà da 39,8 milioni del 2015 a 33,5 milioni del 2065 (-6,3 milioni), come risultato di una flessione di 10,4 milioni d’italiani e di un aumento di 4,1 milioni degli stranieri (la percentuale degli stranieri sul totale aumenterà nello stesso periodo dall’11,3% al 25,6%) (tavola 3). Di conseguenza l’aumento degli immigrati non riuscirà a compensare la riduzione della popolazione in etàlavorativa, ma avrà effetti sbilanciati tra Centro-Nord e le regioni del Mezzogiorno. Infatti, l’aumento di 4,1 milioni di lavoratori stranieri potenzialmente attivi nel corso di 50 anni sarà assorbito per 4,1 milioni di unità dalle regioni del Nord, per 1 milione da quelle del Centro e per solo 400 mila da quelle del Mezzogiorno.
Tavola 3 – Previsioni della popolazione in età lavorativa (15-64 anni) per cittadinanza in Italia – Anni 2015–2065 (valori assoluti e percentuali)
Nel Nord gli stranieri (+2,7 milioni) compenseranno quasi completamente la flessione della popolazione italiana inetà lavorativa (-3,4 milioni), determinando così una diminuzione di 700 mila residenti. Anche nel Centro la componente straniera compenserà quasi completamente la flessione della popolazione italiana (-1,5 milioni): dal 2015 al 2065 i residenti diminuiranno solo di 500 mila persone, grazie all’aumento di 1 milione di stranieri (figura 8).
Figura 8 – Previsioni della popolazione in età lavorativa (15-64 anni) per cittadinanza in Italia, Nord e Centro –Anni 2015–2065 (valori assoluti)
Viceversa, nel Mezzogiorno il modesto aumento degli stranieri (+400 mila) non riuscirà a compensare la flessione della popolazione italiana in età lavorativa (-5,4 milioni), determinando così, nel corso dei prossimi 50 anni, una riduzione di 5 milioni della popolazione residente (figura 9). Se questi dati fossero confermati, nel Mezzogiorno la popolazione potrebbe ridursi di più di un terzo: di conseguenza, fra 50 anni, quasi tre quarti dei residenti in Italia abiteranno nelle regioni del Centro-Nord (74%) e solo un quarto in quelle del Mezzogiorno (26%). La valutazione sulle conseguenze economiche e sociali di questo probabile shock demografico che colpirà il Mezzogiorno è complessa perché le stime non sono in grado di cogliere integralmente le possibili interazioni fra evoluzione demografica e le singole componenti della crescita, ma certamente le ripercussioni di queste dinamiche, probabilmente irreversibili, sulla crescita economica, sulla composizione del sistema produttivo, sulla sostenibilità del welfare, sul mercato del lavoro e sulla struttura sociale delle singole regioni meridionali non potranno che essere pesantemente negative.
Ancora, bisogna valutare quali conseguenze avrà il progressivo invecchiamento della popolazione meridionale, l’aumento del numero di anziani bisognosi di cure e la riduzione della base imponibile sulla divisione sociale del lavoro fra uomini e donne, sulla conciliazione tra lavoro e cura della famiglia, sui rapporti intergenerazionali, sulle pari opportunità, sul sistema assistenziale pubblico e in generale sulla coesione sociale. Di certo, sarebbe indispensabile che la politica si appropriasse di queste previsioni demografiche, per contrastarle (impresa impossibile) o per mitigarne gli effetti negativi.
Figura 9 – Previsioni della popolazione in età lavorativa (15-64 anni) per cittadinanza nel Mezzogiorno – Anni 2015–2065 (valori assoluti)
Alla domanda iniziale relativa al rischio di dover fronteggiare “migrazioni di massa”, non assorbibili da parte dei 500 milioni di abitanti dei paesi dell’Unione non può che ricevere una risposta negativa, dal momento che l’Unione dovrà gestire nei prossimi 5 anni, a prescindere dall’attuale emergenza, un flusso annuo medio di circa 2,8 milioni d’immigrati – che salirà a oltre 3,7 milioni nel 2030 – solo per compensare la diminuzione della popolazione autoctona. Ma, come è stato osservato precedentemente, la domanda di immigrati sarà diversa nei 28 paesi europei, a prescindere dalla loro grandezza, in gran parte a causa del tasso di fecondità: i paesi nei quali il problema di compensare la diminuzione della popolazione autoctona è contenuto, come la Francia e il Regno Unito, saranno meno propensi a farsi carico di immigrati che non hanno già trovato un lavoro, mentre quelli che devono fronteggiare un calo drammatico della popolazione autoctona, come la Germania e l’Italia, dovranno accogliere più persone che cercano un’occupazione.
Insuperabili sono, tuttavia, le preferenze degli immigrati che s’indirizzeranno verso i paesi dove sono più presenti le loro comunità e che offrono migliori condizioni d’accoglienza agli stranieri e, in particolare, alle persone che chiedono asilo (le domande di asilo sono passate da 226 mila del 2008 a 627 mila del 2014).
Ovviamente i flussi migratori che provengono solo da alcuni paesi nei quali si combattono guerre o il disagio economico è più forte e con livelli di analfabetismo molto alti, creeranno certamente seri problemi per quanto riguarda la difficoltà di far incontrare l’offerta con la domanda reale di figure professionali da parte delle imprese di ciascun paese europeo. Paesi nei quali la domanda da parte delle imprese è rivolta in prevalenza a stranieri con elevate qualifiche professionali e con titoli di studio corrispondenti, come il Regno Unito nel quale quasi la metà degli immigrati è laureata (45,6%), avranno maggiori difficoltà ad assorbire quote elevate di rifugiati con bassi titoli di studio (figura 10). Viceversa, sarà più facile l’integrazione nei paesi che utilizzano i lavoratori stranieri prevalentemente per professioni non qualificate come l’Italia (la quota di laureati è pari al 10.9%), ma anche la Germania (21,2% i laureati) e la Spagna (22,4% i laureati).
Figura 10 – Stranieri in età lavorativa (15-64 anni) che hanno conseguito un titolo di studio terziario nei paesi dell’OCSE – Anno 2013 (valori percentuali)
In ogni caso, ci troviamo di fronte a dinamiche permanenti di aggiustamento tra la domanda e offerta mondiale di braccia, di competenze e anche di bocche da sfamare che dovranno essere affrontate con interventi non solo di accoglienza, ma anche d’attivazione e di formazione verso la reale domanda di professioni, con iniziative nei paesi di provenienza per ridurre gli squilibri economici e con gli strumenti della diplomazia – compresi quelli di polizia internazionale – per combattere i trafficanti e gestire i rientri. Già far sì che in Italia le procedure di riconoscimento di coloro che richiedono asilo non debbano durare anni, ma al massimo un paio di mesi, come accade nel resto dell’Europa, potrebbe contenere il fenomeno dell’uso distorto e malavitoso delle risorse per l’accoglienza, impedire il prolungamento dello stato d’inattività degli immigrati e consentire l’attivazione di coloro che vogliono trattenersi nel nostro paese per lavorare.
Non siamo, invece, davanti alla fine dell’Occidente, come qualcuno ha affermato in modo temerario, ma di fronte a una sfida sempre più complessa, della cui portata non siamo sempre consapevoli. Infatti, le trasformazioni demografiche, negli ultimi anni, hanno determinato fenomeni di grande rilevanza per lo sviluppo sociale ed economico dell’Europa, come la diminuzione delle nascite, l’innalzamento della vita media, l’aumento delle migrazioni e il forte invecchiamento della popolazione. Tali trasformazioni, che negli ultimi anni si sono manifestate con una velocità sconosciuta nel passato e che nel futuro subiranno un’ulteriore accelerazione, hanno forti ricadute sul tessuto sociale, sullo sviluppo economico, sul mercato del lavoro, sulla salute dei cittadini sulla tenuta del sistema di protezione e d’inclusione sociale, sulle caratteristiche del sistema di welfare e sulla
stessa politica.
L’Italia ha un compito aggiuntivo rispetto agli altri paesi europei, perché questi fenomeni si manifestano con una intensità nettamente diversa nel Nord e nel Sud del paese e, per alcuni versi, sembrano irreversibili e senza soluzione. Già riuscire a guardare con un orizzonte di decenni, come si è fatto in questo articolo, piuttosto che alla sola prossima scadenza elettorale, può aiutare.
1 Crescita totale (tasso di): la somma del tasso di crescita naturale e del tasso migratorio totale.
2 Saldo migratorio: la differenza tra il numero di immigrati e quello di emigrati. Il tasso migratorio totale è il rapporto tra il saldo migratorio e l’ammontare medio della popolazione residente, moltiplicato per 1.000. Gli immigrati possono anche non essere stranieri, ma la quota di questi ultimi supera mediamente in Europa il 90%.
3 Crescita naturale (tasso di): la differenza tra il tasso di natalità e il tasso di mortalità. Il tasso di natalità e il rapporto tra il numero dei nati vivi dell’anno e l’ammontare medio della popolazione residente, moltiplicato per 1.000. Il tasso di mortalità è rapporto tra il numero dei decessi nell’anno e l’ammontare medio della popolazione residente, moltiplicato per 1.000.
(*) Questo articolo è già comparso il 3 settembre 2015 su Strade e ripreso dal sito “Percorsi di Secondo Welfare”.
(**) Già deputato dalla 7a alla 11a legislatura, Roberto Cicciomessere è consulente di Italia Lavoro per
gli studi e le ricerche sul mercato delle lavoro