“Tutto comincia dalle parole”, ha detto ieri Veltroni alla “Repubblica” per replicare a Salvini: il quale, a proposito della bravata di Casa Pound nella sede di un’associazione umanitaria di Como, aveva osservato che “le parole non sono violenza”.
Ma se tutto comincia dalle parole, queste vanno usate con proprietà. Proprio ieri, per esempio, mentre ad Orvieto si concludeva l’assemblea di “Libertà eguale” (l’associazione fondata quasi vent’anni fa da Enrico Morando e dal compianto Luciano Cafagna per promuovere la cultura riformista in seno al centrosinistra), a Roma prendevano il nome di “Liberi e uguali” i movimenti che si sono ritrovati sotto la guida di Piero Grasso, cioè quanto di più lontano ci sia dal riformismo: segno che a sinistra le parole non significano più granché. Ed è probabilmente a causa di questo disorientamento che ci si attacca anche all’usato sicuro dell’antifascismo nel tentativo di recuperare un’identità lacerata.
Intendiamoci: i pericoli per la democrazia di cui parla Veltroni ci sono tutti, in Italia e in Europa. Ma non dipendono certo da un gruppo di untorelli nostalgici, né dal carabiniere che si mette in capo al letto una bandiera del Terzo Reich (sempre che non si tratti, come pare, di una bandiera del secondo, quello guglielmino). Dipendono dai drammi sociali che si sono manifestati nel nuovo secolo, e che riguardano milioni e milioni di persone vittime degli effetti collaterali della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica: drammi che non inducono nostalgie del passato, ma paura del futuro.
E’ inutile quindi che la sinistra si rifugi nella retorica dell’antifascismo. Deve offrire invece una prospettiva, come seppe fare rispetto agli effetti collaterali altrettanto sgradevoli che accompagnarono la prima rivoluzione industriale, e poi la seconda e la terza. Ora siamo alle prese con la quarta: ed anche in questo caso sarà difficile che la sinistra riesca nell’impresa senza dividersi. Nell’Ottocento si divise dai luddisti. E nel Novecento si divise fra comunisti e socialdemocratici, i quali in condizioni non meno complesse delle attuali seppero creare quel compromesso col capitalismo che è stato il Welfare State.
Anche ora la sinistra ha davanti due strade. Quella regressiva della società chiusa e della decrescita felice, magari riesumando il fantasma dello Sim (lo Stato imperialista delle multinazionali contro cui la “meglio gioventù” combatteva negli anni di piombo). Oppure quella progressista della società aperta, impegnandosi ad “umanizzarla” come la umanizzò ai tempi dei padroni delle ferriere e a quelli del taylorismo e dell’operaio massa.
Non sono scelte astratte e ideologiche: sono scelte concrete e politiche che vanno fatte qui ed ora, perché qui ed ora ci stanno davanti. A cominciare da quella della costruzione di una sovranità europea, magari nei termini indicati da Emmanuel Macron nel suo discorso dello scorso settembre alla Sorbona. Fino a quella che discrimina chi proclama lo sciopero generale per risparmiare cinque mesi di lavoro ai pensionandi del 2019 da chi si adopera per governare il cambiamento a favore delle nuove generazioni senza pretendere di fermare il mondo perché vuole scendere.
“Uniti si vince”, si diceva una volta. Non era vero neanche allora, come sanno quelli che cantavano “el pueblo unido / jamàs serà vencido” per esorcizzare il successo del colpo di Stato di Pinochet. Ma mai come ora, comunque, uniti si perde. Sia quando una qualche unità la si persegue prendendo a prestito le parole dei propri avversari, alla maniera della Torre di Babele. Sia quando la si persegue spendendo parole contro Casa Pound ed il fascismo che fu, ignorando il fascismo che sarà se il cambiamento non verrà governato. Perché ha ragione Veltroni: “Tutto comincia dalle parole”.
(*) da Il Mattino 3/12/2017