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Un’ Europa-senza-anima è inutile o pericolosa?

Alcuni giorni fa, è morto questo grande amico di Nuovi Lavori e mio personale. E’ stato un dolore forte, giunto inaspettato benchè fossi stato allarmato. La sua amicizia è stata sempre schietta, come schietto era il suo modo di parlare in pubblico e in privato. Ci mancheranno la sua intelligenza, la sua capacità di visione, il suo stile di vita. Un lungo abbraccio, Giacomo, come lungo sarà il ricordo.
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Ha senso un’unione solo economica e monetaria? Oppure ogni unione presuppone sempre che si voglia realizzare un destino comune, e quindi che si intenda valorizzare il bene comune, dato da ciò che accomuna: quanto fai per gli altri e non solo ciò che fai con gli altri? Non è un caso che tanto significativo sia stato nella costruzione dell’Unione il contributo dei cattolici, da Adenauer a De Gasperi e Schuman, da Delors a Kohl. Di qui la nostra definizione di economia sociale di mercato, che non si ritrova con le stesse basi culturali e politiche nel capitalismo anglosassone. Di qui l’importanza dei valori della solidarietà e della cooperazione. Sono questi i valori dell’Europa che ci era stata promessa e senza i quali il sogno di venticinque anni fa rischia di diventare un incubo. Ma non riusciremo nell’impresa se non evitiamo gli opposti estremisti: quelli del pericoloso autocompiacimento come quelli del pessimismo sterile. Ricorda papa Francesco[1](ripetendo l’ammonizione con cui l’11 ottobre 1962 San Giovanni XXIII apre il Concilio Vaticano II) che si deve «dissentire dai profeti di sventura, che annunciano sempre il peggio… Nessuno può intraprendere una battaglia, se in anticipo non confida pienamente nel trionfo».

Se vogliamo che il futuro dell’Europa continui ad essere percepito come un bene comune anche per le prossime generazioni, sono necessarie almeno tre condizioni.

  1. Anzitutto, un’operazione di cultura economica. È infatti normale che chiunque possa esprimere la sua opinione sull’euro e sui danni che ritiene di averne ricevuto. Ma dovremmo fare il possibile affinché chi ne discute sappia cos’è una moneta, cos’è un’unione monetaria e come se ne misurano benefici e costi. Non è un gran bel mondo quello in cui si decide in base all’ignoranza.
  2. Lo stesso impegno – alla ricerca della verità – andrebbe dedicato a misurare (una sorta di due diligence) i danni subiti in questi anni di crisi. In particolare, la perdita permanente dovuta ad un minor tasso di crescita del reddito potenziale che nessuna ripresa potrà restituirci[2]. In questo senso, il tema da affrontare – tutti assieme – è quello della necessaria ricostruzione economica e sociale, che recuperi l’aspettativa di un futuro migliore per le nuove generazioni.
  3. La terza, non meno importante, riflessione da realizzare prima possibile riguarda le priorità cui ci dobbiamo dedicare nei prossimi anni. Data la gravità della crisi esplosa nel 2010, era inevitabile che si incominciasse mettendo in sicurezza la casa comune. Di qui l’importanza attribuita al consolidamento fiscale e all’unione bancaria: era necessario anzitutto porre rimedio agli errori e provvedere a realizzare quanto di importante era stato prima trascurato. Ma adesso dobbiamo di nuovo essere lungimiranti, e scegliere un percorso per i prossimi anni. Da cosa cominciamo?

Anni fa avrei detto che una volta fatta la moneta e così unito il mercato avremmo dovuto proseguire ad unire ciò che ci collega con il resto del mondo, cioè politica estera e difesa (dopotutto i soldi non furono inventati per pagare i soldati?). Ma alla luce dell’esperienza degli ultimi vent’anni, e dei problemi degli ultimi dieci, mi sembra che la priorità sia piuttosto sociale prima che economica, cioè riferibile più ai valori di equità che a quelli di stabilità ed efficienza. È questo l’aspetto della solidarietà tante volte evocato da Delors, da interpretare però in modo ampio, più di quando lo si associa solo alla protezione del più debole.

La sfida da affrontare – per dare un’anima all’Europa – è anzitutto quella di scegliere tra due modi di concepire una società giusta, in cui merita vivere, tra le due visioni che in questi anni si sono contrapposte. Da un lato chi giudica grave la crescente diseguaglianza, nella distribuzione del reddito e della ricchezza, perché mina la coesione sociale. Dall’altro la visione di chi ritiene migliore – anche da un punto di vista etico – una società dove c’è crescita, cioè dove, in media, ogni generazione vive meglio della precedente.

Scegliere tra queste due visioni – che una volta avremmo definito una di sinistra e l’altra liberale – è necessario anzitutto per ricavarne priorità di policy. Anche perché, nel caso dell’Italia, rischiamo di continuare a soffrire da ambedue questi punti di vista: nessuna crescita e crescenti diseguaglianze, dovute al fatto che solo alcuni crescono e che lo fanno in presenza dell’impoverimento altrui.

Il tema della diseguaglianza è tornato di drammatica attualità. Ma in realtà lo sappiamo da anni che in Italia si andavano riducendo sia la crescita sia l’equità[3]. Era già vero prima della crisi: si riduceva la quota dei redditi da lavoro sul valore aggiunto; migliorava la posizione relativa – quanto a reddito e ricchezza – di quelli che già erano i più ricchi; i più poveri essendo ancora i proletari.

La stessa globalizzazione che ci espone ad un’accresciuta varianza tra i modelli possibili ci costringe a ridefinire qual è il tipo di società in cui riteniamo si viva meglio, e che quindi ci poniamo come obiettivo da perseguire. Dovremmo allora ripensare a cosa possa significare il modello di economia sociale di mercato che una volta scritto nel Trattato di Lisbona (2010) abbiamo poi un po’ tutti dimenticato. Non a cosa significasse cent’anni fa, ma a cosa potrebbe significare nei prossimi cinquant’anni. E non per piaggeria nei confronti di una presunta origine tedesca di quell’espressione, ma perché riassume anche tante virtù che sono nel nostro DNA, come tante eccellenze della vita di questo paese ben testimoniano, a cominciare da ciò che ci accomuna nella storia del diritto, della cultura, della scienza e dell’arte. So bene che a Londra e a Washington guardano con ironia o con sospetto a questa nostra idea di economia sociale di mercato che riscopriamo soprattutto nei tempi di crisi. È però difficile credere che potremo uscire dalla crisi senza prima provare a conciliare – meglio di quanto fatto finora – la dimensione mercato e quella sociale.

Senza il necessario consenso dei tanti cittadini europei che hanno sperimentato i costi dell’unione mentre vedevano altri riceverne i benefici, sarà ben difficile riprendere il percorso iniziato, e recuperare l’arretramento che abbiamo conosciuto in questi difficili anni. Ma tutto ciò è possibile solo rovesciando le priorità degli ultimi dieci anni: la disciplina è uno strumento utile solo se serve a finalità di crescita economica e sociale. 

 

 

[1]  Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, 26 novembre 2013, 84-85.

[2]  European Economy, Impact of the Current Economic and Financial Crisis on Potential Output, Occasional Papers, giugno 2009; Kieran McMorrow e Werner Roeger, The Euro Area’s Growth Prospects over the Coming Decade, European Commission, Quartely Report on the Euro Area, dicembre 2013.

[3]  Vedi Giacomo Vaciago, Crescita ed equità, in Carlo Dell’Aringa e Tiziano Treu (a cura di), Le riforme che mancano, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 461-466.

 

 (*) da Un’anima per l’Europa, Il Mulino, 2014

 

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