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Un fisco ”à la carte”

Chi osserva la storia del fisco italiano negli ultimi cinquant’anni può vedere come nello scontro ripetuto tra tecnici e politici siano i primi ad avere assunto posizioni più progressiste e a essere stati regolarmente sconfitti dai secondi.

L’idea di riforma Cosciani all’inizio degli anni settanta, sul modello di quelle europee, prevedeva imposte personali sui redditi onnicomprensive, accompagnate da robuste imposte sulle società e da imposte sul patrimonio. Ma Visentini impose che dall’Irpef fossero esclusi i redditi di capitale, e, di fatto, i redditi dei terreni e dei fabbricati misurati col catasto, mentre l’imposta sul patrimonio fu sostituita dall’Ilor.

Se veniamo ai nostri giorni, basta confrontare il DDL delega di riforma fiscale presentato da Draghi con il testo modificato approvato dal Parlamento con il consenso di tutti i partiti politici con l’eccezione solo di LEU.  Si passa da un progetto organico con l’adozione di un sistema di Dual Income Tax, alla sua eliminazione dalla delega con il mantenimento della differenziazione delle aliquote per le diverse forme di reddito da capitale e immobiliare, prospettando una situazione di imposizioni cedolari tipica del periodo precedente alla stessa riforma del 1973.

Fin dall’inizio, dunque, l’attuale sistema fiscale non è stato unitario dato che la base imponibile dell’Irpef non comprendeva i redditi di capitale e misurava catastalmente i redditi dei terreni e da fabbricati. Negli anni successivi, tuttavia, il sistema è stato progressivamente frantumato con l’introduzione continua di agevolazioni, esenzioni, bonus a favore di singole categorie più o meno numerose creando regimi fiscali diversi tra differenti tipologie di reddito e, all’interno di questi, consentendo carichi fiscali sensibilmente diversi grazie ad un’anomala espansione delle tax expenditures. E’ stato, inoltre, caratterizzato dalla continua erosione della base imponibile dell’Irpef con l’uscita di varie tipologie di reddito (immobili in locazione, autonomi in flat tax, reddito agricolo).

Tutto questo ha fatto completamente saltare un elemento essenziale di un corretto sistema fiscale, l’equità orizzontale, che prevede un analogo trattamento fiscale per tutti i redditi e quindi anche l’applicazione dell’art. 53 della Costituzione (tutti sono tenuti a finanziare la spesa pubblica secondo la propria capacità contributiva). 

Abbiamo oggi di fatto quattro regimi Irpef: uno per i lavoratori dipendenti, uno per i pensionati che hanno detrazioni più basse rispetto ai dipendenti, uno per gli autonomi con detrazioni ancora minori e uno per gli autonomi in regime di flat tax. 

All’interno di questi regimi non tutti sono tuttavia uguali. Con motivazioni diverse sono state concesse dai vari governi nel corso di questi cinquant’anni agevolazioni, esenzioni e bonus particolari. Un lavoratore dipendente può avere una parte della sua retribuzione formata dal premio di risultato non soggetto a Irpef perché frutto di un accordo aziendale secondo le regole stabilite dalla legge, oppure usufruire di social benefits fiscalmente esenti e quindi, a parità di reddito, subire una pressione fiscale inferiore rispetto a un altro. Tra i lavoratori autonomi i redditi agricoli sono esenti da Irpef e via discorrendo.

Poi vi sono le tax expenditures o spese fiscali, quelle che nell’Unico si riportano in oneri e spese: possono a parità di reddito differenziare sensibilmente il peso del fisco. Sono salite alla ribalta nel 2011 quando Tremonti instituì una commissione per vedere quante erano e a quanto ammontassero. Vi è tutt’oggi una commissione che opera in questo senso. Il risultato è che dal 2011 il numero delle spese fiscali e il loro importo, ossia le mancate entrate fiscali per lo stato, sono aumentate ogni anno, nonostante gli impegni presi pressoché annualmente. Troppo forte la tentazione di concedere nuove agevolazioni/esenzioni, troppo difficile politicamente eliminare quelle esistenti. Interessano categorie, più o meno numerose, di cittadini e imprese.

In pratica quasi ogni cittadino, quasi ogni impresa ha una propria Irpef o una propria Ires. Non basta conoscere il reddito di una persona per sapere quanto versa allo stato. Bisogna sapere a quale tipologia di reddito fa riferimento e di quali agevolazioni usufruisce. Insomma un fisco a la carte.

Tutto questo non è senza conseguenze rispetto all’art. 53 della Costituzione troppo spesso richiamato e così poco attuato. Pensiamo ad esempio cosa comporti la diversità di tassazione tra un lavoratore dipendente, un percettore di redditi di capitali e un autonomo in flat tax. Per gli incrementi di reddito sopra i 28.000 euro, considerando che i lavoratori dipendenti sono soggetti ad aliquota marginale del 43% (43,68 fino a 50.000, poi 43), la loro capacità contributiva è considerata pari a 1,65 volte quella dei percettori di redditi di capitale (aliquota del 26%); pari a 2,87 volte quella di un autonomo in flat tax (aliquota del 15%). 

La progressività opera, di fatto, pressoché solo per i dipendenti e i pensionati colpendoli così non solo nel sistema fiscale, ma, anche a causa della forte evasione, nella spesa sociale. Pur essendo dipendenti (attraverso imposte e contributi) e pensionati (attraverso imposte) tra i maggiori finanziatori dello stato sociale, si trovano spesso a subire limitazioni nell’accesso alle forme gratuite di spesa sociale. Si determina così un evidente squilibrio tra chi paga e chi riceve.

Paradossalmente non è chi non paga (gli evasori) o chi non è soggetto alla progressività che incontra difficoltà o limiti nell’usufruire dei servizi del welfare pubblico e in generale dello stato, ma coloro che sono soggetti alla progressività dell’Irpef.

Con buona pace di molti il problema principale nel nostro paese non è la mancanza di progressività, ma la mancanza di equità orizzontale e, naturalmente, l’evasione.

Tutto questo è il frutto di cinquant’anni di politiche fiscali di cui hanno responsabilità tutti i governi e tutte le forze politiche che hanno governato.

Rispetto a questo come si colloca il governo Meloni?

In teoria l’obiettivo indicato nella delega sarebbe quello, nel campo dei redditi delle persone, di una flat tax estesa a tutti realizzando così un’equità orizzontale almeno per i redditi da lavoro e da pensione, ma si rinuncerebbe così a una qualunque forma di progressività e resterebbe la diversità di trattamento con le altre tipologie di reddito. Nella realtà, data l’impossibilità finanziaria di realizzare una riforma di questo tipo, il governo, come ha già dimostrato, proseguirà nella strada fin qui seguita dai governi precedenti, semmai accentuandola, con misure specifiche destinate a precisi settori. Potranno così arrivare l’innalzamento del limite di fatturato per la flat tax, la detassazione delle tredicesime, la cedolare secca per l’affitto dei negozi.

Insomma un’Irpef sempre più categorializzata e personalizzata nella quale certo l’articolo 53 della Costituzione non troverà applicazione.

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