La centralità del lavoro e del lavoratore nella scala dei valori dominante è pesantemente rimessa in discussione dalla globalizzazione, dalla finanziarizzazione, dall’innovazione tecnologica.
Le grandi organizzazioni di massa sono in difficoltà. I partiti si stanno dissolvendo. I corpi intermedi in generale e il sindacato in particolare assistono spesso attoniti al ridimensionamento del proprio ruolo. Sono diventati vulnerabili. Impotenti. Afoni. Cambia il modello di organizzazione del lavoro. Gli stili di vita e di pensiero sono sempre più diversi da quelli del passato. Il modo di imparare, di comunicare, di interagire, di lavorare, di leggere, di vivere nel duemila è sempre più lontano da quella che era la società del novecento.
Aris Accornero ricorda che allora “tutti ci alzavamo alla medesima ora, tutti uniformati negli orari giornalieri, settimanali, annui e tutti eravamo stati educati a pensare che la vita lavorativa si svolgesse su tutto l’orario giornaliero per tutti i giorni feriali della settimana, in tutti i mesi lavorativi dell’anno, fino alla pensione”.
Non è più così.
E’ in atto un gigantesco processo di cambiamento che rimette in discussione la classica distinzione tra destra e sinistra.
Anche il capitalismo è diverso. Umberto Romagnoli evidenzia che si è finanziarizzato: “ è passato dall’economia di scala all’economia di scopo in un mercato senza frontiere, ha sostituito il lavoro culturalmente e politicamente egemone che la società industriale declinava al singolare con una galassia di “lavoretti”. Minuscoli. Eterogenei, Precari. Sottopagati”.
Come ripartire?
Non ci debbono essere dubbi od esitazioni. Occorre agire. Non si può solo reagire.
E’ il momento di pensare.
Si deve conoscere la storia ma non la si può replicare.
La centralità del lavoro, la dignità della persona, i diritti di cittadinanza vanno rivitalizzati e valorizzati. La uber economy, il lavoro occasionale, l’economia vaucherizzata non può essere contrastata con divieti legali, con la riproposizione delle strategie vincenti del passato.
Gli chassepots, i fucili del generale Championet, ebbero ragione a Mentana dei garibaldini ricchi di ideali ma armati di povere e semplici carabine ad avancarica.
In questo scenario così cupo ci sono ogni tanto avvenimenti in controtendenza.
L’accordo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici tedeschi del Baden Wurttemberg è uno di questi. Contiene due novità.
La prima: i salari dei metalmeccanici tedeschi cresceranno del 4,3% in due anni e mezzo, ben più dell’inflazione prevista. Una decisione controcorrente, specie in Italia dove gli industriali pensano, invece che gli aumenti salariali reali debbano venire solo da contrattazioni aziendali e a fronte di comprovate crescite della produttività. Sindacati e imprese invece hanno seguito in Germania le indicazioni delle grandi istituzioni monetarie, a cominciare dalla BCE, che auspicano una crescita dei salari reali.
La seconda novità è la parte relativa all’orario di lavoro. I tedeschi hanno dalla metà degli anni ottanta le 35 ore settimanali. Con l’accordo di BadenWurttberg (che ora riguarda gli stabilimenti della Daimler Benz e della Posche) i lavoratori più anziani possono ridurre l’orario lavorativo da 35 a 28 ore per un periodo di tempo che può variare da un minimo di sei mesi ad un massimo di due anni. In cambio i datori di lavoro avranno la possibilità di estendere la settimana lavorativa da 35 a 40 ore per tutti gli altri dipendenti che ne fanno richiesta ottenendo così l’opportunità di introdurre fasce lavorative molto flessibili e differenti fra loro all’interno di ogni singola azienda e di adeguare anche gli orari lavorativi all’andamento degli ordini.
Il nuovo contratto di lavoro verrà esteso con ogni probabilità a tutti i 3,9 milioni di lavoratori del settore in Germania.
La settimana di 28 ore, limitata ad un periodo massimo di due anni, potrà essere richiesta da un dipendente per accudire a casa un figlio dopo la nascita o per curare un parente malato. Pur non ottenendo durante questo periodo il conguaglio dell’intero stipendio, i dipendenti che faranno ricorso alla settimana lavorativa di 28 ore, non solo avranno il diritto a tornare quando vogliono alla settimana lavorativa di 35 ore, ma otterranno dall’azienda un bonus di tempo pari a otto giornate di ferie aggiuntive.
«L’accordo avrà un effetto positivo sull’intero Paese facendo aumentare la domanda interna», ha dichiarato il presidente dell’IG Metall Jörg Hofmann. «Non solo. Per la prima volta i lavoratori otterranno la possibilità di investire più tempo per le loro famiglie, i loro cari, il loro tempo libero. Sarà sempre una scelta volontaria, non obbligatoria e non dettata dalle imprese, ma dalle contingenze della vita vera».
In Germania la chiamano Weltanschauung, e i germanisti traducono il vocabolo con una circonlocuzione: è la “concezione del mondo, della vita, e della posizione in esso occupata dall’uomo”.
I metalmeccanici tedeschi e l’associazione degli imprenditori si sono accordati per uno scambio di flessibilità organizzativa sul lavoro che comporterà un aumento dei costi per unità di prodotto dell’1,5% (quindi al di sotto della soglia massima del 2% fissata dalla BCE per i rinnovi contrattuali, in chiave anti-inflazione).
La IG Metall ha riportato così la qualità della vita al centro della contrattazione collettiva. L’accordo crea un precedente per favorire una condivisa autodeterminazione dell’orario di lavoro – nella fase di sviluppo di Industry 4.0 – da parte dei lavoratori. E’ una svolta. Finora la digitalizzazione, la globalizzazione, la flessibilità avevano avvantaggiato le aziende, spesso a scapito del lavoratore.
La battaglia per il migliore equilibrio tra vita professionale e vita privata deve divenire un impegno comune a tutta la CES (Confederazione Europea dei Sindacati).
Il 6 e 7 dicembre 2018 a Bratislava si svolgerà la Conferenza di industriAll Europe sulla Contrattazione Collettiva “Labor 4.0: una forte contrattazione collettiva per modellare la digitalizzazione” (Bratislava 6-7 dicembre 2018).
Ormai da molto tempo si pensa che il lavoro si possa creare manipolando il quadro normativo che lo regola. Non è così. Funzionano le politiche del lavoro negoziate. L’intervento legislativo ha soltanto peggiorato la situazione. In Italia i risultati si sono ottenuti quando si è praticato il confronto: è in quella sede che emergono i problemi e le soluzioni perché al tavolo ci sono le persone che fanno i conti quotidianamente con la realtà. In un secondo momento si possono rafforzare le soluzioni attraverso la norma.
Il Jobs Act ha offerto solo conferme deludenti. La disoccupazione è scesa ma non in misura significativa; la precarietà che avrebbe dovuto sanare è, invece, riesplosa sotto forma di contratti a termine non appena il meccanismo della decontribuzione è diventato più povero. Le politiche del lavoro fatte per legge alla fine rispondono solo al vecchio richiamo della foresta che invoca la norma per risolvere il problema e l’individuazione di un giudice per colpire un colpevole. Ma le leggi sono rigide, devono durare nel tempo, il loro cambiamento avviene secondo riti che portano via anni.
Le politiche del lavoro, invece, devono essere flessibili, hanno bisogno di progressiva manutenzione, devono essere continuamente adattate alle necessità. Una norma non la puoi adattare, la puoi solo interpretare ma per farlo devi rivolgerti ad un giudice che spesso non ha un quadro normativo a cui affidarsi. Ha prevalso nel tempo l’idea sbagliata che il rapporto di lavoro vada regolato per fattispecie e le fattispecie si sono moltiplicate creando una giungla, una foresta. Il sindacato si deve riappropriare del ruolo negoziale. E anche la Confindustria. Per sintetizzare: la contrattazione è innovativa, la legge è statica e conservativa.
La legge è spesso figlia del velleitarismo. Si pensa che da sola possa bastare a creare posti di lavoro. In tanti si sono esercitati in questa sorta di sperimentazione. Ma la legge mette i lavoratori in una condizione di subordinazione, li indebolisce contrattualmente perché ridimensiona il ruolo del sindacato. Nascono con l’obiettivo di “accontentare” i giovani facendo di conseguenza scomparire la professionalità. Il ragionamento sotteso è semplice: “le cose vanno male, prendi quello che ti diamo”. Il Jobs Act è stato fatto dai giuslavoristi ma è accettabile che si intervenga sulla pelle della gente affidandosi solo ai tecnici? Non funziona. Non ha funzionato.
A livello nazionale si possono definire le condizioni salariali minime, le garanzie generali, ma poi è inevitabile che flessibilità, straordinari, turni di lavoro, regole contro l’assenteismo debbano essere messe a punto laddove si svolge l’attività, che può essere la fabbrica, l’ufficio, l’azienda privata o quella pubblica.
Ora il tessuto industriale italiano è composto prevalentemente da aziende di piccole dimensioni. Nel ’69 era più facile fissare degli orari che valessero un po’ ovunque, fatte salve le fabbriche a ciclo continuo. Ma ora la gran parte dei benefici è legata alla produttività e alla flessibilità e queste cose si governano in azienda o sul territorio. Bisogna superare certe rigidità d’approccio.
Ci sono alcuni temi su cui lo sforzo deve essere comune tra lavoratori e datori di lavoro. Oggi si fa un gran parlare di alleggerimenti fiscali sugli aumenti legati alla produttività. Benissimo, ma il fisco non lo disciplina né il sindacato né il datore di lavoro. Lo decide il Governo. E’ un obiettivo, quello di una riforma fiscale che finalmente cominci a premiare la produzione e non la rendita, su cui lavoratori e datori di lavoro possono marciare insieme per convincere il Governo a cambiare politiche. Si deve passare ad un atteggiamento comune nei confronti dei sindaci e dei governatori regionali per risolvere quei problemi che condizionano negativamente l’attività produttiva in una determinata area. La realtà è che oggi non si può risolvere tutto con il contratto nazionale.
La trasformazione del tessuto produttivo ha precluso un livello di contrattazione, quello integrativo. Ora si deve puntare a realizzare una vera e propria contrattazione in parte sostitutiva. Prima avevamo tre livelli, ora i livelli si sono ridotti; ecco perché bisogna dare maggiore forza a quelli decentrati. Si obietta che il rischio è quello di promuovere “sindacati gialli”, che lavorano più per i datori di lavoro che per i lavoratori. Non mi farei bloccare da questo timore. Un tempo, se un sindacato collaborava con l’impresa diventava “giallo”, ma ora se quel sindacato si siede al tavolo e contratta comunque acquista un ruolo attivo, da protagonista, perché l’azienda è un bene comune.
La strada è quella della partecipazione. Rimarranno sempre degli spazi conflittuali ma, come insegna l’esperienza tedesca, il modello renano è in grado nella globalizzazione di valorizzare il ruolo del sindacato.
(*) Presidente della Fondazione Bruno Buozzi