Nel perenne conflitto tra l’ “io” e il “noi” che assilla l’umanità, irrompe l’ultima enciclica di Papa Francesco con un incipit evocativo, come non mai. Sorprendendo. Il testo non fa una gerarchia tra i due termini, né ci sono schemi catechizzanti. Piuttosto esprime un impegno straordinario e fraterno per farli convivere, anzi per farli crescere in meglio, assieme. Un “io” e un “noi” che devono riconoscersi. Un lungo ragionamento che non si nasconde le difficoltà culturali e gli impedimenti dogmatici che circolano tra i cristiani e tra i non cristiani. Tutti chiamati a dare una mano sia per superarli, sia per disegnare una prospettiva inedita per il mondo intero.
Molti hanno sottolineato l’insistenza del Pontefice nel dichiarare che “stiamo tutti nella stessa barca”. E mai come in questo angosciante periodo di pandemia mondiale è constatazione condivisibile. Ma molta parte dell’enciclica declina le ragioni antropologiche, economiche, sociali, politiche e finanche religiose della fine di un ciclo esistenziale. Quello nel quale, dopo l’avvento del liberalismo, dopo il fallimentare antagonismo del comunismo, ma anche dopo le multiformi esperienze non sempre ben riuscite delle socialdemocrazie occidentali e del condizionamento sociale del libero mercato, ci troviamo al capolinea, in uno spaesamento drammatico.
La crescita infelice è alle nostre spalle; i suoi costi sociali, ambientali e umanitari sono micidiali per la stessa sopravvivenza del pianeta. Né la decrescita felice è la soluzione perché anch’essa può tradursi in drammi, contraddizioni, diseguaglianze infiniti. Di questa consapevolezza, l’enciclica non ne fa una clava per condannare il mondo spensierato, quelli che sostengono che si può tornare a come eravamo, in altri termini che, passivamente, attendono che “adda passà a nuttata”. L’enciclica tenta di prendere per mano convinti e scettici, minimalisti e massimalisti, individualisti e solidaristi perché si cerchino soluzioni inedite, radicali, partecipate per delineare un mondo nuovo. Un’enciclica fortemente inclusiva.
La credibilità di questa ambizione, sta nell’approccio metodologico del testo. Il Papa esorta l’”io” a non considerare come prossimo “solo chi permette di consolidare i vantaggi personali. Così la parola prossimo perde ogni significato e acquista senso solamente la parola <socio>, colui che è associato per determinati interessi” (102). Da qui, l’importanza della fraternità, che ha “qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza” (103). Senza la fraternità, “la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine” (103) e l’uguaglianza non si ottiene “definendo in astratto che tutti gli esseri umani sono uguali” (104). In questo modo, la fraternità è stata posta da Papa Francesco al di sopra degli altri due valori.
Non è il caso di soffermarci sulle molte indicazioni concrete per delineare il mondo nuovo. Tante hanno il sapore della novità (no alla guerra giusta, no al termine minoranze, popolo non come somma di individui, ecc.), altre sono attinte alle sue precedenti e possenti encicliche, ad altri testi papali e soprattutto ai pronunciamenti delle Conferenze episcopali locali. E questo per sottolineare la coralità delle opzioni e il valore della crescita dal basso della consapevolezza della complessità. Nell’insieme, il Papa ricorda che “si tratta di progredire verso un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità sociale….e invito a rivalutare la politica che è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune” (180). In questa definizione, non solo c’è un’indicazione di senso ma anche una condanna dei particolarismi, dei corporativismi, dei localismi. Cioè di tutte quelle forme di politica che invece di aggregare, sgretolano, invece di spostare in avanti le frontiere della fratellanza, le sbarrano. E questi allarmi, la Chiesa li lancia perché “benchè rispetti l’autonomia della politica, non relega la propria missione all’ambito privato. Al contrario, non può e non deve restare ai margini nella costruzione di un mondo migliore” (276).
Il dialogo è il marchio di fabbrica dell’enciclica. Un intero capitolo è dedicato al dialogo e amicizia sociale, ma che si prolunga nel successivo dedicato ai percorsi di un nuovo incontro. Esso è da praticare fino all’eccesso nei rapporti interpersonali e via ampliandosi, fino ai rapporti internazionali. L’accentuazione non è forzata. Il virus dell’indifferenza, della chiusura, dell’odio, della violenza è subdolo, quanto e più del Covid 19. Per contrastare questa deriva, Francesco arriva a citare Vinicius de Moraes che canta “la vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita” (205). Per chi, come me, ha vissuto tanti e duri confronti sindacali per affermare diritti e dignità, nulla è più vero di queste pagine bergogliane. Esse sono improntate non ad un generico abbraccio tra diversi, ma a riconoscere nell’altro interlocutore la sua diversità e con cura costruire intese durevoli. Vale per un rinnovo contrattuale, come per un conflitto armato. Se si è caparbiamente certi di perseguire il bene comune.
In definitiva, non è un’enciclica rassicurante; al contrario spesso risulta inquietante. Certamente è impegnativa. Ma anche esaltante, se lo spirito positivo che è in ciascuno di noi si mette a disposizione di una prospettiva nuova. Questa: “riconoscere un essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti, non sono mere utopie. Esigono la decisione e la capacità di trovare percorsi efficaci che ne assicurino la reale possibilità. Qualunque impegno in tale direzione diventa un esercizio alto della carità…..Si tratta di progredire verso un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità sociale” (180).
Lunga vita a Papa Francesco!