Nell’ultimo numero del Menabò è stata illustrata la proposta, lanciata dall’Institute for Public Policy Research, di un nuovo Digital Commonwealth: un set di riforme legislative e istituzionali che, attraverso il ridimensionamento dell’attuale oligopolio digitale delle grandi piattaforme, mira, da un lato, a rendere l’ecosistema informatico più equo e, dall’altro, a garantire nuove occasioni di sviluppo economico alla società tutta. Il medesimo tema – la lotta a un potere squilibrato, in quanto iniquo nella ripartizione dei profitti ed ostacolo a una maggiore e più diffusa crescita – emerge anche nel report finale della Commissione sulla Giustizia Economica dell’IPPR: Prosperity and Justice – A plan for the new economy. Il documento è frutto di un lavoro biennale, avviato sotto gli incerti auspici del referendum sulla Brexit ma dichiaratamente deciso a confrontarsi non con le sue implicazioni ma con le carenze e le sfide strutturali che, secondo gli autori, caratterizzano il tessuto economico-produttivo del Regno Unito. Queste note, che inevitabilmente non rendono giustizia alla ricchezza del Rapporto, mirano a ricostruirne l’articolazione interna richiamando la diagnosi economica, il sostrato teorico-concettuale e le proposte in esso contenuti.
Dai dati presentati dagli autori emergono le contraddizioni di un paese che, pur cresciuto in media del 2% all’anno a partire dal 2013, ha visto il proprio reddito pro-capite tornare ai livelli pre-crisi solo nel 2016. Il dato più significativo di questa ‘lost decade’ è probabilmente quello relativo alla dinamica salariale. Nel 2018, il salario mediano si è attestato sui livelli del 2002 ma nel periodo 2009-2018 il suo andamento è stato significativamente divergente rispetto a quello del Pil. Tale divergenza è attribuita alla crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Infatti, i dati mostrano come, tra 1979 e 2012, il reddito del decile più ricco della popolazione sia cresciuto del 40%, mentre per la metà della popolazione col reddito più basso la crescita è stata di poco inferiore al 10%. I dati relativi al mercato del lavoro mostrano anch’essi ambiguità. Da un lato, un tasso d’occupazione del 75,6% (record storico) e un tasso di disoccupazione al 4,2% (picco minimo degli ultimi 40 anni) che invitano all’ottimismo; dall’altro, una tendenziale bassa qualità del lavoro in termini di precarietà occupazionale, di numero di contratti part-time e di sotto-utilizzazione della forza-lavoro.
Secondo il Rapporto, 14 milioni di persone (il 22% della popolazione) vivono sotto la soglia di povertà relativa calcolata al netto dei costi d’abitazione, mentre il 44% della ricchezza complessiva è in mano al decile più ricco della popolazione e il 15% della popolazione in età lavorativa o non possiede ricchezza o ha contratto dei debiti. Disaggregando le variabili presentate emerge, inoltre, come tale disuguaglianza risenta del genere, della razza, della generazione di appartenenza e della posizione geografica, cosicché a beneficiare della più recente crescita economica è stata una frazione ben circoscritta e identificabile della popolazione. Secondo gli autori, questo stato di cose ha cinque macro-cause fondamentali.
La prima è il modello di sviluppo dell’economia britannica caratterizzato dalla predominanza di consumi finanziati attraverso l’indebitamento privato (pari al 138% del reddito disponibile, che è un dato inferiore ai livelli pre-crisi ma in crescita) accompagnati da una dinamica debole degli investimenti (4% sotto la media dei paesi OECD).
La seconda è il saldo negativo delle partite correnti, malgrado il pur rilevante surplus nel commercio dei servizi (circa il 5% del PIL, trascinato dal settore finanziario e assicurativo). Infatti, il deficit nel commercio dei beni è rilevante (circa il 7% del PIL) e può essere ricondotto al declino del settore manifatturiero ed alla scarsa diversificazione dell’offerta.
La terza causa è il ristagno della produttività (13% al di sotto della media dei paesi G7 e ferma dal 2013), imputato non solo a condizioni macro-economiche (domanda contenuta) ma anche alle politiche delle imprese che portano a basse competenze manageriali, bassa propensione all’innovazione e bassa domanda di capitale umano, nonchè all’eccessiva flessibilità del mercato del lavoro che finisce per disincentivare l’investimento in capitale umano.
La quarta causa è l’esposizione ai rischi del processo di automazione delle mansioni lavorative. Il fenomeno è ancora debole nel Regno Unito ma già contribuisce, e ancor più potrebbe farlo nel prossimo futuro, alla polarizzazione salariale.
La quinta macro-causa è identificata nell’eccessiva concentrazione che caratterizza numerosi settori, in particolare sarebbe questa la situazione in 8 dei 10 maggiori mercati (e.g. servizi bancari, TLC, energia, grande distribuzioni). Anche questo contribuisce a raffreddare gli incentivi a investire ed innovare.
Allontanandosi dalle spiegazioni standard che riconducono questi esiti distributivi ai ‘fallimenti del mercato’, gli autori del Rapporto ritengono che la vulnerabilità del tessuto economico britannico sia dovuta ad un più organico ‘fallimento di sistema’. Si tratterebbe, cioè, dell’interazione tra molteplici equilibri dinamici che avrebbero generato e tenderebbero ad avere un effetto perverso sulle condizioni macro-economiche del paese. Fallimento di sistema, dunque, che non può essere sanato con politiche micro-economiche (basate sull’aggiustamento quantitativo e qualitativo di domanda e offerta entro singoli mercati), ma che richiede un intervento più incisivo dello stato sia nel dare un indirizzo all’economia che nel creare i presupposti di un nuovo sviluppo economico. Tuttavia, per far questo occorre ripensare profondamente il ruolo dello stato nell’economia e riconoscere l’origine ‘co-creativa’ del benessere economico.
Come sostenuto dagli economisti classici e da Keynes, la complementarietà virtuosa tra settore pubblico e settore privato è indispensabile per coniugare crescita economica, efficienza ed equità. Ciò non vuol dire che occorra nazionalizzare interi comparti industriali o pianificare la produzione di determinati settori: piuttosto, è necessario riconoscere il ruolo che beni comuni e istituzioni pubbliche giocano nel promuovere il successo di un sistema economico, e dunque nel generare ricchezza.
Secondo il Rapporto gli attori extra-statali possono farsi promotori del passaggio da un paradigma competitivo di interazione con i processi di mercato ad un paradigma collaborativo (‘partnership economy’), capace di valorizzare le sinergie e di favorire una crescita economica più equa. Tuttavia, per realizzare tutto questo occorre, di nuovo, promuovere un riequilibrio nei rapporti di potere tra i vari attori, intendendo il ‘potere’ come la capacità di determinare o dar forma agli output economici che plasmano la vita quotidiana delle persone.
Un tema chiave è dunque quello di un migliore equilibrio nei rapporti di forza tra capitale e lavoro; tra oligopolisti e piccole-medie imprese; tra finanza a breve termine e finanza a lungo termine; e, soprattutto, tra mercato e società. In opposizione con lo scenario descritto, viene proposta un’idea di ‘giustizia economica’ da articolare in termini di lotta alla povertà, di garanzia della dignità del lavoro, di inclusione socio-economica e geo-economica, nonché di sostenibilità ecologica. L’idea fondamentale è quella di non agire a valle della produzione delle disuguaglianze, ma di cambiare la struttura socio-economica che sta a monte: si tratta dunque di ‘cablare’ (‘hard-wiring’) la ‘giustizia economica’, concepita nel modo di cui si è sommariamente detto, entro il rapporto tra stato e mercato: modificando la struttura del mercato del lavoro, il sistema di remunerazione degli shareholders finanziari, la forma giuridica e la proprietà di determinati asset, le rendite economiche degli oligopolisti.
Questo è l’obiettivo più generale del piano IPPR, che si compone di 10 linee d’azione, di cui do brevemente conto:
Riforma delle politiche industriali: espansione dell’attuale piano industriale tramite approccio ‘mission-oriented’; creazione di una Banca Nazionale d’Investimenti; supporto all’innovazione in settori innovativi ed ‘export-oriented’; creazione di un authority indipendente e multi-stakeholder volta a incrementare la produttività delle imprese UK
Riforma delle politiche del lavoro: adeguamento del salario minimo al costo della vita e allargamento della misura alle tipologie di contratto più flessibili; allargamento degli strumenti di tutela del lavoratore alle categorie di lavoro autonomo; promozione dell’attività sindacale e della copertura dei contratti collettivi di lavoro
Riforma della governance aziendale: emendamento dei riferimenti legislativi alla primazia dell’interesse degli shareholders nel successo di un’impresa; riconoscimento del diritto di voto ai soli possessori almeno annuali delle quote d’impresa; coinvolgimento dei lavoratori nella governance d’impresa; modifica delle regole di pagamento degli organi esecutivi
Riforma delle politiche per la concorrenza: inclusione della tutela dell’interesse pubblico nel mandato dell’authority anti-trust del governo; creazione di un’authority anti-trust dedicata al regolamento delle piattaforme digitali sul modello delle public utilities;
Riforma delle politiche macro-economiche: modifica delle regole fiscali alla base delle decisioni di spesa pubblica; raddoppio della spesa per investimenti programmata fino al 2022; inclusione di target espliciti riferiti a disoccupazione e PIL nel mandato della Bank of England; strumento d’intervento monetario tramite la neo-costituita Banca Nazionale d’Investimenti
Riforma delle politiche finanziarie: revisione dei doveri fiduciari di intermediari finanziari, fondi assicurativi e fondi pensione nei confronti di risparmiatori e investitori; inclusione di target inflazionistici del mercato edilizio nel mandato della Bank of England; promozione di misure per la trasparenza del settore finanziario
Riforma delle politiche sociali: creazione di un fondo sovrano di proprietà e amministrato nell’interesse della popolazione; insieme di interventi sul mercato edilizio a garanzia di una più ampia sostenibilità economica dell’alloggio; promozione degli ‘employee ownership trusts’
Riforma delle politiche fiscali: semplificazione del sistema fiscale e sostituzione del sistema ad aliquote progressive con una formula a carattere più progressivo; parificazione delle aliquote sui redditi da lavoro e da capitale; aumento della base imponibile tramite il taglio di detrazioni
Riforma delle politiche ambientali: promozione di un atto legislativo volto a definire l’insieme di target ecologici di medio periodo e una strategia di realizzazione degli stessi; adozione di una strategia industriale ‘verde’ volta alla riduzione dell’impronta carbonica del paese
Riforma delle politiche regionali di sviluppo: creazione di organi esecutivi nazionali e regionali per la definizione di strategie industriali sub-nazionali; creazione di un ‘fondo per la crescita inclusiva’ volto a diminuire le disuguaglianze geografiche del paese
Queste proposte sono, nelle parole degli stessi autori, “deliberatamente ambiziose”. Nel Rapporto ciascuna di esse è presentata in modo dettagliato ed è preceduta da una breve analisi che ne illustra la ratio economica e le eventuali connessioni con altri elementi del piano.
Concludendo, ciò che più colpisce è l’organicità e la ricchezza del lavoro svolto dalla Commissione che consente di mettere a disposizione di un disorientato schieramento progressista un Rapporto che si segnala soprattutto perché non si limita a raccomandare specifiche misure di policy ma costruisce un quadro complesso e perciò può essere considerato un vero e proprio ‘manifesto’ economico, pronto per essere discusso – ed eventualmente adottato – da una rinnovata classe politica.