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Un sud malandato ma non per colpa dell’Europa

Alla fine della settimana, circa 400 milioni di europei avranno diritto di esprimere il proprio voto sul futuro dell’Unione Europea. Se fosse coesa, sarebbe l’aggregazione più numerosa in termini di abitanti dopo la Cina e l’India. Ed essendo tra le più avanzate in termini di sviluppo, il suo destino è oggetto di “attenzione” da parte di tutto il mondo, ma in particolare degli Stati Uniti, della Russia e della Cina. L’auspicio è che le forze politiche che spingono per una più forte aggregazione siano più apprezzate dai votanti europei che quelle che propongono un sostanziale ritorno alle sovranità nazionali.

Questa prospettiva riguarda in modo particolare noi italiani non tanto perché siamo tra i Paesi fondatori, ma perché giungiamo a questo appuntamento dopo anni di dure dialettiche al nostro interno e tra i vari Governi che si sono succeduti nel tempo e le istituzioni europee. Con la novità che il Governo in carica ha dato molteplici motivi di dissenso non su questa o quella soluzione di bilancio, ma sulla stessa impostazione della convivenza all’interno dell’Unione. Il voto, per l’Italia, è fortemente politico non in termini ideologici ma di verifica della volontà di condividere il nostro futuro con gli altri europei, smontando i sospetti e le riserve che gli atteggiamenti governativi hanno alimentato in quest’ultimo anno.

Un parametro di valutazione del nostro essere nell’Unione è sicuramente il Mezzogiorno. Area che è stata decisamente marginale nel dibattito politico pre   elettorale, ma che avrebbe molto da dire sull’impatto delle politiche europee, sulla loro efficacia, sulle ragioni della persistenza dei divari reddituali, occupazionali, culturali con le altre aree del Paese e dell’Europa. Anzi, si potrebbe dire che rappresenta in modo concreto ciò che va e ciò che non va nel processo di integrazione europea.

Il dato di partenza è la valutazione dello stato di coesione economica e sociale del Mezzogiorno. Sostiene l’Ufficio di valutazione del Senato in uno studio del 2017 che   L’Italia vede crescere la sua distanza dal core dell’Europa ormai da oltre un ventennio. Nel frattempo, soprattutto dopo l’allargamento ad Est dell’UE – e in maniera ancor più marcata dall’inizio della crisi – la sua periferia, il Mezzogiorno, si è allontanata dalle altre “periferie” (intese come insieme delle regioni svantaggiate beneficiarie della politica di coesione europea). Debole crescita nazionale e aumento dei divari regionali – fenomeni tra loro evidentemente correlati – restano perciò i “fatti” con i quali fare i conti. Soprattutto oggi, che si apre una stagione dell’incertezza: per uno scenario geopolitico globale in evoluzione, per le incognite sull’impatto territoriale delle politiche del nuovo Governo italiano, per un’Europa ancora incompiuta e a rischio disgregazione, con i nodi da sciogliere della politica di coesione per il post-2020.” (Spendere per crescere? Trenta anni di interventi UE per le aree depresse: l’impatto della coesione in Italia e in Europa).

Giudizio netto, puntuale, sostenuto da dati inconfutabili (vedere sempre lo studio). Il Mezzogiorno, con 20 milioni di abitanti, è la più grande area depressa del continente. Chi porta sulle spalle la responsabilità di questo duplice arretramento? Non certo l’Europa che si può criticare per troppa burocratizzazione. Ma chiedete all’Ucraina, alla Polonia, all’Ungheria (Orban si guarda bene da dire che vuole uscire dall’euro e dall’Unione) oppure alla Spagna e finanche alla Grecia degli ultimi anni perché hanno avuto risultati positivi in termini di coesione sia al loro interno, sia rispetto agli altri Paesi. 

La verità è che l’Italia fa fatica a spendere i soldi stanziati dai vari fondi strutturali (per il settennio 2014/2020 l’Italia riceverà 46,5 miliardi di euro) e le sue Regioni meridionali per di più le spendono male. E il divario con il Centro Nord cresce. E con questa crescita si alimentano i rancori tra Nord e Sud fino a rischiare di avere una legge, se passa quella in discussione, che sancisce un’autonomia differenziata pasticciona e pericolosa (su questo tema vedere newsletter 233). Bisognerebbe cambiare passo, ma con un punto fermo: non possiamo fare a meno dell’Europa. Senza Europa il Mezzogiorno affonda ancora di più e si spopolerà delle sue forze migliori.  

Semmai dobbiamo fare a meno di una classe dirigente che ha vivacchiato su un industrialismo ormai desueto e inquinante, su un’agricoltura assistita dagli aiuti europei e fondata sullo sfruttamento dell’immigrazione, sull’assistenzialismo che si sventaglia dalle pensioni di invalidità false al reddito di cittadinanza e su un piagnisteo continuo per autoassolversi. Semmai non dobbiamo fare a meno delle potenzialità del Mezzogiorno  e farlo diventare protagonista di un grande progetto di riqualificazione ambientale e di sviluppo di iniziative in tutti i settori dalla forte impronta ecologista. Con il pubblico che investe in servizi efficienti a partire dalla cultura, dalla scuola, dalla sanità, alla mobilità e con i privati orientati da politiche incentivanti, mirate ad un nuovo modello economico. 

Per realizzare una prospettiva fuori dal tradizionalismo servono a Bruxelles e in Italia persone e politiche contrassegnate da forte integrazione. Altro che sovranismo d’immagine. I suoi guasti li abbiamo già visti, non servono ulteriori scommesse. Meglio fare errori nuovi; con i vecchi si precipita  nell’infelicità. 

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