Quando si parla di Sanità nel nostro Paese ci si riferisce, Carta Costituzionale alla mano, a quell’insieme di servizi che hanno lo scopo di garantire a tutti i cittadini, in condizioni di uguaglianza, l’accesso universale all’erogazione equa delle prestazioni sanitarie, in attuazione dell’art.32 della Costituzione.
Da quando i padri costituenti, nel 1947, decisero di mettere nero su bianco che il diritto alla Salute fosse un diritto dell’individuo, prima ancora che del cittadino – utilizzando una formulazione elegantissima – tanta acqua è passata sotto i ponti.
Oggi la risposta sanitaria pubblica, in Italia, è affidata ad una rete di Aziende ed Istituti. In passato rispondevano ad un sistema nazionale, come previsto dalla Legge 833/1978. Successivamente sono state trasformate in aziende sanitarie locali, con maggiore autonomia e coordinate dalle Regioni italiane, a seguito della riforma introdotta dal Dl 30 dicembre 1992, n. 502.
In parallelo a questa rete di strutture pubbliche, si è poi sviluppato un settore privato, sia profit che no-profit, divenuto col tempo sempre più preponderante: in molte Regioni d’Italia il privato-accreditato e il privato puro hanno smesso di lavorare secondo il principio di complementarietà e siamo giunti ad una vera e propria sostituzione del sistema pubblico nel campo dei servizi sanitari e dell’assistenza socio-sanitaria, socio-assistenziale e sociale.
Siamo dinanzi ad un punto di non ritorno, oltre il quale il SSN rischia di morire d’inedia, preda delle sue stesse contraddizioni, generate in larga parte dalle scelte di politica economica assunte negli ultimi anni dai decisori pubblici – sia essi politici o tecnici -, orientati a vedere la Sanità più come un costo puro che come un investimento ad alto rendimento, finalizzato a tenere la cittadinanza in salute, non solo per migliorare la qualità della vita delle persone, ma anche per ridurre l’incidenza sul bilancio pubblico della gestione di cronicità e multi cronicità.
Come è evidente, quello sanitario è un sistema complesso il cui cambiamento richiede una dose generosa di coraggio, fiducia e responsabilità per cogliere il senso profondo delle sfide vinte e delle occasioni perdute durante e dopo la crisi sanitaria da Covid-19 che ha rappresentato uno spartiacque.
Io ritengo che la nostra Sanità richieda un vero e proprio rinascimento, ispirato ai principi e ai valori che hanno portato all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Per riuscire in questo processo serve però la lungimiranza di mettere intorno ad un tavolo governo e parti sociali per elaborare, congiuntamente, un grande piano industriale per la sanità pubblica del nostro Paese: occorre pianificare chi sono le lavoratrici, i lavoratori e i professionisti del futuro e quali competenze dovranno avere per erogare i servizi sanitari perimetrati nell’alveo del sistema pubblico. È necessario concertare una soluzione di questo tipo affinché, in un contesto di ristrettezze economiche e di risorse pubbliche insufficienti, si evitino ulteriori sprechi che impedirebbero di addivenire al cambiamento di cui necessita il Paese.
La crisi che abbiamo vissuto con la pandemia, le criticità che sono emerse successivamente, non si sono manifestate a causa di una disgrazia che ha colpito il sistema paese; il morbo non ci colse “nella città felice”, come scriveva Albert Camus nel 1947. La crisi pandemica, infatti, è arrivata a valle di una serie di scelte drammaticamente sbagliate che hanno pregiudicato l’efficacia del sistema sanitario: disomogeneità dei servizi sul territorio; diffusione di un modello ospedalocentrico desueto; sottostima dell’importanza dell’assistenza sanitaria territoriale e dell’integrazione tra ospedale, assistenza territoriale e assistenza sociale. Infine, oltre al problema del modello organizzativo, negli ultimi trent’anni la politica dei tagli lineari su personale, formazione, beni e servizi, investimenti e riduzione dei posti letto e la chiusura dei centri di cura, ha retrocesso l’Italia su livelli di spesa, soprattutto per pazienti acuti, sotto Paesi come la Serbia, la Slovacchia, la Slovenia, la Bulgaria e la Grecia, un processo di definanziamento complessivo che è stato solo blandamente invertito durante le fase più acute dell’emergenza.
Queste non sono solo considerazioni tecniche. I definanziamenti hanno impattato direttamente sulle vite delle donne e degli uomini che rappresentiamo: oltre il 70% degli infermieri, infatti, ha affrontato in questi anni i problemi del sonno e oltre il 60% ha avuto forme di stress da esperienze traumatiche. Molti non ce l’hanno fatta: tra gli infermieri circa 2.500 si sono dimessi dal proprio impiego e secondo un’indagine condotta dall’Università Statale di Milano su 650 sanitari, 4 su 10 hanno manifestato disagi psichici.
Il rilancio del Sistema Sanitario Nazionale, oggi, passa soprattutto dalle cospicue risorse che l’Unione Europea ha assegnato all’Italia per lo sviluppo delle Case di Comunità, l’implementazione delle Centrali Operative Territoriali, il potenziamento delle cure domiciliari e della telemedicina e lo sviluppo degli Ospedali di Comunità a gestione prevalentemente infermieristica. Crediamo in questo percorso di ristrutturazione del modello, ma crediamo che debba avvenire in parallelo ad una chiara definizione dei percorsi di valorizzazione e crescita professionale degli oltre 540.000 tra professionisti sanitari, lavoratrici e lavoratori del comparto, riscrivendo le regole dell’ordinamento professionale e adeguando il sistema indennitario, procedendo ad una definizione dei nuovi profili utili agli Enti e Aziende del SSN.
La Funzione Pubblica della CISL, in ogni contesto, ha infatti ribadito i rischi di costruire strutture e di ridisegnare una rete infrastrutturale di servizi al cittadino, senza definire preventivamente chi vi dovrà operare, consapevoli che le risorse europee non sono utilizzabili per le spese sul personale, un problema che dovrebbe indurci a riflettere senza preclusioni politico-ideologiche sull’opportunità di richiedere i 37 miliardi circa del cosiddetto “Mes Sanitario”.
Abbiamo bisogno di avviare una stagione di assunzioni di nuovo personale e di un percorso di piena valorizzazione di lavoratrici, lavoratori e professionisti che operano già da anni nella Sanità Pubblica e che chiedono a gran voce un adeguamento di salari e indennità per avvicinarsi alle medie retributive dei colleghi europei.
È una grande sfida che incrocia, tra l’altro, la necessità di intervenire per ridiscutere del tema della formazione continua e per migliorare le dotazioni strumentali e tecnologiche, cogliendo le opportunità che le innovazioni del presente stanno lanciando anche al mondo dell’assistenza sanitaria.
Il mondo cambia, giorno per giorno, davanti ai nostri occhi: una piattaforma di Intelligenza Artificiale è in grado di eseguire un audit clinico in 5,8 secondi, in confronto ai 10 giorni necessari ad un essere umano per giungere al medesimo risultato. Sono i numeri forniti dalla Task Force del G20 sull’economia digitale e, visti i recenti sviluppi dell’informatica, rischiamo di vedere ulteriormente ampliato questo divario. Sono temi che non possono riguardare solo le aziende ad alto fattore tecnologico e non può essere un dibattito chiuso al mondo degli addetti ai lavori. Riguarda anche il futuro dell’azione di tutela delle organizzazioni sindacali e, più in generale, dei corpi intermedi. Per quanto mi riguarda, ritengo che la tecnologia non confligga né metta a rischio le attività umane. Certo, ogni cambiamento va sempre governato con gli strumenti di cui dispone la politica, ma quando si discute di transizione digitale nei nostri sistemi economici, si può guardare il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, a seconda dei punti di vista, ma la sostanza del problema per noi non cambia: come organizzazione sindacale abbiamo il dovere di vivere questo tempo di grande cambiamento, cogliendone tutte le opportunità.
In uno scenario sanitario in cui la penuria di risorse economiche mette a rischio non solo la puntualità dell’assistenza ma anche la qualità del servizio, la tecnologia può affiancare e aiutare l’uomo, mettendolo al riparo dai rischi di burn-out professionale e dallo stress lavoro correlato, per orientare l’attività umana sulla prossimità e sui processi di presa in carico dei bisogni, anche emotivi, dei pazienti in cura.
Le sfide che abbiamo dinanzi a noi sono molte e tutti i soggetti di rappresentanza sono chiamati ad assumere, ognuno per la propria parte di responsabilità, l’onere di dare un futuro al nostro sistema sanitario. Lo dovremmo fare, per dirla con le parole dello scrittore britannico Jonathan Coe, per ritrovarci in futuro a non dover mai utilizzare le parole più dolorose di cui dispone il nostro linguaggio: avremmo voluto, avremmo dovuto, avremmo potuto.
*Segretario Generale Funzione Pubblica CISL