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Un “servizio pubblico” per la manutenzione del territorio

Poco meno di un mese fa, il 9 e 10 settembre a Livorno, nonostante il preavviso della protezione civile e l’emanazione da parte della stessa di un’allerta arancione, la scarsa manutenzione del territorio e soprattutto di un torrente, ha creato un allagamento consistente. Ingenti le perdite di vite umane, sproporzionate all’evento e gravi danni ad abitazioni e cose. A gennaio, sempre del 2017, una pesante alluvione ha colpito Calabria e Sicilia. Nella notte fra il 13 settembre e il 14 settembre 2015, una parte della provincia di Piacenza è stata devastata dalle esondazioni improvvise del Nure e del Trebbia, dovute al maltempo e ad ammassi di detriti, che causarono danni ingenti e la morte di tre persone. Poco prima la Toscana e le Cinque terre, poi Genova, in seguito Messina e poi ancora la Calabria, di nuovo Toscana, Emilia Romagna Lazio, Umbria, da ultimo Modena e Roma. In pochi anni, un succedersi di eventi, ognuno con un drammatico bilancio di morti, dispersi, danni enormi.

Certo, anche nel passato ci sono state delle tragedie: nel 1952 l’alluvione del Polesine, nel 1966 l’alluvione di Firenze, ma quelle sì che erano riconducibili ad eventi meteorologici straordinari. Oggi, se non si prende atto che gli eventi delle ultime anni rientrano ormai nell’ordinarietà delle manifestazioni meteoriche, saremo costretti a subire ulteriori tragedie. Con gli eventi degli ultimi anni c’è stato un salto di scala: ad essere colpite non sono più solo le zone montane abbandonate o le ex zone di bonifica, ma il cuore stesso delle nostre città. Questo richiede un supplemento di allarme.

Ai tanti che continuano a pensare che la difesa del suolo ed i cambiamenti climatici siano un vezzo ambientalista, ricordiamo che il rischio frane e alluvioni interessa praticamente tutto il territorio nazionale: sono ben 5.581 i comuni a rischio idrogeologico, il 70% del totale dei comuni italiani, dì cui 1.700 a rischio frana, 1.285 a rischio di alluvione e 2.596 a rischio sia di frana sia di alluvione. Sette comuni su 10 sono zone rosse.

Le cause che stanno dietro a questi numeri sono più che note:

    –    le caratteristiche geologiche e geomorfologiche del nostro Paese, particolarmente esposto a fenomeni di dissesto idrogeologico, come frane e alluvioni;

    –    l’abbandono della montagna e dei terreni agricoli, con il conseguente venir meno del presidio del territorio e della manutenzione dei reticoli di drenaggio, dei versanti, dei boschi;

   –     l’urbanizzazione e l’infrastrutturazione territoriale diffusa e caotica, con l’impermeabilizzazione del suolo e la manomissione del reticolo idrografico;

    –    le città realizzate senza nessuna cura per la sicurezza idraulica, con opere di urbanizzazione primaria approssimative o assenti in particolare nelle zone di nuova edificazione ed in quelle abusive;

    –    da ultimo, malgrado la pervicacia degli scettici, gli effetti dei mutamenti climatici che nel nostro Paese si manifestano con precipitazioni di particolare intensità.

         Le conseguenze di tutto questo è il mutamento profondo delle condizioni di rischio per il sistema insediativo con la conseguenza che quelle localizzazioni (città, paesi, singole abitazioni, infrastrutture, servizi) fino ad oggi considerate sicure oggi si trovano esposte a rischi inediti a cui è prioritario far fronte.

                 

                  Ma se sono chiare le cause, anche la cura è nota, solo che la si voglia praticare. A meno che non si intenda costringere la popolazione a convivere in un perenne stato di emergenza.

                  Vivere in un territorio e in città straordinariamente belle, ma delicatissime, ci ha spinto nel corso dei secoli a sviluppare tecniche, competenze, normative, istituti modernissimi ed efficacissimi per il governo del rapporto suolo/acqua/insediamenti umani. Venezia, la laguna con il suo entroterra sono il risultato più straordinario di questa antica cultura. Ma non sono da meno le colline toscane, il sistema irriguo della pianura padana, le bonifiche della maremma e della pianura pontina ed ancora prima le grandi opere idrauliche in Italia e nel mediterraneo, della Roma repubblicana ed imperiale.

                  Questa antica sapienza, presa a riferimento nelle stesse Direttive europee sulla difesa del suolo e alluvioni, è ancora lì, intatta e disponibile solo che la si voglia usare. Eppure questo non accade.

                  Fino al 2014 si accusavano i governanti del momento di sottovalutare il problema perché non finanziavano in modo adeguato le misure per intervenire sul dissesto idrogeologico. Ora, malgrado una serie di iniziative governative che hanno stanziato risorse e costituito il team Italia Sicura che a Palazzo Chigi, da circa quattro anni, cerca di coordinare gli interventi per la difesa del suolo (vedi la recentissima pubblicazione “Italia sicura – Il piano nazionale di opere e interventi e il piano finanziario per la riduzione del rischio idrogeologico”), continuiamo ad assistere a una continua corsa contro il tempo, in cui frane e alluvioni arrivano sempre prima dei cantieri che dovrebbero servire a prevenirle. Questo perché, è ormai noto, solo un decimo delle 9.400 opere anti-dissesto indicate dalle Regioni (con un costo di 27 miliardi) ha dietro un progetto vero e proprio ed è quindi cantierabile. La conseguenza è che solo il 7% delle opere va a cantiere.

                  Quali le ragioni? Presto detto: l’incapacità o l’impossibilità dei Comuni di progettare gli interventi necessari che sommandosi alla farraginosità amministrativa nel predisporre le gare di appalto determinano il blocco del processo decisionale. Un risultato a cui ci hanno portato tredici anni di blocco delle assunzioni, di formazione al palo, di personale ridotto spesso a un geometra a mezzo servizio, di continue esternalizzazioni di responsabilità e competenze “pubbliche”. Questa è la situazione degli uffici tecnici di moltissimi piccoli e medi comuni italiani. Eppure i sindaci si trovano spesso a dover progettare lavori enormi. E come se non bastasse anche quando i progetti ci sono, hanno ben poco di rigoroso, soprattutto al Sud: sono in gran parte titoli e basta, al massimo studi di fattibilità. E il guaio è che questa situazione non riguarda solo i piccoli comuni ma anche le grandi città, spesso convinte che il problema non le riguardi. In sintesi abbiamo un piano nazionale, ma non abbiamo le gambe su cui farlo camminare.

        

         Se questi sono i problemi cosa fare per risolverli? L’esperienza di questi anni ci dice che è necessario agire con decisione su tre fronti.

         Il primo è indubbiamente quello di approvare in parlamento la legge sul consumo del suolo. Fin tanto che nel nostro Paese permane una continua pressione di interessi, più o meno legittimi, su governanti ed amministratori, a tutti i livelli, per rendere sempre più agevole la monetizzazione del territorio e dell’ambiente nella colpevole indifferenza delle conseguenze, sarà impossibile promuovere efficaci misure di tutela.

         Secondo il Rapporto ISPRA 2017 “Il consumo di suolo in Italia continua a crescere, pur segnando un importante rallentamento negli ultimi anni che viene confermato dai dati più recenti relativi ai primi mesi del 2016. Nel periodo compreso tra novembre 2015 e maggio 201610 le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 50 chilometri quadrati di territorio, ovvero, in media, poco meno di 30 ettari al giorno. Una velocità di trasformazione di più di 3 metri quadrati di suolo che, nell’ultimo periodo, sono stati irreversibilmente persi ogni secondo”.

         L’approvazione in via definitiva da parte del Parlamento della legge sul consumo di suolo è anche la strada per avviare un processo di semplificazione normativa sull’intera materia di uso del suolo. 

        

         Il secondo fronte è di fare chiarezza sulle responsabilità. A fianco alla  Autorità di Bacino e ai Consorzi di bonifica, che hanno la primaria missione istituzionale della tutela idrogeologica, opera una pletora di altri soggetti e interessi che nella loro azione determinano, nel bene e nel male, effetti sulle condizioni di sicurezza: i Comuni con le loro politiche urbanistiche, gli attuatori e gestori di grandi infrastrutture (ANAS, FS, Autostrade, ecc,), i privati con le diverse attività primarie, secondarie e terziarie, numerosi altri  soggetti pubblici e privati. Un insieme che raramente nel loro operare tiene conto delle reciproche interferenze.            

         La governance di questo insieme di attori e interessi è affidata in via ordinaria ai Presidenti delle Regioni. Questa responsabilità, tuttavia, per un insieme di ragioni tutte riconducibili ad una poco chiara attribuzioni delle competenze, ha incontrato enormi difficoltà ad essere esercitata in via ordinaria.

         Negli anni passati, purtroppo, invece di provvedere a efficaci misure correttive (profilo istituzionale delle autorità di distretto, rapporti tra piani di distretto e piani urbanistici e settoriali,  efficacia della partecipazione al processo di formazione del piano, pubblicità, partecipazione e condivisione delle scelte, competenze nella attuazione degli interventi, ecc.) si è scelto la strada di nominare Commissari di Governo i Presidenti di Regione attribuendo loro poteri straordinari di deroga dell’intera filiera di responsabilità con l’obiettivo di accelerare l’utilizzo delle risorse e sbloccare i fondi strutturali europei e statali.

         Questa scelta si è dimostrata miope e nociva e oggi ne stiamo pagando le conseguenze. Se sono comprensibili misure straordinarie per affrontare casi di emergenza, molto meno lo sono in rapporto all’esigenza di porre ordine in un sistema finalizzato a garantire in via ordinaria la sicurezza dei cittadini.

        

         Il terzo fronte deriva dalla consapevolezza che comunque il superamento dei ritardi, solo in parte sono risolvibili per mezzo di semplificazioni procedurali e amministrative. Qui credo si ponga la necessità di un vero “salto” culturale e politico. Se concordiamo che la via maestra è la prevenzione, è allora necessario considerare la tutela dal rischio idrogeologico alla stregua di un vero e proprio “servizio pubblico” in quanto la sicurezza non può essere affidata a interventi occasionali e sempre a posteriori, ma devono costituire un impegno pubblico certo, preventivo, lungimirante e permanente.

         Questo significa passare da una impostazione incentrata sulla riparazione dei danni e sull’erogazione di risorse (gli appalti), ad una cultura di previsione e prevenzione (il servizio) diffusa in modo permanente nel territorio e imperniata sull’obiettivo di individuazione delle situazioni di rischio e alla diretta messa in atto delle misure ritenute necessarie per il suo contenimento.

         Il “profilo” del servizio pubblico per la manutenzione permanente del territorio dovrà rispondere alle seguenti caratteristiche:

   –     essere inteso come una struttura regionale minima a cui affidare la missione di controllo, coordinamento e intervento al fine di garantire condizioni ottimali di sicurezza;

   –     essere incardinato presso l’Autorità di bacino per massimizzare competenze e sinergie, ma anche per evitare organismi aggiuntivi e moltiplicazione della spesa;

   –     dovrà prevedere una rete di presidi territoriali che svolgano azioni di monitoraggio e manutenzione del territorio attraverso precisi programmi, coordinati a livello di bacino;

   –     i presidi territoriali dovranno essere costituiti da professionalità interdisciplinari integrate verticalmente, con particolare attenzione alle competenze strettamente connesse alla prevenzione e messa in sicurezza; 

   –     la missione del presidio si dovrà esplicare fondamentalmente a supporto all’azione delle amministrazioni comunali, si dovrà configurare come una sorta di “tecnico condotto” in grado di guidare gli interventi da fare e indicare quelli da evitare, dovrà promuovere e sostenere gli interventi dei privati, in particolare degli addetti al settore agricolo e forestale radicati sul territorio;

   –     il suo “organico” si dovrà alimentare del contributo del volontariato organizzato in termini di squadre tecniche, con competenze verificate, da impegnare a turnazione secondo una pianificazione degli interventi ed a cui riconoscere una corretta remunerazione;

   –     dovrà prevedere un raccordo forte con il servizio civile, in particolare per le funzioni di monitoraggio territoriale;

   –     dovrà promuovere programmi informativi, educativi e formativi.

        

Da questo approccio, infine, se si saprà evitare il rischio che il “servizio” diventi l’ennesimo “carrozzone”, non solo si potrà abbattere il rischio e le sue conseguenze, ma ne potranno derivare potenzialità occupazionali numericamente straordinarie, distribuite nel territorio, rivolte in particolare ai giovani, con i più diversi livelli professionali (dal manovale, all’esperto di scienze della terra), con ricadute importantissime: dall’economia montana al turismo. 

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