Se è vero l’assunto che gli elettori hanno sempre ragione, il voto di NY, che ha eletto un giovane, immigrato, musulmano, socialista, a sindaco del tempio del capitalismo occidentale, ad appena un anno dal successo di Trump, merita qualche riflessione. Il confronto tra Mamdani e Trump, anche se ancora sproporzionato sul piano politico e comunque prematuro sul piano delle prospettive, è però d’obbligo per comprendere quanto sta succedendo. Le differenze politiche tra i due sono abissali: nella collocazione ideale, nell’idea di società, nei programmi e nelle proposte. Liberista convinto Trump, socialista dichiarato Mamdani. Inconciliabili sulla immigrazione, le scelte economiche, la protezione sociale. Ma, entrambi, hanno stabilito una relazione diretta con l’elettorato, proponendo visioni ed interessi che l’elettorato ha percepito come propri, credibili, concreti.
Nella vittoria di Mamdani ha certamente pesato la tradizione democratica di NY. Non dimentichiamo però che nelle presidenziali Trump aveva allargato i consensi nelle aree di immigrazione e nel Bronx, riducendo di oltre 12 punti lo svantaggio di quattro anni or sono su Biden. Stavolta la mobilitazione di giovani e ceti popolari ha portato un’alta affluenza al voto (quasi due milioni di votanti). Ciò ha permesso a Mamdani di raccogliere oltre il 50 % dei consensi, addirittura battendo un altro democratico – Cuomo – che ha ottenuto un rispettabile 40%. Cuomo aveva perso le primarie democratiche, ma ha voluto candidarsi da indipendente, sostenuto da generosi finanziatori e dallo stesso Trump («Che Andrew Cuomo vi piaccia o meno, non avete davvero scelta. Dovete votare per lui»).
Anche Trump ha vinto provocando una mobilitazione generale, mentre Harris non era riuscita a scaldare i cuori americani. Mettiamo, quindi, un primo punto fermo: l’elettore vuole sentirsi protagonista, coinvolto, parte di un disegno… I modi con i quali avviene questo coinvolgimento sono molteplici e ambigui, ma senza empatia non si va lontano.
Nel discorso di insediamento, il neosindaco non è stato buonista. Ha riaffermato con nettezza il suo programma: «Che tu sia un immigrato, una persona trans, una madre lavoratrice, una donna nera licenziata da Trump o chiunque abbia le spalle al muro: la tua lotta è la nostra lotta. Saremo una città dove più di un milione di musulmani sapranno di appartenere non solo alle strade, ma ai luoghi del potere. Dove non si vince più alimentando islamofobia. Dove si difende la comunità ebraica senza esitazione nella lotta contro l’antisemitismo».
Mamdani ha attaccato Trump frontalmente: «Donald Trump, so che stai guardando. Ho quattro parole per te: Turn the volume up! Alza il volume. Terrai bene le orecchie aperte mentre: – riterremo responsabili i landlord predatori, perché i Donald Trump della nostra città si sono sentiti fin troppo a proprio agio nello sfruttare i loro inquilini; – metteremo fine alla corruzione che permette ai miliardari come Trump di evadere le tasse; – staremo al fianco dei sindacati ed espanderemo le protezioni del lavoro perché sappiamo, proprio come Donald Trump, che quando i lavoratori hanno diritti ferrei, i capi che cercano di estorcerli diventano davvero piccoli. (…) Quindi ascoltami, Presidente Trump: se vuoi arrivare a uno di noi, dovrai passare su tutti noi».
Non c’è nulla di rivoluzionario o di nuovo nel tutelare i diritti alla casa e al lavoro e nel combattere l’evasione. È pur sempre il… forgotten man. La novità, semmai, sta in questo stile netto, quasi sfrontato, senza concessioni… Anche Trump (mutatis mutandis…) usa toni diretti, senza mediazioni di linguaggio. E, qui, sta un secondo aspetto: l’elettore non vuole giri di parole, walzer linguistici. È stanco di manfrine. Ma, ecco il punto: non confondiamo la schiettezza con l’aggressività, la volgarità o le offese. Mamdani, a differenza di Trump, non ha offeso, non è stato volgare. Eppure, ha saputo essere, in maniera convincente, diretto e intransigente.
Infine, ed è l’aspetto più importante che emerge dal discorso, la coerenza e la credibilità. Mamdani sembra conoscere bene la differenza tra ottenere il potere ed esercitarlo e mette le mani avanti: «Si dice che si faccia campagna in poesia e si governi in prosa. E sia. Ma che la nostra prosa abbia ritmo». Già da come si presenta, promette coerenza: «La saggezza convenzionale vi direbbe che sono lontano dal candidato perfetto. Sono giovane, nonostante
i miei migliori sforzi per invecchiare. Sono musulmano. Sono un socialista democratico. E, cosa più dannosa di tutte, mi rifiuto di scusarmi per ciascuna di queste cose». E prosegue, snocciolando il programma liberal-radicale con il quale ha vinto. Anche Trump è radicale nell’esprimere la propria visione, ma sono visioni divergenti.
C’è, dunque, da riflettere sul modello di politico che anche questa elezione ci consegna. Entrambi, Trump e Mamdani si presentano assertivi, popolari e identitari. Non è una questione di età (Trump va verso gli ottant’anni e Mamdani ne ha 34!), né di origine, di colore o di genere (in Virginia e New Jersey sono state elette governatrici due donne democratiche). Si tratta invece di credibilità soggettiva e di chiarezza dei contenuti. Gli elettori, in entrambi gli opposti casi, hanno premiato chiarezza, hanno percepita una coerenza nei principi e mancanza di ambiguità nei contenuti programmatici. Ma Mamdani dimostra che ci può essere una versione positiva della leadership assertiva, popolare e identitaria. Gli opposti programmi miravano entrambi a dare speranza, ma col voto di NY si rompe l’incantesimo per il quale ciò fosse ormai solo appannaggio delle destre.
Sicché, nelle parole di Mamdani c’è qualcosa che ci riguarda più da vicino. «Ci siamo inchinati all’altare della cautela e abbiamo pagato un prezzo enorme. Troppi lavoratori non si riconoscono nel nostro partito. E troppi tra noi si sono rivolti alla destra per risposte sul perché sono stati lasciati indietro. Lasceremo la mediocrità nel nostro passato. Non dovremo più aprire un libro di storia per la prova che i Democratici possono osare essere grandi».
Qui sta la sottigliezza. Quando Mandara dice: «New York resterà una città di immigrati, costruita da immigrati, portata avanti da immigrati e, da stanotte, guidata da un immigrato» non si chiude nel ghetto delle minoranze. Si rivolge alla maggioranza o, se si vuole, trasforma le diverse minoranze in quello che realmente sono: la maggioranza. Ovunque, i ceti popolari e medi, i lavoratori, le famiglie alle prese con le fatiche della quotidianità sono la maggioranza. Non c’è niente di estremista in ciò. Si tratta di rendere questa maggioranza protagonista del proprio destino per costruire, con realismo, la città «che possiamo permetterci» e il «governo che la renda possibile».
*da ReS, Riformismo e Solidarietà, novembre 2025
