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Un soggetto pubblico ad hoc per gestire il Recovery Fund

Non c’è cosa più appetitosa sul mercato della politica, anche se ancora nebulosa, come il Recovery Fund. Non il referendum sul taglio dei parlamentari. Non le elezioni in 7 Regioni. Certo, si discute di questi eventi anche perchè sono tutti e due molto incerti negli esiti numerici e politici. Ma l’attenzione è veramente spasmodica soltanto per quel Fund. La dotazione per l’Italia è nota. Mai visti tanti soldi da spendere in pochi anni. Però sono ancora poco chiare alcune scelte decisive e in particolare: chi gestirà questo fiume di danaro; entro quale perimetro si andrà a collocare; chi saranno i destinatari degli interventi programmati. Tre questioni che, se si legge il documento recentemente reso noto dal Governo (Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, vedere file allegato), non sono affrontate e risolte con chiarezza cristallina.

Eppure, tutto ruota intorno ad esse. Forse il punto meno opaco è quello dei confini entro cui bisogna stare per presentare i progetti a Bruxelles. Chi vuole fare spesa corrente con i soldi del Recovery, si deve mettere l’anima in pace. Servono soltanto per interventi pubblici strutturali, per investimenti produttivi, per sostegno all’innovazione e all’educazione. Le linee guida non si discostano dalle indicazioni della Commissione Europea, per cui il vero problema sarà quello di stabilire la graduatoria delle priorità. Tra le indicazioni pervenute a tutti gli Stati, c’è quella di non riciclare progetti già esaminati in passato e non giudicati fattibili, di non proporli con tempi incerti o epocali. Per l’Italia si tratta di rimettere nel cassetto alcune proposte circolate con insistenza come prioritarie, in questi giorni e soprattutto non sovraccaricarlo delle spese sanitarie soltanto per un capriccio del m5s sul MES.

Il problema dei destinatari dei finanziamenti è in parte strettamente connesso ai settori e alle iniziative definite prioritarie, in parte legato alla sfida sotterranea ma già in corso tra interventi infrastrutturali materiali ed immateriali e interventi per le attività produttive. Sui primi, i soggetti saranno inevitabilmente pubblici, anche se realizzati in parte con aziende private. Dall’ammontare delle richieste di questi dipende ciò che rimane per gli investimenti produttivi. Allo stato, c’è chi ha calcolato che dai Ministeri sono stati indicati 577 progetti per 677 miliardi di euro. Dall’atteggiamento della Confindustria, ma anche di altre associazioni imprenditoriali si intuisce che c’è il timore che possano rimanere poche risorse, se non briciole per il sistema produttivo. Il Presidente del Consiglio ha assicurato un ampio confronto sia con le parti sociali che in Parlamento, ma se non si instaura una vera e propria concertazione, c’è il rischio di perdere tempo prezioso con risultati pasticciati. 

Tra i destinatari degli interventi non ci sono soltanto le imprese. Ci sono anche i lavoratori. Se si rimane nell’ambito dei settori selezionati a livello europeo, è da escludere che si possano sostenere solo le produzioni che già si fanno, con impianti che già ci sono. Ci vorranno progetti innovativi sul prodotto e sull’organizzazione della produzione di aziende esistenti o nuove. Con conseguenze per i lavoratori sia in termini quantitativi che di qualità delle professionalità. Sarebbe di grande interesse se Governo, imprese e sindacati – sulla falsariga dell’accordo per la gestione della sicurezza – definissero il riconoscimento della validazione dei progetti anche da parte dei rappresentanti dei lavoratori, prima che siano proposti e confermati a scala europea.

Infine, la questione di chi gestisce i finanziamenti. I tempi sono stretti non soltanto per quanto riguarda la presentazione delle richieste. Sono stretti anche per la realizzazione degli interventi. Sarebbe di grande effetto pratico, la decisione di affidare questo compito ad un soggetto pubblico con poteri esecutivi sottratti alla prassi, ai tempi, alle compatibilità regolatorie proprie della pubblica amministrazione. Se poi questo soggetto pubblico fosse affidato alla direzione di un’alta personalità con competenze internazionali e coadiuvata da un management di prestigio, si combinerebbero tutte le condizioni per un’affidabilità seria circa la riuscita delle singole iniziative da finanziare e validare. La Francia ha già definito una struttura del genere, a carattere strettamente temporaneo, giusto il tempo per portare in porto il pieno utilizzo di tutte le risorse disponibili. E se Macron, che ha un apparato burocratico di livello indiscutibilmente superiore al nostro, ha scelto questa strada, vuol dire che la partita è considerata così decisiva che merita il massimo impegno di trasparenza, oltre che di competenza e di tempestività esecutive.

L’Europa ha dimostrato che la discontinuità con il passato è possibile. Ha abbandonato la tradizionale funzione persecutoria per assumere un ruolo propositivo. Anche l’Italia deve andare su questo terreno d’innovazione. Deve decidere di fare cose eccezionali con soggetti, modalità, strumenti eccezionali. Non si può rischiare che i soldi non siano spesi, che le aziende siano lasciate a bagnomaria, che i lavoratori non sappiano dove si va a finire con i cambiamenti che si profilano. Il coraggio di innovare deve prevalere su ogni altro aspetto. Una bella sfida.     

  

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