Quando, a seguito della riforma pensionistica del 1995, nacquero i primi Fondi Pensione di origine negoziale, le parti sociali, in rappresentanza dei lavoratori e delle imprese, furono concordi nel considerare la creazione degli stessi una necessaria innovazione nel sistema di tutela pensionistica, a fianco di una previdenza pubblica in ridimensionamento, ma anche nel sistema finanziario nazionale.
Sulla scia di quanto sperimentato con successo in Paesi di già consolidata esperienza in materia, i Fondi avrebbero dovuto ricoprire quel ruolo di investitori istituzionali operanti su un orizzonte temporale di medio e lungo periodo, di cui l’Italia risultava carente, in grado di dare un apporto positivo allo sviluppo dell’economia nazionale.
Dopo poco meno di un ventennio dalla costituzione dei primi Fondi, è possibile effettuare una prima verifica rispetto alle aspettative allora dichiarate.
Senza timore di smentita si può certamente sostenere che mentre all’obiettivo previdenziale è stata data e si sta dando una risposta positiva (benché parziale a causa dell’ancora insufficiente tasso di adesione dei lavoratori, fenomeno che richiederebbe una riflessione specifica) la seconda funzione, quella di investitori in grado di operare a sostegno dell’economia nazionale, non è stata minimamente assolta.
Il giudizio è drastico ma supportato dai dati. Secondo i dati Covip riferiti alla fine dello scorso anno, solo il 30,6% del portafoglio titoli dei Fondi negoziali era investito su emittenti italiani ma questo dato era composto da un 29,7% investito in titoli di debito e da un misero 0,9% in titoli di capitale. Come osserva Covip “… va rilevato, al riguardo, che in altre economie di dimensioni simili alla nostra, vi è la tendenza ad investire in titoli domestici una quota di portafogli ben superiore …”.
Se si considera che uno dei motivi che convinsero il sistema delle imprese a rinunciare, a favore della Previdenza complementare, ad una fonte preziosa di autofinanziamento come il TFR fu l’aspettativa di un potenziamento del circuito borsistico nazionale e quindi di un migliore equilibrio delle strutture patrimoniali aziendali, ad oggi il bilancio non può che essere deludente.
I motivi di questo stato delle cose possono essere rintracciati in varie direzioni. Intanto nella loro “fase nascente” i Fondi registravano consistenze patrimoniali tali da non consentire impieghi troppo diversificati e innovativi. Poi una normativa sugli impieghi (il D.M. 703 del 1996) fortemente ispirata a criteri di prudenza che delimitava in modo severo l’ambito di operatività delle scelte di investimento. Infine, una situazione dei mercati che favoriva politiche di impiego ”conservative” in termini di rapporto rischio/rendimento con una chiara propensione verso la componente obbligazionaria (meglio se governativa). A tutto questo si aggiunga, dal lato dell’offerta degli asset finanziari, anche la storica difficoltà del sistema produttivo, dovuta anche alle ridotte dimensioni aziendali, ad aprirsi al mercato dei capitali attraverso lo strumento azionario.
Tutto questo ha indotto i Cda dei diversi Fondi a costruire asset allocation, e conseguenti mandati di gestione, fondamentalmente di tipo passivo e misurate su benchmark costruiti su indici internazionali che, anche per le ragioni accennate, poco si conciliavano con il sostegno allo sviluppo dell’economia nazionale.
Oggi, sia le condizioni dei Fondi che la normativa di settore ed il contesto economico e finanziario risultano profondamente mutati, ponendo così le condizioni per l’apertura di una nuova fase per le politiche di investimento nella vita dei Fondi pensione.
Le motivazioni sono così argomentabili.
^) I Fondi registrano oggi livelli di patrimonializzazione incomparabili con quelli della fase precedente (Cometa da sola amministra oggi quasi dieci miliardi di euro, i Fondi Negoziali circa 45 miliardi di euro che, inclusi i Fondi cosiddetti preesistenti, salgono a circa cento miliardi) e ciò consente, ovviamente, di cominciare ad operare su un campo di gioco più ampio ed anche di sperimentare strumenti diversi da quelli fino ad ora agiti.
^^) Sul piano normativo il recente D.M. 166 del 2014 amplia la gamma delle tipologie di asset (comprendendo anche i cosiddetti ”alternativi”) su cui investire le risorse dei Fondi e, rafforzando l’attenzione sui modelli organizzativi e sugli strumenti di controllo del rischio, sostanzialmente apre a politiche di investimento più flessibili e meno restrittive rispetto al passato.
^^^) Dal punto di vista più strettamente economico siamo in presenza di un sistema produttivo nazionale che dal 2008 ad oggi ha perso imprese e capacità produttiva ma che dimostra, in particolare con i dati sull’export, di essere ancora vitale e capace di competere globalmente. Ma, tuttavia, il sistema delle imprese risulta complessivamente sfiancato soprattutto dal punto di vista finanziario e quindi nella necessità di reperire sul mercato quelle risorse che oggi il sistema bancario dimostra di non essere più in grado di offrire. A questo si aggiungano le condizioni della finanza pubblica e la difficoltà a finanziare investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali sulle quali l’Italia risulta in palese ritardo con grave danno per la competitività del sistema Paese.
^^^^) Vanno considerate, infine, le condizioni dei mercati finanziari dove la deflazione e il drastico ridimensionamento dei tassi di interesse (siamo ormai a rendimenti negativi, cosa impensabile fino a qualche tempo fa) impone di modificare l’equilibrio tra titoli di debito e di capitale finora praticato e di cercare rendimenti aprendo ad asset nuovi e diversi che vanno sotto la generica denominazione di “alternativi”. Del resto anche sul piano dell’offerta il panorama è in via di cambiamento considerate, ad esempio, le possibilità oggi consentite alle imprese di minori dimensioni di accedere al mercato dei capitali attraverso la nascita e la diffusione dei mini-bond, piuttosto che del venture capital o del private equity , oppure ai Fondi di debito; tutti strumenti finora sconosciuti o poco praticati nel nostro Paese anche se ampiamente agiti su altri mercati.
Si pongono dunque nuove urgenze e si aprono nuove prospettive nella gestione finanziaria dei Fondi Pensione che oggi, ferma restando la loro finalità specifica e costitutiva di tutela pensionistica, possono forse cominciare ad esercitare quel ruolo di investitori istituzionali a sostegno dell’economia reale che era nelle intenzioni e nelle attese delle parti sociali istitutive dei Fondi stessi.
Tutto questo, però, non può essere semplicemente messo a carico del sistema della previdenza complementare senza un ruolo chiaro e positivo della politica e del Governo in particolare.
Su questo fronte ad oggi dobbiamo limitarci a costatare segnali deboli e contraddittori come, ad esempio, è il caso dell’aumento dall’11 al 20% dell’aliquota di tassazione dei rendimenti dei Fondi e, contemporaneamente, l’esiguo stanziamento a copertura del credito d’imposta per investimenti a sostegno dell’economia reale per determinate fattispecie di medio-lungo termine.
A questo proposito si deve sottolineare che sarebbe profondamente sbagliato se si considerassero le risorse dei Fondi, che sono “costituzionalmente” destinate a fini previdenziali, come risorse disponibili a fini di finanza pubblica senza adeguate previsioni di rendimento e garanzia.
Occorre un approccio nuovo alla materia. Del resto, proprio in questi giorni, come rileva il prof. Quadrio Curzio, anche il G20 basandosi su studi OCSE, considerata la necessità di sostenere un nuovo ciclo di investimenti per rilanciare l’economia mondiale, sollecita “… linee guida e best practice per facilitare il partenariato pubblico-privato, per rafforzare strumenti alternativi di finanziamento con garanzie reali e attraverso cartolarizzazioni, per coinvolgere sempre di più gli investitori istituzionali (ovvero fondi pensione, compagnie assicurative, fondi sovrani) …”.
Dunque, c’è un evidente e comprensibile interesse del Governo a mobilitare una quota delle risorse dei Fondi Pensione (e delle Casse previdenziali) a sostegno dell’economia reale; lo stesso interesse lo hanno ripetutamente espresso le parti sociali, i Fondi e le loro organizzazioni di rappresentanza. Si tratta ora di fare delle scelte capaci di coniugare le diverse esigenze e dare seguito alle decisioni assunte.
In Cometa, ad esempio, nell’approssimarsi del rinnovo dei mandati di gestione che sono ormai alla scadenza, stiamo attentamente valutando innovazioni significative nell’asset allocation considerando di destinare una quota, prudente ma significativa, delle risorse amministrate ai cosiddetti “investimenti alternativi” tra cui quelli a sostegno dell’economia reale.
Come ciò si realizzerà e con quali equilibri dipenderà anche da quale offerta il mercato sarà in grado di esprimere e, a questo proposito, non sarà secondario il ruolo che l’iniziativa politica vorrà e saprà svolgere.