A dispetto degli annunci, la manovra annunciata per la Legge di Stabilità 2016 non è espansiva. I pochi margini di “flessibilità” di Bilancio, che consentirebbero l’utilizzo di maggiori risorse, tecnicamente derivano da un rallentamento dell’austerità, quindi da un utilizzo di risorse che mantengono il vincolo del 3%, solo al di sopra del quale è lecito parlare di politica espansiva. Nel Draft Budgetary Plan, infatti, il Governo ammette di affrontare le difficoltà dell’economia “rivedendo e attenuando la velocità del consolidamento fiscale”. Lo scarto “espansivo” su cui si dovrebbero recuperare più risorse sta tra il nuovo deficit del 2,4% (contando anche il riconoscimento dello 0,2% di deficit per far fronte alle circostanze eccezionali dovute all’emergenza migranti) e il dato dell’indebitamento netto tendenziale – cioè quello “sulla carta”, in assenza di interventi e sulla base della normativa vigente, comprese le famigerate clausole di salvaguardia – che nel 2016 sarebbe dovuto essere pari all’1,4% del PIL. Peraltro, nel DEF di aprile 2015 l’indebitamento netto era previsto all’1,8%, come stabilito già dall’agenda Monti. In ogni caso, il punto è che nel 2015 è programmato un rapporto deficit/PIL pari ad almeno il 2,6% e, dunque, il deficit dell’anno in corso non verrà aumentato, ma ridotto. Insomma, la Legge di stabilità approvata lo scorso 22 dicembre in Parlamento non è la svolta necessaria e, in realtà, non cambia nemmeno verso.
Nel metodo. La Legge di stabilità rappresenta ancora il principale strumento previsto dall’ordinamento giuridico italiano per regolare la vita economica del Paese attraverso una manovra di finanza pubblica triennale, insieme alla conseguente modifica della Legge di Bilancio. Eppure, il Governo ha proceduto – anche in questa circostanza – a colpi di maxiemendamento e di fiducia; senza nemmeno che la “discussione” parlamentare fosse preceduta da momenti di confronto con le parti sociali, così come suggerito dalle esortazioni europee al dialogo sociale.
Tutto l’impianto della Legge di stabilità si basa su previsioni di crescita irrealistiche. Le stime di crescita del PIL per il biennio in corso – su cui si basa la sostenibilità delle finanze pubbliche e si costruisce la nuova Legge di stabilità – sono state riviste al rialzo dal Governo per la prima volta dal 2010 (0,9% nel 2015 e dell’1,6% nel 2016 rispettivamente contro lo 0,7% e 1,4% stimato ad aprile 2015). Questo perché, per la prima volta, hanno agito variabili esogene inedite, tra cui il quantitative easing della BCE (che, comunque, dai calcoli del CER, gli stessi istituti di credito dellʹArea euro avrebbero poi ridepositato per 2/3 presso la BCE, riducendo lʹimpatto potenziale di questa misura sullʹeconomia reale), la riduzione del tasso di cambio e la caduta strutturale del prezzo del petrolio; che si sommano al rimbalzo positivo della produzione industriale, alla temporanea ripresa delle esportazioni e, soprattutto, all’aumento dei consumi, ascrivibile soprattutto all’incremento del potere d’acquisto dei redditi da lavoro, sospinto più dall’accumulazione degli aumenti salariali dovuti ai rinnovi contrattuali, piuttosto che ai famosi 80 euro. Tuttavia, tutte le previsioni delle maggiori istituzioni nazionali e internazionali risultano più contenute di quelle del Governo. Sin dall’estate scorsa, si sono susseguiti segnali di rallentamento dell’economia(Coordinatore dell’Area delle Politiche economiche e di sviluppo, CGIL nazionale) globale, allarmi di un nuovo terremoto finanziario con epicentro il Sud-est asiatico, le frenate dei paesi emergenti, i retro-effetti della caduta del prezzo del petrolio e l’incertezza sui tassi di cambio per le ultime decisioni della FED e del Governo cinese, le tensioni geopolitiche scaturite dai paesi esportatori di materie prime. La prima scommessa ingiustificata del Governo, allora, riguarda proprio l’incremento delle esportazioni, che secondo il quadro macroeconomico programmatico del MEF si attesterebbe attorno al 4% da qui al 2018.
D’altra parte, la variazione tendenziale del PIL nei primi tre trimestri del 2015, su cui si fonda quel rialzo delle stime di crescita, registra ancora una dinamica negativa degli investimenti fissi (ancorché profitti, fatturato e ordinativi siano in aumento), che rappresentano la più importante variabile da “riprendere”, tanto per la domanda che per l’offerta: in sette anni gli investimenti fissi si sono ridotti di oltre il 30%; su 9 punti percentuali di caduta del PIL reale dal 2008 al 2014, ben 6 punti vanno attribuiti alla suddetta caduta flessione degli investimenti. Anche per questo, pur nella recente congiuntura favorevole, il nostro Paese si colloca al penultimo posto nella classifica della “crescita” tra tutti i 28 paesi dell’Unione europea. La seconda e più importante scommessa del Governo vorrebbe essere la forte crescita della domanda interna e, in particolare, degli investimenti, sulla base della “fiducia” impartita dalle riforme strutturali e dal rigore dei conti. Tuttavia, a dicembre 2015, l’Indice Istat del clima di fiducia dei consumatori e delle imprese torna a diminuire.
La fiducia rappresenta un elemento centrale nella teoria economica liberista, che fonda la capacità di riprodurre crescita e occupazione sull’attitudine del mercato di autoregolarsi. Pertanto, la cosiddetta “economia della psicologia” su cui si basa il condizionamento del clima di fiducia potrebbe bastare a indurre le famiglie a spendere e le imprese a investire. Ma la realtà si basa sulle aspettative, non sulla fiducia. Le aspettative rappresentano un’indicazione delle attese e delle proiezioni degli imprenditori e dei consumatori baste su fatti reali, quali gli aumenti del reddito, dell’occupazione, degli investimenti pubblici e dei consumi collettivi. Di fatti, l’Indagine sulle aspettative delle imprese condotta dalla Banca d’Italia a dicembre 2015 riporta un peggioramento delle attese sull’inflazione e sull’andamento dell’economia, nonché un ristagno della propensione a investire e ad assumere (di fatti, sono tornati a calare i prezzi alla produzione).
Anche per questo è indispensabile rinnovare i CCNL scaduti e aprire una nuova stagione contrattuale all’insegna di “un moderno sistema di relazioni Industriali”, per uno sviluppo economico fondato sull’innovazione e la qualità del lavoro”. La terza scommessa, infine, dovrebbe essere fondata sulla nuova occupazione creata dal combinato disposto di Jobs Act e incentivi fiscali. Ma gli ultimi dati sulle forze di lavoro Istat restituiscono un quadro ancora allarmante, in cui alla lieve riduzione del tasso di disoccupazione corrisponde un calo dell’occupazione giovanile e un aumento dell’inattività. Nonostante i 7 miliardi di euro di incentivi previsti nella precedente Legge di stabilità (sgravi contributivi per nuove assunzioni e deduzione IRAP del costo del lavoro indeterminato), l’incremento annuo (gennaio-novembre 2015 sullo stesso periodo 2014) dei lavoratori permanenti riguarda meno di 71 mila occupati; a fronte di un nuovo aumento dei lavoratori a termine, pari a circa 115 mila occupati. Oltre le trasformazioni di contratti precari o autonomi e il mero incontro domanda/offerta di lavoro (posti vacanti), per tornare ai livelli pre-crisi restano ancora “da occupare” almeno 900 mila persone, contando i posti di lavoro perduti nella crisi, i nuovi inattivi e le forze di lavoro potenziali.
Nel merito. La politica economica del Governo è costruita tutta attorno a un impianto liberista fondato sulla svalutazione competitiva, del lavoro e fiscale, in corrispondenza di una nuova contrazione dell’intervento pubblico in economia. A fronte di un’ingiusta e inefficace riduzione delle tasse, il Governo insiste con pesanti tagli della spesa pubblica (spesa sanitaria, trasferimenti agli Enti locali, investimenti pubblici, retribuzioni e turn-over dei lavoratori pubblici, ecc.) mascherati da spending review, “efficientamento” e privatizzazioni. Al netto del deficit, infatti, le minori spese ammontano a 7,9 miliardi nel 2016, 8,4 miliardi nel 2017 e 9,8 nel 2018.
Non bastano i nuovi fondi per la lotta alla povertà o le misure di modifica del sistema previdenziale – su cui occorrerebbe una modifica radicale della riforma Fornero per sistemare le iniquità e liberare posti di lavoro – per evitare il contributo negativo della domanda pubblica (calcolato anche dallo stesso MEF nella Nota di aggiornamento del DEF 2015). Lo stesso Istat, in Audizione al Parlamento, ha stimato un impatto delle misure in Legge di stabilità sulla crescita del PIL pari ad appena lo 0,1% del PIL nel 2016. Il Governo scommette tutto sul mercato.
Nei passaggi parlamentari e fino alla pubblicazione (4 gennaio 2016) il testo ha subito un rilevante numero di modifiche, ma poco è cambiato in merito alla direzione della manovra: la parte “espansiva” della Legge di stabilità 2016 si fonda sulla riduzione delle tasse, in cui spicca l’iniqua abolizione della TASI su tutte le prime case e il ventaglio di incentivi e tagli fiscali alle imprese. Sulla prima misura, va sottolineato che la CGIL non aveva condiviso fin dall’inizio l’introduzione della TASI e aveva avanzato in alternativa un’altra proposta che oggi deve essere rilanciata, stante il fatto che l’Italia è il paese con il più alto livello di patrimonio sia in relazione ai redditi che in relazione al PIL. La nostra proposta è quella di una Imposta sulle grandi ricchezze, con aliquote progressive da applicarsi ai patrimoni, mobiliari e immobiliari di entità superiore agli 800 mila euro, per colpire le ricchezze immobilizzate del 5% delle famiglie più abbienti e disincentivare il patrimonio improduttivo. Si può prevedere anche un’aliquota aggiuntiva a disposizione degli Enti locali.
Sul versante delle imprese, la vera assente è la politica industriale. O, almeno, una politica degna di questa definizione. Non c’è programmazione, non c’è volontà di fondare su innovazione e lavoro qualificato l’uscita definitiva dalla crisi italiana all’interno della crisi europea e internazionale. Si punta solo a favorire interessi consolidati e, al limite, ad attrarre investimenti di capitali in maniera indifferenziata. Già con la Legge di stabilità 2015 (L. 190/14), tra decontribuzione per nuove assunzioni e deduzione del costo del lavoro a tempo indeterminato dall’imponibile IRAP, per il triennio 2015-2017, sono stati impegnati oltre 25 miliardi di euro a favore delle imprese (11,8 miliardi per gli esoneri contributivi e 13,7 miliardi per la deduzione IRAP). Erano state previste altre risorse per le imprese (incremento ACE, patent box e fondo R&S, fondo di garanzia per le Pmi, Fondo promozione Made in Italy), oltre alle suddette misure, per circa 4 miliardi di euro nel triennio 2015-2017.
A guardar bene i saldi, poi, ci si accorge che la riduzione della pressione fiscale si fonda soprattutto sul rinvio delle clausole di salvaguardia (aumento delle aliquote IVA e accise per la mancata autorizzazione da parte della Commissione Europea del reverse charge al settore della grande distribuzione; revisione del sistema di agevolazioni, le tax expenditures), che il MEF si vende astutamente come riduzione della pressione fiscale. Una parte consistente del lato “espansivo” della manovra, dunque, è rappresentata da una mera illusione contabile, costruita sull’ipotetico stimolo derivante da mancati aumenti delle tasse o riduzioni di agevolazioni non ancora contabilizzati dalla maggior parte degli operatori economici.
Se, infatti, risorse e impieghi venissero ricalcolati senza considerare le clausole di salvaguardia, maggiori e minori entrate (così come maggiori e minori spese) quasi si equivarrebbero, delineando una manovra a saldi invariati. Inoltre, la spada di Damocle delle clausole di salvaguardia penderà sul Bilancio nel 2017 per 15,1 miliardi e nel 2018 per 19,6 miliardi di euro. Il rinvio della clausole di salvaguardia non riduce le tasse.
È altrettanto vero che le risorse derivanti dalla “Clausola migranti” non sono state più destinate all’anticipo al 2016 del taglio delle imposte sui profitti delle aziende (IRES), ma in gran parte a “sicurezza e cultura”, intendendo con sicurezza il presidio del territorio e resistendo alle spinte di alcuni paesi alleati che chiedevano la discesa in campo diretta dell’esercito italiano nel teatro siriano-iracheno.
Positivo è anche l’immediato aumento delle detrazioni ai pensionati (inizialmente previste solo per il 2017), anche se il provvedimento appare insufficiente a ridisegnare un prelievo fiscale equo sui redditi fissi, la cui architettura andrebbe rivista totalmente, ma che accoglie parzialmente le richieste dei sindacati dei pensionati che richiedevano un innalzamento dei trattamenti pensionistici più bassi il cui potere d’acquisto è molto diminuito a causa di anni di indicizzazione parziale, peraltro in un periodo di bassissima inflazione.
Tra le riforme “di struttura”, meriterebbe particolare attenzione il sistema fiscale e, nello specifico, l’impianto normativo e tecnocratico di lotta all’evasione e all’elusione fiscale, che in Legge di stabilità non viene neanche citato. Al contrario, si conferma l’indebolimento già perseguito con la cosiddetta Delega fiscale, oltre che il messaggio incentivante dato dall’innalzamento del contante a tremila euro.
La scelta di ridurre le tasse in modo iniquo e generalizzato, a fronte di tagli lineari alla spesa pubblica, va in direzione contraria a ciò che andrebbe fatto: cambiare le entrate, spostando il peso del prelievo sui grandi patrimoni, sulle rendite e riducendo strutturalmente l’evasione fiscale, per aumentare la spesa pubblica qualificandola e sostenere la domanda effettiva, soprattutto nel Mezzogiorno.
In conclusione, la vera mancanza della politica economica del Governo risiede nell’assenza di politiche volte a risolvere il problema della disoccupazione, soprattutto giovanile. Nel quadro macroeconomico programmatico del Governo, infatti, si prevede un tasso di disoccupazione sopra il 10% anche al 2019. Ciò significa che, con la Legge Fornero e senza cambiamenti dell’assetto previdenziale, si programma un tasso di disoccupazione giovanile attorno al 40% per tutti i prossimi 5 anni. Eppure, creare lavoro è indispensabile. Si può e si deve avviare un piano straordinario per l’occupazione giovanile, come proposto con il Piano del Lavoro della CGIL, per rispondere alla crisi di domanda e occupazionale, qualificare l’offerta e il lavoro: con 10 miliardi di euro investiti nella creazione diretta di occupazione per l’innovazione sociale (beni ambientali, beni pubblici, beni comuni, welfare, ecc.) si potrebbero generare in un triennio oltre 700 mila nuovi occupati, tra pubblico e privato, per effetto dei nuovi settori e dei nuovi mercati indotti, quindi dei nuovi investimenti privati e della moltiplicazione dei redditi, riportando così il tasso di disoccupazione vicino al livello pre-crisi e aumentando la crescita del PIL di almeno 3 punti percentuali.
(*) Coordinatore dell’Area delle Politiche economiche e di sviluppo, CGIL nazionale