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Una nuova politica dei redditi per lo sviluppo

I socialdemocratici svedesi dicevano “l’iniziativa privata fin dove è possibile, l’intervento dello Stato, solo se necessario”. Potremmo parafrasare questa affermazione in questo modo “la contrattazione tra le parti fin dove è possibile, l’intervento dello Stato solo se necessario”.

Il recente dibattito sulla perdita dei salari reali rispetto all’inflazione ha indubbiamente aperto il famoso vaso di pandora. Ne è scaturito di tutto.

Dalla messa in discussione dell’accordo del 1993, al processo all’indice IPCA (colpevole di non considerare gli effetti sull’inflazione degli aumenti repentini delle materie prime, a causa di eventi eccezionali) alla denuncia della incapacità dei sindacati di tutelare, nella contrattazione, i salari dei lavoratori; incapacità appena mitigata, dalla richiesta perentoria di un intervento legislativo di misurazione della rappresentanza sindacale, tale da colmare l’assenza dell’applicazione dell’art. 39 cost., che ormai dura da 80 anni.

Insomma, pare davvero che i nodi insoluti delle Relazioni Industriali italiane stiano, qualcuno dice finalmente, venendo al pettine. Tuttavia, a mio parere, tale furore iconoclasta rischia di sortire maggiori danni di quelli che vuole risolvere.

Andiamo con ordine.

E’ davvero tutto da buttare l’accordo del 1993? In particolar modo nei due aspetti: quello che si proponeva di evitare nuove fiammate inflazionistiche, attraverso la programmazione dell’inflazione attesa, e quello destinato ad individuare con precisione i due livelli contrattuali (nazionale e di prossimità) a cui affidare diversi e specifici compiti?

Inoltre quale rapporto deve esserci tra libera contrattazione tra le parti e intervento legislativo, sia in materia di misurazione della rappresentanza sindacale, sia per la definizione dei “giusti” livelli salariali? 

Da più parti, giustamente, si è paventato il “pericolo” dell’intervento della magistratura per la definizione della giusta retribuzione, cosi come indicato dall’articolo n. 36 della Costituzione. 

Infine, che rapporto esiste, se esiste, tra struttura della contrattazione e sviluppo economico in una società aperta come la nostra? Ancora meglio, può la struttura della contrattazione contribuire o meno allo sviluppo sociale? E in che modo?

Io partirei da questa ultima domanda. Solo la risposta ad essa può contribuire alla messa a fuoco del ruolo che dovrebbero avere i diversi soggetti: sindacati dei lavoratori, rappresentanze datoriali e Stato, nella gestione del conflitto sociale, visto non come una patologia, ma anche come una risorsa per lo sviluppo democratico di una società avanzata.

Sgombriamo il campo da un equivoco: io sono per i “Poteri Forti”. 

Mi spiego: in una società aperta e sviluppata, solo i “Poteri Forti” della rappresentanza sociale possono assicurare una libera dialettica democratica tra i diversi, tutti legittimi, costituiti. 

Viceversa, poteri deboli e debole rappresentanza generano solo confuse rivendicazioni e, peggio ancora, precari equilibri. Insomma generano sempre ingiustizie.

Ma per assicurare la crescita di “Poteri Forti” è necessario soprattutto sapere quale ruolo essi sono destinati a svolgere nella dialettica sociale, e questo non può e non deve essere previsto “per legge”, la rappresentanza è come il coraggio di manzoniana memoria: se uno non ce l’ha, non glielo si può dare. 

Cosi a mio parere la legge sulla misurazione della rappresentanza, necessaria, ma non sufficiente, non può e non deve sostituire la libera dialettica sociale. Mi spiego meglio con un esempio. L’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori (legge per l’appunto) individuava, prima che un disastroso referendum promosso da una parte della sinistra lo abrogasse: il criterio della rappresentanza comparativamente maggioritaria.

La giurisprudenza aveva imparato ad applicare tale criterio utilizzando diversi parametri in concorso tra loro: numero degli iscritti, peso nella contrattazione locale o nazionale, ed altri, derivati persino dalla, allora embrionale, diffusione di istituti complementari alla retribuzione, quali i primi fondi pensionistici contrattuali e persino gli enti bilaterali. Insomma tutto ciò che, appunto la libera contrattazione, metteva a disposizione della magistratura per “pesare”, non solo misurare, la rappresentanza delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro. 

A seguito dell’abrogazione referendaria di quella parte dell’art. 19, la misurazione della legittimità degli accordi è tornata materia esclusiva del codice civile (titolo II “dei contratti in generale”) e in tal modo ha, forse inconsapevolmente, aperto la porta ai c. d. “contratti pirata” che prima non erano mai esistiti. 

Come dice un vecchio e saggio proverbio “la pezza è stata peggio del buco”, cosi succede quando si mette mano con frettolosità e superficialità a una materia complessa come quella della regolazione del conflitto sociale. 

Analogamente, nel recente dibattito sui salari si rischia di buttare il “bambino” (la struttura contrattuale nella sua definizione di compiti distinti tra CCNL e contrattazione di secondo livello) con “l’acqua sporca” della difficoltà oggettiva della contrattazione di tutelare i salari reali e di assicurare la distribuzione della produttività nel secondo livello. 

Nella disperata ricerca di trovare una facile soluzione al problema si invoca, nemmeno tanto sommessamente, un “ritorno” a una qualche forma di “scala mobile” con aumenti automatici, ovvero a qualche “meccanismo” legislativo che imponga la contrattazione di secondo livello (come? Quando? A chi?) senza nemmeno preoccuparsi di indagare sulle ragioni che hanno determinato, dalla fine del 2019 ad oggi, il decremento (non l’aumento) della produttività media dell’1% e con essa seppur, non solo connessa ad essa, una perdita di valore del 8,8% dei salari medi rispetto a gennaio 2021 

Insomma nessuna analisi approfondita, ma solo “grida manzoniane” che hanno lo stesso effetto di proclami, roboanti, quanto impotenti a modificare la realtà.

La perdita di valore reale dei salari è indubbiamente collegata, come verificato nel recente passato, al ritardo con cui si sono rinnovati i contratti collettivi nazionali e, se si guarda con attenzione ai dati specifici per settore, si scopre che maggiore è il ritardo, maggiore è la perdita del valore reale dei salari. Qualche esempio. 

La “vacanza contrattuale” media del settore pubblico è pari a 30 mesi (lì non ci sono nemmeno i contratti pirata), la vacanza contrattuale media nel settore privato è di 7 mesi (chimici e alimentaristi prossimi allo zero) poligrafico e spettacolo oltre i 36 mesi. Insomma più si ritarda il rinnovo e più i salari faticano a tenere il passo con l’inflazione.

Sembra grottesco nella sua semplice relazione tra causa ed effetto, ma molti commentatori, alla ricerca della comoda scorciatoia, invocano l’immediato intervento legislativo. 

Mi vien da ricordare come direbbe V. Hugo che è “facile essere buoni è difficile essere giusti”, per farla breve, sono convinto che un “baco” nell’accordo del 1993 ci sia.

E’ quello del mancato rinnovo, in tempi ragionevoli, del CCNL o meglio dell’assenza di una sanzione in caso di rinnovo degli stessi extra limite, ma, a mio modesto parere, tale assenza deve essere colmata dalla contrattazione tra le parti.

Devono essere loro a trovare la “giusta” soluzione (magari quella di un arbitrato sulla specifica materia salariale il cui esito sia obbligatorio tra le parti stesse), perché loro e non altri? Perché è proprio questo “accordo” a stabilirne la reale cogenza.

E’ lo sviluppo del ruolo contrattuale e non la supplenza legislativa, che rende i poteri della “rappresentanza” appunto “Poteri Forti”. 

Certo per fare ciò, bisogna crederci. 

Bisogna appunto avere un’alta considerazione di sé come soggetti rappresentativi di interessi collettivi e non già semplici portavoce degli stessi (lascio a voi la sottile, ma non tanto, differenza tra i due termini).

Occorre cioè credere, e credere davvero, nel ruolo della contrattazione collettiva, senza piagnucolare sulle difficoltà che l’evoluzione della società, ogni giorno, frappone ad essa fin dai primi tempi dei “telai meccanici” e ora con l’apparire della Intelligenza artificiale. 

Insomma bisogna investire in contrattazione libera ed autonoma, matura, consapevole dei propri compiti, soprattutto competente, pronta e attrezzata per un nuovo patto sociale nel quale il ruolo dei soggetti collettivi della rappresentanza è quello di essere protagonisti della crescita economica e, con essa, della giustizia sociale.

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