La consapevolezza di uno scarto significativo tra il compromesso alto sulla Prima Parte e di quello con strumenti istituzionali deboli nella Seconda fu già espressa il 22 dicembre 1947, il giorno dell’approvazione, da Meuccio Ruini (p. 436), Presidente della Commissione dei 75 che aveva predisposto il Progetto di Costituzione.
Questa contraddizione reale aveva la sua profonda ragione nel clima di sfiducia reciproca tra le forze politiche, ben ricostruita da Dossetti nelle citazioni a p. 443.
Il primo tentativo di correzione fu in realtà sul terreno elettorale con la legge a premio del 1953, che però non scattò (p. 444). Nel frattempo la forma di Governo dopo de Gasperi si consolida con un elemento patologico rispetto alle altre fdg parlamentari, senza l’unione personale tra leadership del partito maggiore e premiership (nota 29).
Dal fallimento del premio si sviluppò un movimento opposto si proporzionalizzazione delle leggi elettorali comunali (p. 446).
Sin da Einaudi, con la nomina di Pella, si cominciano a vedere le ampie tracce dualiste del testo (p. 447).
Il sistema, dopo il fallimento del Governo Tambroni, andava in direzione del centrosinistra, con l’associazione del Psi al Governo e un certo grado di compartecipazione del Pci nella legislazione (p. 453). Le forze contrarie a questo disegno svilupparono alcune prime iniziative di tipo più culturale in chiave presidenzialista (pp. 450-451) senza conseguenze effettive.
Vi fu solo la piccola riforma del bicameralismo, con l’equiparazione della durata tra Camera e Senato (p. 453).
L’ordinamento regionale nel 1970 e i Regolamenti Parlamentari nel 1971 rappresentarono il culmine del principio consociativo-compromissorio (pp. 454-455), in modo da ricomporre progressivamente la rottura del 1947, anticipando la grande maggioranza di solidarietà nazionale del 1976, che però non sopravvisse alla crisi legata all’installazione degli euromissili, che riportò il Pci all’opposizione.
Si svilupparono allora due iniziative, una più ambiziosa, la Grande riforma del Psi, in direzione presidenziale, e una più modesta, il decalogo Spadolini, la prima non ebbe conseguenze pratiche, la seconda un’attuazione parziale e differita, tra cui la legge sulla Presidenza del Consiglio e la riduzione del voto segreto nel 1988 (nota 66). Si trattava dell’accettazione del principio maggioritario nel funzionamento interno delle istituzioni (p. 466).
Lo scontro sul voto segreto insieme ai dissensi sulla riforma elettorale determinarono il fallimento della Commissione Bozzi (p. 465), Tuttavia essa fu importante perché dopo trent’anni vennero rilegittimate proposte di riforma basate sulla correzione della proporzionale, in un nuovo quadro in cui poteva, a differenza del 1953, poteva essere immaginabile un’effettiva alternanza (p. 465). Il maggioritarismo di funzionamento trascinava un possibile maggioritarismo di composizione, verso cui, dopo la fine della rendita di posizione (più apparente che reale) si orientava anche il Pci di Occhetto (p. 469).
I due maggiori partiti di governo, Dc e Psi, in seguito agli eventi del 1989, si chiusero in una logica autoconservativa e impedirono con quattro voti di fiducia l’inserimento dell’elezione diretta del sindaco nella nuova legge comunale (p. 470) cosa che scatenò la spinta referendaria nei due passaggi del 1991 (preferenza unica) e 1993 (legge elettorale Senato) (p. 471), mentre senza esito restò il Messaggio del Presidente Cossiga del 1991 (p. 47).
La durata breve della legislatura 1992-1994 consentì solo l’adozione delle leggi Mattarella, in sostanza adattando alla Camera le quote di proporzionale e maggioritario derivanti per il Senato dal voto referendario, mentre cadde nel nulla la Commissione De Mita-Jotti che in fondò servì solo per la predisposizione di quelle leggi (p. 477).
Breve anche la legislatura 1994-1996 che fu segnata solo dalla nuova legge elettorale a premio di maggioranza (p. 479), decisiva nel 1995 per far esplodere in due pezzi il terzo polo centrista (Ppi unitario e Patto Segni). Il comitato di studio Speroni durante il Governo Berlusconi fu comunque il primo in cui vennero presentati come testi alternativi uno di carattere semi-presidenziale e uno neo-parlamentare, progetti che a distanza di pochi giorni vennero poi proposti a ridosso dello scioglimento per tentare la formazione di un Governo di larghe intese che li rendesse possibili, mentre la Lega poneva all’ordine del giorno un diverso assetto di tipo di Stato (p. 482-483).
La legislatura 1996-2001 vide il fallimento della Bicamerale D’Alema che si era orientata verso il semi-presidenzialismo in seguito a un’improvvisa, ma non casuale, posizione assunta dalla Lega (p. 483). In essa però maturò la successiva riforma del Titolo V (approvata con referendum nel 2001, p. 490), mentre, in seguito ad alcune crisi regionali che avevano dimostrato insufficiente la sola riforma elettorale, il sistema fu completato adottando anche per le regioni il modello neoparlamentare dei comuni (p. 488).
Nella legislatura 2001-2006 maturò dentro la maggioranza di centro-destra un progetto modellato su un’ipotesi premierato, peraltro con alcuni poteri anomali di un Senato sganciato dal rapporto fiduciario, che fu alla fine bocciato nel referendum, ma nel frattempo furono comunque approvate le leggi elettorali ideate dal Ministro Calderoli, fondate sul premio di maggioranza nazionale alla Camera e su premi regionali al Senato (in modo da fermare il possibile successo del centrosinistra) e su liste bloccate estremamente lunghe in luogo dei collegi uninominali e delle liste corte delle leggi Mattarella (p. 495). Leggi che furono utilizzate sia nel 2006 sia nel 2008, al termine della legislatura breve segnata dal Governo Prodi II.
Nella legislatura 2008-2013, chiusasi con lo choc della crisi economica del Governo Monti, l’unica innovazione significativa fu l’introduzione dello sbarramento del 4% per le europee (p. 499).
In quella 2013-2018 durante il Governo Letta fu costituito un comitato di esperti guidato dal Ministro Quagliariello, che elaborò un modello fondato sul premierato non elettivo e su una nuova riforma del Titolo Quinto che riaccentrava alcune competenze (p. 505). Parte di quei contenuti venivano poi riproposti dal Governo Renzi in un progetto di legge maturato anche col consenso di Silvio Berlusconi. Ritiratosi quest’ultimo dall’accorto in seguito all’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale (qui si ferma il testo del prof. Fusaro), il progetto fu sostenuto nel referendum del dicembre 2016 e fu quindi segnato dal successo dei No.
Il testo del prof. Clementi segnala che la legge elettorale per la Camera fu nella sostanza una fotocopia di quella iper-proporzionale usata per la Costituente e che venne poi a cristallizzarsi col Testo Unico del 1957, superata la parentesi del premio di maggioranza del 1953 (p. 565), mentre quella del Senato era di poco più selettiva a causa della base regionale. In ogni caso, analogamente a quanto spiegato da Fusaro per la forma di governo debole, tali scelte iper-fotografiche si spiegano per la sfiducia reciproca legata alla Guerra Fredda,
Tramontate le appartenenze tradizionali col 1989, sulla spinta dei referendum, il proporzionalismo fu messo in discussione prima con la legge 81 del marzo 1993 (quella in sostanza ancora vigente), quindi con le leggi Mattarella. Quest’ultima in realtà, a causa di vari meccanismi (il turno unico, la doppia scheda per la Camera, il cosiddetto scorporo, era stata immaginata per frenare la spinta bipolare, ma sia l’effetto delle prime competizioni per i sindaci sia la ristrutturazione dell’offerta politica con la nascita di Forza Italia impressero comunque quella curvatura al sistema (pp. 569-570). Essa venne poi estesa alle Regioni nel triplo passaggio 1995 (riforma elettorale), 1999 (elezione diretta dei Presidenti delle Regioni ordinarie in Costituzione) e 2001 (elezione diretta di quasi tutti quelli delle Speciali). (575).
Si passa poi a fine legislatura nel 2006 alle leggi Calderoli per ridurre i danni, in particolar modo al Senato, rispetto alla prevista vittoria del centrosinistra (p. 592). La legge viene demolita da una prima sentenza della Corte Costituzionale che produce una confusa normativa di risulta, per superare la quale si determinerà poi una serie di modifiche vanno oltre la pubblicazione dell’articolo: approvazione del cosiddetto Italicum con premio di maggioranza e ballottaggio nazionale solo per la Camera, concepito in raccordo con la riforma costituzionale che avrebbe dato la fiducia solo alla Camera, nuova sentenza della Corte dopo la bocciatura referendaria che mette in discussione l’Italicum e infine approvazione della legge Rosato tuttora vigente.
Per capire le proposte in campo sulle riforme costituzionali dobbiamo prima ragionare sulle convenzioni costituzionali, sul diritto pattizio tra le forze politiche che integra le norme costituzionali ed elettorali con effetti rilevanti sulla dinamica delle forme di governo.
Jean-Claude Colliard, rilevava che l’usanza generalizzata anche in sistemi non bipartitici di presentare prima delle elezioni candidati per la guida del Governo, di norma coincidenti col ruolo di leader del relativo partito, si era accompagnata alla convenzione di riconoscere nelle coalizioni di Governo la guida dell’esecutivo per l’intera legislatura al candidato della forza maggiore.
Si tratta quindi di un modello di Premierato non elettivo, una legittimazione di fatto, di norma ex post rispetto al voto.
Negli anni recenti molte forme di governo parlamentari hanno visto una maggiore frammentazione elettorale e una più difficoltosa costruzione di coalizioni, ma tuttavia questa convenzione fondamentale non è stata messa in discussione.
Non entro nelle questioni di classificazioni del sistema francese, è però ovvio che pur avendo un rapporto fiduciario, esso non funziona secondo i canoni descritti qui sopra, è evidente che funziona secondo altre convenzioni: è quindi un’eccezione, anche rispetto a tutti gli altri che praticano l’elezione diretta del Presidente. Qui ci aiuta un altro studioso, Pierre Avril: tra le plurime interpretazioni possibili del sistema francese, il quadriennio 1958-1962 diede al sistema un imprinting centrato sull’Eliseo che la revisione del 1962 sul passaggio all’elezione diretta si propose di stabilizzare pro futuro, incentivando così le forze politiche a modellare la loro leadership su candidati alle elezioni presidenziali.
Anche l’Italia però fa eccezione per altri aspetti. Nel primo sistema dei partiti vigeva com’è noto la convenzione opposta alla normalità europea, per la quale il partito perno del sistema, la Democrazia Cristiana, praticava la dissociazione della guida del partito rispetto a quella del Governo per due ragioni di fondo: anzitutto per la sua natura di partito-confederazione di diverse correnti eterogenee, tenute insieme dal fatto che la sinistra fosse in Italia ad egemonia comunista; in commessione a questa logica, in un sistema privo di alternanza, questo semi turn-over della guida dell’esecutivo e del partito dava comunque una certa dinamicità, pur patologica, al sistema altrimenti ingessato. A ciò si aggiunse poi, col declino della Dc a partire dalle elezioni 1983, un’incapacità di far rispettare convenzioni relative alla cosiddetta ‘alternanza interna’ al pentapartito.
Una situazione abbastanza simile alla IV repubblica francese.
Passando al secondo sistema dei partiti, l’Italia sembra aver funzionato in modo analogo alle democrazie europee nel 1994 (Governo Berlusconi 1), nel 2001-2006 (Berlusconi 2 e 3), 2008-2011 (Berlusconi 4) ed oggi Meloni. Analogo ma non identico perché se si esclude la legislatura 2001-2006 (due Governi in continuità), negli altri casi gli esecutivi a legittimazione elettorale sono stati presto (1995) o tardi (2011) sostituiti da esecutivi tecnici di derivazione presidenziale. Il sistema ha operato in modo analogo anche nel 1996 (Prodi 1) e 2006 (Prodi 2) con la differenza sostanziale, però, per la quale il Presidente che aveva ricevuto una legittimazione diretta non era anche il leader del primo partito della coalizione.
Ma soprattutto, qui sta il problema, l’esperienza delle coalizioni post-elettorali della legislatura 2013-2018 e, ancor più, 2018-2022: in tutti questi casi le coalizioni non sono state guidate da un leader indicato prima del voto dal primo partito della coalizione o che, comunque, si sarebbe presentato alle elezioni successive e non sono durate una legislatura-
L’esperienza di queste coalizioni post-elettorali nel caso italiano ci dimostra pertanto che, nel nostro contesto, interventi di razionalizzazione della forma di governo che si fondassero sull’eliminazione di coalizioni pre-elettorali con sistemi proporzionalistici non conseguirebbero risultati analoghi agli altri Paesi che praticano le stesse regole.
Se si parte quindi da questo presupposto le alternative allo status quo insoddisfacente paiono essere tre.
Cito qui i sostenitori in sede dottrinale, non mi occupo dei partiti che hanno peraltro posizioni mutevoli.
Vi è chi, come il collega Frosini, propone da tempo il premierato elettivo, ossia l’estensione delle forme di governo comunale e regionale sul piano nazionale. A dir la verità in questo caso non ci sarebbe bisogno di convenzioni, ma farebbero tutto le norme sulla forma di governo. Ovviamente ciò può comportare la critica di un eccesso di rigidità per una forma di governo nazionale, in particolare con una compressione eccessiva del ruolo del Capo dello Stato.
Vi è chi poi, come il nostro carissimo collega Caravita, prematuramente scomparso, aveva già precisamente fatto in particolare nella Commissione di esperti del Governo Letta, suggerisce l’adozione del sistema francese. In queste settimane, a causa delle difficoltà politiche della Francia, di cui si è parlato in precedenza, la proposta è liquidata con eccessiva superficialità come se la crisi fosse costituzionale e non politica. Restano però comunque due obiezioni serie su cui riflettere: essa comporterebbe in Italia il sacrificio di un’istituzione super partes rivelatasi utile al funzionamento del sistema; col ritorno a un formato sostanzialmente bipolare, anche se asimmetrico, del sistema dei partiti, quest’ultimo si sta riorientando già verso la legittimazione diretta del vertice del governo, sicché le innovazioni potrebbero più ragionevolmente proporsi di razionalizzare questa tendenza già in corso, piuttosto che indirizzarsi altrove.
Qualora pertanto si desideri ragionare di premierato non elettivo nel caso italiano, oltre alla conferma come elemento necessario anche se non sufficiente di leggi elettorali selettive che favoriscano (come l’attuale) o che garantiscano (come potrebbero farlo sistemi a premio) una legittimazione elettorale, appare opportuno ragionare su norme costituzionali analoghe a quelle tedesche, spagnole o svedesi su fiducia, sfiducia e scioglimento che disincentivano le crisi e che possono anche provocare la nascita di convenzioni costituzionali che vadano nello stesso senso. Siccome questo terzo modello può sembrare tecnicamente più sfuggente rispetto ai due precedenti (per i quali basta guardare il testo Unico Enti Locali o la Costituzione francese) invito a rileggere qui il testo Salvi sul premierato alla Bicamerale D’Alema.
Il sistema è basato sull’indicazione sulla scheda e non sull’elezione diretta (art. 1), sull’aggiunta del potere di revoca (art. 2), sull’attribuzione del potere di scioglimento (art. 3), ma anche sulla possibilità di rimuovere il premier con mozione costruttiva a maggioranza assoluta (idem) o di sostituzione in vari casi tra quello di dimissioni sempre a maggioranza assoluta (art. 4). Sono formulazioni più spostate sul modello spagnolo. In alternativa sarebbe utilizzabili quelle tedesche (articoli 63,64, 67 e 68) più restrittive sullo scioglimento, la cui proposta scatterebbe solo in caso di bocciatura sulla questione di fiducia.
*Traccia di due lezioni al corso di diritto costituzionale italiano e comparato, Università Sapienza Roma, utilizzando testi del prof. Fusaro sulle riforme istituzionali (https://bit.ly/3W10S9n) e del prof. Clementi sulle leggi elettorali (https://bit.ly/3M7an1V). le pagine indicate nel testo si riferiscono ai libri contenuti nei link.