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Una storia personale piena di significati collettivi

Nella Chiesa ci sono più preti di campagna o suore di periferia che vengono ricordati o addirittura fatti santi, piuttosto che i cardinali di Curia; così nel sindacato ci sono più delegati o dirigenti di base che restano nella memoria delle lavoratrici e dei lavoratori che dirigenti di vertice, sia pure meritevoli. Giovanni Trinca, autore del libro “Oltre i confini”(ed. CIEFFE GRAFICA 2022), che si legge con piacevolezza, appartiene alla prima categoria. Ne sono convinto, perché al di là delle venture e sventure che gli sono capitate facendo il sindacalista, dimostra una qualità rara: saper affrontare le situazioni, così come capitano, come si sviluppano, come si risolvono. E questo resta nella vulgata dei più.

Non cedere al rancore, alla logica del potere, alla resa ma piuttosto cercare nuove motivazioni, nuovi percorsi, nuovi spazi di autonomia, anche a costo di sacrifici chiesti a sé stesso e ai propri familiari, è un modo di dare una postura alla propria esistenza del tutto scevra da esigenze appariscenti, oppure da riconoscimenti carrieristici. E ciò gli ha consentito una capacità espositiva sincera, schietta e convincente. Solo apparentemente sembra un intransigente, un testardo innamorato delle proprie idee, un candidato a perdere. In realtà, è un cercatore di coerenze tra il dire e il fare, pronto al compromesso se questo porta i segni sia pure minimi di riscatto dalla condizione di subordinazione senza dignità, degli ultimi.

Tutto questo, scorre in pagine che ripercorrono una fase della storia del sindacalismo in terra veneta che è giusto che venga ricordata. Riguarda un periodo di straordinaria concretizzazione dei valori di solidarietà, eguaglianza e partecipazione che hanno improntato una generazione di iscritti al sindacato, di militanti capaci di sacrifici indicibili, di dirigenti che si sporcavano le mani pur di far valere le esigenze dei più deboli. Ma è stato teatro anche di una non linearità dell’evoluzione del protagonismo operaio, quando irruppero le crisi aziendali e sociali, l’immigrazione iniziò a meticciare il territorio e nuovi soggetti politici intervennero con tutte le contraddizioni che essi comportarono e tuttora comportano. Qui, il racconto di Trinca diventa quasi doloroso, perché le incomprensioni sovrastavano la realtà e la deformavano e lo spaesamento non trovava nuovi equilibri.

Dai frantumi di questo scombussolamento, emerge la capacità del protagonista di sapersi riadattare. Mette a disposizione di un nuovo progetto lavorativo, il cumulo di esperienze fatte nel sindacato. Questo si rivela per Trinca, ma vale per tutti, una scuola di idealità e di praticità, di visioni lunghe e concretizzazioni immediate, di relazioni umane complesse e di valorizzazioni individuali. Il sapere acquisito dalle letture, dalle discussioni, dalle trattative, dalle assemblee lo rende capace di misurarsi con ambienti e situazioni diversi dal passato, ma affrontati con lo stesso entusiasmo e impegno. 

Il “confine” del saper fare si dilata, produce soddisfazioni altrettanto importanti quanto quelle già vissute. Soprattutto, pacifica il vissuto tra presente e passato, non c’è più il rammarico nel ricordo, ma la gratitudine di avere acquisito capacità spendibili in altre dimensioni, altri rapporti, altro “bisogno”. La mutazione non altera la personalità del protagonista, non diventa “altro”; è la vittoria morale e sostanziale del bagaglio culturale che possiede e che lo gratifica oltre misura.

Non meraviglia, quindi, che anche uno studioso, non incline ai facili entusiasmi come Paolo Feltrin, abbia tratto spunto dalla lettura ante litteram, per aggiungere un lungo e ragionato commento sulla salute del sindacato, che vale la pena che venga letto con altrettanta curiosità. E’ una disamina realistica e nient’affatto genuflessa verso il ruolo svolto dalle tre confederazioni, riconosciuto comunque come importante ed essenziale. Essa fa emergere un dato di grande significato: non è il numero delle tessere a definire l’influenza dei rappresentanti dei lavoratori nelle dinamiche di potere della società post-industriale. 

Ormai, si è dilatato lo spettro della tutela; alla persistente supremazia della contrattazione, si è aggiunta la fornitura dei servizi individuali. Anche da questa parte giungono le iscrizioni, la cui qualità è spesso non espressione di adesione ideale e identitaria.Dato che in genere i servizi sono realizzati con professionalità e serietà, iscriversi esprime prevalentemente un consenso utilitaristico e funzionale. Feltrin si chiede se questa caratterizzazione, snaturi la storica carica di soggetto di cambiamento del sindacato e lo circoscrive in un ambito di tutela di interessi, tendenzialmente corporativo.

Non si ferma alla constatazione, ma formula una ipotesi circostanziata, anche sulla scorta dell’esperienza raccontata da Trinca. Il sindacato confederale che abbiamo conosciuto corrisponde ad una fase conclusa, quella industriale. Deve fare i conti con l’economia digitale e la società liquida. Ma può continuare a svolgere un ruolo di “corpo intermedio” tra società ed istituzioni, nella misura in cui sappia interpretare con ampiezza di vedute e di comportamenti i mutamenti qualitativi e quantitativi della realtà del lavoro. Ed io aggiungo, con l’obiettivo di ricomporre ciò che tecnologia, organizzazione e globalizzazione tendono a scomporre. 

In definitiva, non bastano le tessere – fermo restando che esse sono determinanti per l’autonomia del sindacato – per dargli autorevolezza. Occorre partecipazione dei lavoratori alle scelte sindacali, alimentate da valori e obiettivi unificanti. Che non si possono esprimere una tantum, con fiammate ribellistiche attorno a parole d’ordine spesso populistiche, ma con un costante coinvolgimento delle persone, guidandole su un saldo sentiero democratico.                            

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