L’accordo recentemente siglato in Germania per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici del Baden-Württemberg affronta in modo inedito e profondamente innovativo temi quali orario e contrattazione individuale.
L’accordo fa seguito all’istituzione del salario minimo – definito da un’intesa tra le parti recepita successivamente in legge – e si appoggia alle norme sulla rappresentanza e sulla codeterminazione, in essere dagli anni Cinquanta.
Non può non destare meraviglia che sui temi in esso contenuti, quanto mai attuali per non dire urgenti, il nostro dibattito sia rimasto ristretto alla cerchia di alcuni esperti della materia.
Non può non sorgere il cattivo pensiero che tutto ciò che segna un’intesa costruttiva fra le parti, tutto ciò che, soprattutto per i lavoratori, marca un segno di positiva innovazione venga, nel nostro paese, istintivamente messo in sordina e non utilizzato.
Questo in un paese in cui – al di là delle affermazioni di rito – non si sceglie in modo chiaro come interlocutore l’impresa che innova, che crea nuovi mercati valorizzando il lavoro, ma, troppo spesso, quella che sopravvive utilizzando risorse pubbliche e comprimendo i diritti e l’occupazione.
Tanto più stupisce, in questo quadro non consolante del dibattito politico, la prudenza delle organizzazioni sindacali, che sembrano esclusivamente preoccupate, rispetto agli ampi temi dell’accordo, dall’introduzione del salario minimo per legge, salvo poi, sull’orario di lavoro, tendere a preferire la soluzione generalizzata e rigida del modello francese rispetto alla flessibilità e agli spazi di sperimentazione proposti in Germania.
La vera novità dell’accordo tedesco, infatti, risiede proprio in tale elemento di flessibilità: la gestione proposta (da ventiquattro a quaranta ore settimanali) tiene insieme un quadro nazionale di contrattazione collettiva e di garanzia dei diritti e le esigenze e le necessità della persona che lavora. Un agire collettivo nella definizione dei diritti fondamentali e una espressione della individualità: tutto questo è indispensabile in una impresa tecnologicamente avanzata, che si misura sulla qualità, vede e vuole il traguardo di industria 4.0, non rimuove e non trasforma in paura l’avvento della robotizzazione, ma cerca di rendere protagonisti di questa svolta epocale l’intelligenza e la capacità delle donne e degli uomini che possono dare un nuovo senso al lavoro.
L’accordo tedesco s’inserisce in un modello, la codeterminazione e la partecipazione nell’impresa, che, nato nel secondo dopoguerra, è in grado oggi di rinnovarsi e di interpretare le esigenze dell’impresa e del lavoro del futuro.
La valorizzazione della persona e della sua libertà nel lavoro è questione cruciale del nostro tempo, rispetto alla quale occorre guardare con attenzione ad un filone di pensieri, di esperienze, di voci che vanno dalle pagine sul lavoro di Simone Weil all’ultima elaborazione di Bruno Trentin, fino ad alcune riflessioni di papa Francesco.
C’è un altro aspetto importante. In Germania, così come in altri paesi, affrontare il tema del lavoro più “avanzato” non ha impedito di costruire una rete di protezione per il lavoro “povero”, che la grande trasformazione mondiale, se non governata, rende sempre più povero di qualità e di diritti proprio mentre contribuisce ad aumentarne la quantità. Pensiamo al rapporto tra le nuove tendenze demografiche dell’Occidente e la domanda crescente di lavori di cura.
Ogni tentativo di ricomporre il tema dell’innovazione e delle trasformazioni del lavoro “nuovo” e quello di tutelare attraverso una soglia minima di diritti il lavoro cosiddetto povero va studiato con grande attenzione se davvero, come si dice, si vuole costruire una controtendenza ai processi (già profondi) di disgregazione della nostra società.
Non si può, allora, essere contrari al salario minimo definito dalle parti in nome di un contratto nazionale che di fatto non esiste per decine di migliaia di lavoratori, non si può negare che il salario minimo definito per legge e accompagnato dagli opportuni sgravi fiscali non solo può contribuire a fare emergere il “nero”, ma può aprire la strada (pensiamo alle cosiddette badanti) all’applicazione di contratti nazionali per lavoratrici e lavoratori che ne sono privi.
L’opposizione al salario minimo per legge è simile a quella manifestata verso la proposta dei contratti a tutela crescente presentata nella sedicesima legislatura dal presidente Marini e da me e che s’ispirava alla proposta Boeri-Garibaldi. Dopo arrivò il jobs act…
Per questo averla riproposta per la trattativa sul jobs act o proporlo ora all’interno di qualche programma elettorale non è più utile. Vale il celebre verso di Francesco Guccini:
bisogna saper scegliere i tempi, non arrivarci per contrarietà.
Occorre, invece, una riflessione di tutte le parti animata dalla volontà di cambiare il sistema delle relazioni sindacali, a partire dalla necessità di leggi sulla rappresentanza e sulla partecipazione, della riduzione del numero dei contratti.
Significa affermare il ruolo del contratto nazionale come sede in cui definire nettamente diritti e regole comuni e quello della contrattazione territoriale, di distretto e di azienda come luogo in cui affrontare pienamente l’organizzazione del lavoro, la produttività dell’impresa e la valorizzazione della persona che lavora.
Da quasi vent’anni le parti siglano accordi che si muovono in questa direzione; in particolare negli ultimi accordi questi temi sono definiti molto chiaramente. Contenuti importanti, contenuti innovatori che si scontrano, però, col problema della loro inapplicabilità in assenza di legislazione. Pensiamo a quello sulla rappresentanza e sulla partecipazione.
Per questo, per il futuro che intravvediamo davanti a noi, va detto che l’accordo tedesco indica una strada che non è possibile ignorare. Non si può perdere anche questa occasione.
*già Segretario Confederale CGIL; già Senatore PD