Per chi ha a cuore i temi dell’ineguaglianza, della giustizia globale e del futuro della democrazia, “La ricchezza nascosta delle nazioni” di Gabriel Zucman è una lettura fondamentale. Si tratta forse del miglior libro mai scritto sui paradisi fiscali e su quello che possiamo fare per contrastarli. Non è eccessivamente tecnico, si legge con piacere e raggiunge tre obiettivi in modo conciso ed efficace.
I paradisi fiscali, e con loro l’opacità finanziaria, sono una delle principali forze trainanti alla base delle crescenti ineguaglianze economiche nel mondo e costituiscono una seria minaccia per le nostre società democratiche. Perché? Molto semplicemente perché le democrazie moderne si reggono su un contratto sociale fondamentale: tutti devono pagare le tasse su una base equa e trasparente per finanziare l’accesso a un gran numero di beni e servizi pubblici. Come è ovvio sussiste un margine di disaccordo su che cosa significhi imposizione «giusta» e «trasparente». Ma se alcuni degli individui più ricchi e alcune delle più grandi società del pianeta si servono dei paradisi offshore e dell’elusione fiscale per evitare di pagare la quasi totalità delle imposte dovute, questo contratto sociale fondamentale è in pericolo.
Ma ciò che rende il libro tanto importante è il fatto che non si limita a formulare princìpi e minacce astratte, ma propone dati e soluzioni concrete. Le statistiche finanziarie internazionali presentano incoerenze sistematiche. In particolare, le piazze finanziarie di tutto il mondo registrano costantemente più passività che attività. Analizzando tali anomalie con una metodologia rigorosa e innovativa, Zucman elabora una delle stime più credibili in merito all’incidenza globale dei paradisi fiscali. Stando alla sua valutazione di riferimento, che è una stima per difetto, circa l’8% dei patrimoni finanziari mondiali è detenuto nei paradisi fiscali. Nei Paesi emergenti e in via di sviluppo questa percentuale è spesso molto più elevata, il che ostacola la costruzione del consenso fiscale e della fiducia nei governi, impedendo di risolvere situazioni di estrema ineguaglianza. Zucman valuta che in Africa la quota dei patrimoni finanziari detenuta offshore sfiori il 30%. In Russia e nei Paesi petroliferi del Medio Oriente, tra le regioni più inique ed esplosive del mondo intero, supererebbe addirittura il 50%.
La percentuale di ricchezza statunitense nei paradisi fiscali sembra essere di molto inferiore a quella russa o africana. Inoltre, a quanto pare, la quota dei patrimoni personali degli Stati Uniti detenuti offshore è anche al di sotto di quella dei Paesi europei che si sono dimostrati particolarmente inefficaci nel coordinare le loro politiche per contrastare i paradisi fiscali, e hanno dovuto attendere l’accordo Fatca (Foreign Account Tax Com- pliance Act) statunitense e le sanzioni degli Usa contro le banche svizzere prima di iniziare a muoversi verso la trasmissione automatica delle informazioni.
Sarebbe tuttavia un errore sottovalutare il peso dei paradisi fiscali sul sistema tributario statunitense. Secondo le prudenti stime di Zucman, le perdite di gettito fiscale derivanti dai paradisi offshore rappresentano per gli Stati Uniti una somma pari agli introiti che otterrebbero aumentando di quasi il 20% l’aliquota fiscale dello 0,1% di contribuenti nella fascia massima di reddito. Quindi, se è vero che negli Stati Uniti la questione dei patrimoni personali offshore ha meno incidenza che in Europa, l’evasione dell’imposta sulle società da parte delle multinazionali resta un problema di primo piano. Zucman sottolinea inoltre come la normativa Fatca abbia ancora molte lacune, tanto che tra il 2008 e il 2015 l’impatto generale dei paradisi fiscali ha continuato a crescere. Per fare un reale passo avanti serviranno sanzioni ben più importanti di quelle messe in campo finora. I calcoli di Zucman evidenziano, ad esempio, che l’opacità finanziaria offre a un Paese come la Svizzera vantaggi equivalenti alle perdite che subirebbe se i suoi tre principali vicini (Germania, Francia e Italia) le imponessero dazi commerciali pari al 30%. Ovviamente questi Paesi sono liberi di non farlo, ma allora non possono lamentarsi di veder crescere il problema a dismisura. La lotta all’opacità finanziaria globale è una delle sfide più importanti che i governi si trovano oggi ad affrontare, e c’è ancora molta strada da fare prima di riuscire a invertire le attuali tendenze strutturali.
Secondo Zucman, il primo passo in questa direzione dovrebbe essere la creazione di un catasto mondiale dei patrimoni finanziari, in cui registrare i proprietari di ogni azione e obbligazione. Questo catasto fungerebbe da deposito titoli: sarebbe coordinato dagli Stati e dalle organizzazioni internazionali, e consentirebbe alle amministrazioni fiscali nazionali di lottare contro l’evasione e di riscuotere le imposte sui patrimoni e sui flussi di reddito da capitale.
Ad alcuni l’idea di un deposito centrale può sembrare utopistica, ma non lo è. In realtà, i depositi centrali titoli esistono già, il problema è che non sono globali ma nazionali, o talvolta regionali, e soprattutto sono privati e non pubblici. A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, i titoli sono stati gradualmente dematerializzati, fino alla totale scomparsa dei certificati cartacei. Sono nati allora i depositi centrali moderni, con lo scopo di garantire la sicurezza delle transazioni finanziarie e di registrare i proprietari delle azioni e obbligazioni in un database digitale (è difficile fare affari se diversi istituti finanziari o operatori economici nel mondo rivendicano un diritto di proprietà sugli stessi attivi). Molti istituti finanziari privati si sono specializzati in questo servizio. I depositi centrali più noti sono, negli Stati Uniti, la Depository Trust Company (Dtc) e, in Europa, Euroclear e Clearstream. Il problema è che queste organizzazioni non trasmettono sistematicamente i loro dati agli Stati e alle amministrazioni fiscali, ma tendono anzi a promuovere e beneficiare dell’evasione fiscale e dell’opacità finanziaria piuttosto che a favorire la trasparenza (si pensi, ad esempio, allo scandalo Clearstream in Francia).
La proposta di Zucman è chiara e semplice: i governi dovrebbero assumere il controllo dei depositi centrali e via via concentrarli in un catasto finanziario mondiale. Gli Stati Uniti, l’Unione europea, il Giappone e, auspicabilmente, il Fondo monetario internazionale dovrebbero essere alla guida di questo processo, insieme a tutti i Paesi emergenti dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina che, alla luce delle gravissime perdite subite a causa dell’evasione fiscale e della fuga di capitali, volessero unirsi a questo sforzo cooperativo. L’inclusione nel catasto finanziario mondiale comporterebbe diritti e doveri: garantirebbe la tutela dei diritti di proprietà e delle transazioni finanziarie in cambio dell’impegno a trasmettere tutte le informazioni necessarie per identificare i reali proprietari degli attivi in circolazione. Questo sistema, secondo Zucman, dovrebbe essere accompagnato da una tassa di registrazione comune minima (ad esempio lo 0,1% del patrimonio netto individuale), che potrebbe essere integrata da aliquote fiscali progressive stabilite dai singoli governi (o da coalizioni internazionali di più Stati).
* da Pagina 99 del 11 febbraio 2017