Le polemiche sul costituendo Fondo per la ripresa hanno visto su fronti opposti Olanda e Italia. La prima si è distinta come capofila dei “frugali”, contrari alla mutualizzazione degli sforzi per uscire dalla pandemia; e molti commentatori di casa nostra hanno reagito sottolineando come l’Olanda pratichi la concorrenza sleale con una fiscalità delle imprese eccessivamente aggressiva.
Le accuse reciproche non faranno certo fare passi avanti alla cooperazione tra Paesi europei. Tuttavia, il tema della tassazione, del debito, della concorrenza fiscale andrebbero affrontati congiuntamente.
Le imprese multinazionali evitano da sempre gran parte della tassazione facendo “viaggiare” costi e ricavi tra filiali situate in Paesi diversi. Le cose sono peggiorate con l’avvento delle società digitali, che avendo attivi in gran parte intangibili approfittano ancora di più delle differenze tra regimi. Il Fmi ha stimato una perdita totale di gettito fiscale dovuta a elusione da parte di multinazionali di 500 miliardi di dollari annui. L’ economista di Berkeley Gabriel Zucman ha appena pubblicato le sue stime per il 2017 su vincenti e perdenti del gioco della concorrenza fiscale. I suoi dati mostrano che i paradisi fiscali sottraggono all’Italia risorse equivalenti al 19% (circa 7 miliardi) del totale delle imposte sulle società. E anche se nell’immaginario popolare i paradisi fiscali sono associati a spiagge dorate, Zucman evidenzia come a farla da padrone (con più del 90% totale dell’elusione) siano i paradisi che abbiamo in casa; nell’ordine Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Malta, Cipro. Oltre a erodere la capacità dello Stato di raccogliere risorse, l’elusione fiscale consente alle multinazionali di beneficiare di un vantaggio competitivo sulle imprese domestiche, un problema particolarmente sentito nel nostro Paese.
Certo, si potrebbe argomentare che i Paesi vittime della concorrenza fiscale potrebbero reagire abbassando le tasse a loro volta. Dopotutto, sui mercati è questo il meccanismo che garantisce che i prezzi non esplodano e che il benessere dei consumatori sia massimizzato. Ma la concorrenza tra Stati non è come la concorrenza tra imprese. La riduzione delle tasse porta con sé una minore capacità di sostenere l’economia (per esempio con manovre keynesiane) e di finanziare la protezione sociale. Per una piccola economia aperta che prospera sul commercio internazionale questo non è un problema insormontabile. Per Paesi più grandi, in cui la domanda interna ha un ruolo importante, ridurre la capacità di azione dello Stato elimina un importante fattore di stabilizzazione, contribuisce a mettere pressione sulle finanze pubbliche e ad aumentare disuguaglianza e sfiducia. Insomma, per un Paese di grandi dimensioni la concorrenza fiscale non è una strada facilmente percorribile. E a quel punto, non si scappa. O si entra in uno stato di semi austerità permanente (che anche in Paesi come la Germania ha effetti dirompenti, ad esempio sullo stato delle infrastrutture), oppure si lascia filare il debito pubblico. È per questo che sarebbe auspicabile legare le discussioni sulla capacità di bilancio comune, e su presunti meccanismi di solidarietà, con quelle sul coordinamento delle politiche di tassazione volte a limitare la pratica della concorrenza fiscale.
Non è un problema senza soluzione. Occorre partire da un principio semplice e intuitivo: a dispetto della moltitudine di personalità giuridiche e di filiali che compongono una società multinazionale, questa ai fini fiscali dovrebbe essere considerata come un’entità unica. I profitti globali dovrebbero essere imputati ai vari Paesi in cui questa opera, secondo criteri che considerino vendite (o utenti per le società digitali), occupazione o altri parametri. Si potrebbe poi fissare un tasso minimo di imposizione (la Icrict, una commissione tra i cui membri figurano Piketty e Stiglitz, ha proposto un tasso del 25%). Ogni Paese avrebbe diritto alla quota di imposta determinata dall’algoritmo, rimanendo libero di imporre una tassazione aggiuntiva.
L’Ocse nell’ultimo anno ha lavorato su una proposta di tassazione globale minima, che dovrebbe essere discussa da un prossimo G20. La Commissione e il Parlamento europeo hanno percorso una strada simile approvando nel 2018 un piano per una tassazione comune delle multinazionali (Ccctb, Common Consolidated Corporate Tax Base) che distribuisce i profitti (e quindi la base imponibile) tra Paesi membri sulla base di volume d’affari e dipendenti per Paese. Tre membri del Parlamento europeo hanno recentemente riportato stime secondo le quali la Ccctb potrebbe fornire 12 miliardi di fondi propri al bilancio dell’Ue. Questi, insieme ai proventi di altre misure come la digital tax servirebbero da base per l’emissione di Consols, titoli perpetui, volti a finanziare il Fondo per la ripresa.
Tuttavia, la strada per una soluzione globale è ancora tutta in salita. La proposta dell’Ocse è impantanata in una diatriba sulla parte di profitti che sarebbero soggetti al meccanismo; è sempre più concreto il rischio di un accordo al ribasso che introduca il principio generale, ma limitandone l’applicazione solo ai profitti non “normali” e aprendo la via a una miriade di problemi sulla definizione di cosa si debba intendere per “profitto normale”. La misura insomma rischia avere solo un impatto simbolico.
Anche a livello europeo tutto è fermo; la proposta Ccctb è arenata nel limbo del Consiglio europeo, dove le decisioni in materia fiscale sono prese all’unanimità e quindi bloccate dal veto dei Paesi che beneficiano dal sistema attuale. Se è rassicurante che la presidente von Der Leyen l’abbia inserita nella “to do list” per il commissario agli Affari economici Gentiloni, occorre che Francia e Germania la rimettano al centro dell’agenda europea in un momento in cui, con le discussioni sul Recovery Fund, ci si interroga su un salto di qualità in termini di cooperazione e coordinamento delle politiche di bilancio.
Aspettando un’iniziativa europea, intanto, la lotta contro l’elusione fiscale non può che passare per iniziative unilaterali, come la recente web tax italiana. La crisi del Covid è un modo per rimettere al centro dell’agenda il tema, e soprattutto per mostrare che gli Stati non sono completamente impotenti di fronte all’elusione fiscale. Proprio in questi giorni, Polonia, Danimarca Italia e Francia hanno annunciato di voler escludere dalle misure di sostegno alle imprese tutte le società multinazionali che abbiano sede o controllate in paradisi fiscali.
Tuttavia, come sempre in tema di fiscalità, il diavolo si nasconde nei dettagli. Ad oggi non è chiaro quali Paesi verranno considerati paradisi fiscali, in assenza di una definizione comune. Il Consiglio europeo ha stilato una lista che non include gli Stati membri (il che non sorprende, trattandosi di un compromesso). Solo il comitato speciale per i crimini finanziari, elusione ed evasione del Parlamento europeo (“Tax3”) ha meritoriamente identificato Irlanda, Belgio, Cipro, Ungheria, Lussemburgo, Malta e Olanda come Paesi che “presentano caratteristiche di paradisi fiscali”.
Insomma, fin tanto che i partner europei saranno per ragioni politiche esclusi dalla lista, le misure annunciate in questi giorni rischiano di rimanere poco più che simboliche. La Commissione europea ha inoltre avvertito che Stati membri non possono vietare gli aiuti a multinazionali registrate nei paradisi fiscali europei, perché questo sarebbe contrario alla libera circolazione dei capitali.
Esiste tuttavia un modo per aggirare il problema, ricorrendo, invece che all’esclusione, a un sistema di condizionalità. Tutte le multinazionali che richiedono aiuti all’ Italia dovrebbero rendere pubblici i dati di fatturato, numero di dipendenti, profitti, imposte pagate in ognuno dei Paesi in cui operano. È un vincolo cui sono soggetti già da qualche anno gli istituti finanziari europei (grazie alla direttiva Crd IV); questo semplice obbligo di trasparenza ha già ridotto l’elusione fiscale.
In buona sostanza, si dovrebbe alterare l’analisi costi-benefici che spinge le imprese a delocalizzare i profitti, mettendo nella bilancia (“internalizzare”, nel gergo degli economisti) un bene che per molte imprese vale più di qualche punto di fatturato: la reputazione. Le campagne contro il lavoro minorile che hanno colpito alcune grandi multinazionali, come Nike, dimostrano come questo tipo di intervento a volte sia più efficace di divieti e regolamentazione per raggiungere l’obiettivo di indurre comportamenti virtuosi.
*da La Voce, 11/05/2020