Ogni volta che viene a mancare una persona “pubblica” e tu hai avuto l’avventura di conoscerla, ti viene naturale di ripensare alle occasioni che hai avuto di incrociarla, alle interlocuzioni che sono capitate; e tutto questo per verificare quanto le immagini e il racconto pubblico, spesso viziati di agiografia, corrispondano al ritratto che di quella persona ti sei fatta tu, pur nel corso di una frequentazione lunga anche se intermittente e, certamente, non privilegiata.
Questo è quanto è capitato a me, quando con sorpresa, – perché pensavo che fosse ormai sfuggito alla trappola del Covid – ho saputo della morte di Franco Marini.
Era tra la fine degli anni ’60 e l’esordio del decennio successivo: anni di grande fermento. Le ACLI, in cui militavo e lavoravo con grande partecipazione conoscevano i travagli dell’”ipotesi socialista” avanzata da Gabaglio a Vallombrosa e, contemporaneamente, il tentativo di Labor di una disarticolazione del mondo cattolico e democristiano, basato in una prima fase sull’ACPol (Associazione di cultura politica) a cui sarebbe seguito nel 1972 il disastroso esperimento elettorale del MPL (Movimento politico dei lavoratori).
Non è un mistero storiografico se ricordo che l’ipotesi su cui lavoravano Livio Labor e i suoi collaboratori, primo fra tutti Antonio Fontana, fosse quella di promuovere una aggregazione fra la “sinistra lombardiana” del PSI e settori della sinistra DC; tra questi ultimi Labor riteneva che avrebbe avuto maggiore ascolto tra gli esponenti di “Forze nuove”. Erano quindi Carlo Donat-Cattin e il suo “secondo” Franco Marini gli interlocutori privilegiati. E, molto più spesso il “secondo”, piuttosto che il primo era quello che io incrociavo a Torre Argentina insieme ai due “gemelli” Cicchitto e Signorile. Spesso più fuori che dentro la sede dell’ACPol.
Il progetto a cui lavorava Labor si basava sui segnali che, soprattutto dalla periferia, denunciavano insofferenze ed emarginazioni delle istanze più socialmente avanzate che vivevano nella Democrazia Cristiana; ma mentre la corrente di “base” mostrava da sempre una solida coesione interna in vista di battaglie per la leadership complessiva del partito, la corrente dei “sindacalisti” a cui a buon diritto appartenevano sia Donat-Cattin che Marini, sembrava più permeabile a contaminarsi per nuove avventure. D’altro canto proprio Donat-Cattin aveva già dato vita all’esperienza di “Settegiorni” che aveva raccolto intelligenze inquiete e ormai in fuga irreversibile dall’universo democristiano. Emblematica, a questo proposito, ma è solo un esempio, la vicenda di Lidia Menapace espulsa dalla Cattolica.
Ho percepito da sempre Franco Marini come l’incarnazione avanzata, in nessun modo dorotea, di un vecchio slogan: “progresso sì, avventure no”; i suoi silenzi erano eloquenti e il suo impegno prevalente era quello di presidiare soprattutto la CISL e, all’interno di essa il pubblico impiego, mantenendola legata al sistema democristiano, ma, contemporaneamente sottraendola alle lusinghe del “sindacalismo” autonomo e alle sue dinamiche corporative.
Discutemmo aspramente, ad Abano in occasione di un’Assemblea organizzativa dei quadri confederali, credo fosse il 1986, in cui io, segretario nazionale della Fim, cercavo di introdurre in un documento conclusivo una sorta di primazia del sindacalismo dell’industria rispetto a quello del pubblico impiego, trovando in lui nessuna concessione, neppure di cortesia, ma un rifiuto fermo a “declassare” quell’esperienza (che poi era la sua).
Questa “rocciosità” severa del personaggio io l’ho ritrovata nel paesaggio della piana di Navelli in cui Franco Marini era nato, San Pio delle Camere, luogo dove una cooperativa di giovani, accanto alle lenticchie di Santo Stefano di Sessanio, i ceci, le cicerchie, coltiva e commercializza lo zafferano D.O.P. più buono al mondo. Un luogo aspro e severo all’interno del Parco Nazionale dei Monti della Laga che non riesce ancora a nascondere i segni di un’antica e pur dignitosa povertà.
E questo è il motivo per cui, pur se non condividevo le sue scelte, ho sempre avuto grande rispetto per lui; un rispetto che è cresciuto quando, uscito dalla CISL, Marini si è misurato con la politica di partito e con i processi di cui la sua amata DC è stata protagonista: Partito popolare, Margherita, l’Ulivo, Partito Democratico. E con le dinamiche istituzionali che tutto questo ha comportato, anche in termini di responsabilità per lui fino alla carica di Presidente del Senato. E alla mancata elezione alla Presidenza della Repubblica.
Quando ormai era tutto finito, credo gli piacesse tornare a Palazzo Madama, nel centro della Città e girare fra Palazzo Giustiniani e san Luigi de’ Francesi fino a fermarsi a colazione da “Spiriti”, un piccolo bistrot dove l’ho incontrato, l’ultima volta che l’ho visto, e dove anch’io dalla vicina Fondazione Basso amavo fare una sosta veloce ma piacevole.
Anche quell’ultima volta, poche parole e nessuna concessione ai ricordi comuni. Un sorriso cortese e un rapido cenno di intesa.
A fronte dei fiumi di vacuità, di parole inutili, dette o veicolate sui media, questa avarizia di verbalizzazioni, questa sobrietà di gesti interroga, e forse lascia intravedere uno spessore inedito, di uomo consapevole della complessità della realtà, della inerzia che essa offre a tutti i tentativi per modificarla e delle sue molteplici contraddizioni.
*Già Segretario Nazionale della FIM CISL; attualmente vice Presidente della Fondazione Basso