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Valorizzare il lavoro nella Quarta Rivoluzione Industriale

E’ possibile e necessario valorizzare il lavoro e le  persone nella Quarta Rivoluzione Industriale in alleanza con le nuove tecnologie, trasformando i potenziali rischi della digitalizzazione in sfide e opportunità progettuali.

La Quarta Rivoluzione Industriale non è solo tecnologia, ma anche organizzazione e lavoro di nuova concezione.

Non bisogna limitarsi a temere gli effetti sociali della digitalizzazione ma è necessario e possibile progettare e sviluppare insieme tecnologie abilitanti, imprese integrali, organizzazioni a rete flessibili, lavoro professionale, capacità e competenze digitali e sociali. La progettazione deve il più possibile essere svolta insieme agli stackeholders, ai lavoratori e agli utenti, per facilitare le innovazioni e la loro implementazioni, condividendo obiettivi di produttività, sostenibilità, qualità della vita.

Politiche industriali e educative devono essere buone ma soprattutto realizzate davvero per aiutare le imprese e i lavoratori a rafforzarsi in una transizione assai complessa.   

Parole chiave

Quarta Rivoluzione industriale; Politiche industriali; Progettazione integrata di tecnologia organizzazione, lavoro; Professionalizzazione di tutti; Impresa integrale; Persona; Partecipazione; ITS; Lauree professionalizzanti; Formazione digitale; 

1.I rischi e le opportunità della digital transformation: la via della Italy by design

Cresce un ingiustificato panico sugli effetti sociali ed economici della digitalizzazione. E’ possibile valorizzare il lavoro e le persone nella Quarta Rivoluzione Industriale in alleanza con le nuove tecnologie, trasformando i potenziali rischi della digitalizzazione in sfide e opportunità progettuali? Questo lavoro sostiene di sì e illustra il modo con cui farlo. 

Luci ed ombre della digitalizzazione nella produzione e nella vita sono un campo che va affrontato lucidamente, con coraggio , visione e capacità realizzativa.  Con la progettazione e le politiche, come qui di seguito sosteniamo.

I rischi della digitalizzazione segnalati da più parti sono molti: possibilità di centralizzazione del potere economico e tecnologico (winner takes all); qualità dei prodotti/servizi non sostenibili e che non servono i bisogni primari ed evolutivi; disoccupazione tecnologica; polarizzazione professionale; scarsa possibilità di  reimpiego e riqualificazione di chi perderà il lavoro; impoverimento delle aree periferiche; minacce alla privacy; utilizzazione senza controllo dei dati sensibili; prosumers non ricompensati;  inesplicabilità e incontrollabilità degli algoritmi ; crescita delle disuguaglianze e altro.

Le opportunità d’altro canto sono enormi: sviluppare nuovi prodotti e nuovi processi per rispondere a una enorme massa di bisogni insoddisfatti; sostenere la creazione di nuove imprese grandi, medie, piccole; ammodernare la pubblica amministrazione; eliminare lavori pericolosi e ripetitivi e moltiplicare i lavori qualificati; aumentare le conoscenze a disposizioni di tutti; valorizzare territori; favorire l’accesso ai servizi di enormi massa di persone; disintermediare le relazioni fra cittadini e servizi pubblici e privati; e molto altro. 

Non bastano le manovre economiche e giuridiche per favorire l’occupazione: occorre creare lavoro di qualità nelle organizzazioni e nelle professioni. Non ci sono ricette e soluzioni buone per tutti.  Vi è però una strada maestra per contrastare gli effetti sociali e negativi della digitalizzazione: progettare e sviluppare insieme piattaforme integrate di tecnologie abilitanti e di forme innovative di impresa e organizzazione quali imprese integrali, organizzazioni a rete flessibili, organizzazioni agili e a responsabilità distribuita; e su questa base sviluppare ruoli, mestieri, professioni “ibridi” e “aumentati”, capacità e competenze digitali e sociali. Questo sta già avvenendo nelle organizzazioni più evolute: esse devono “donare” i loro paradigmi di successo e la loro diffusione deve crescere esponenzialmente. Questa progettazione e sviluppo deve essere il più possibile svolta insieme agli stakeholders, alle istituzioni, ai lavoratori e agli utenti, per facilitare le innovazioni e la loro implementazione, condividendo obiettivi di produttività, sostenibilità, qualità della vita.

Questo processo progettuale sta avvenendo a macchia di leopardo in Italia. Emerge nelle imprese, in alcune pubbliche amministrazioni, sui territori un mondo di progetti che fluiscono dal basso, una sorta di  Italy by design che potrebbe essere assai potenziata e armonizzata. Parliamo di un processo in atto che faticosamente ma laboriosamente punta ad una visione di una Italia che riposizioni verso l’alto la propria produzione di beni e servizi aumentando la propria quota di fatturato sul mercato mondiale; che sviluppi sistemi di impresa rete e ecosistemi cognitivi che valorizzino l’enorme patrimonio di imprenditoria e beni comuni naturali artistici culturali; che migliori la produttività anche con l’adozione di tecnologie digitali; che esalti  il saper fare italiano e la professionalizzazione di tutti; che potenzi sistemi educativi che lungo tutto l’arco della vita consentano di apprendere competenze tecniche innovative e capacità umane favorendo occupabilità e sviluppo di persone integrali; che disponga di una pubblica amministrazione che offra servizi di qualità a costi sostenibili; che includa e protegga tutte le categorie di popolazione; che riduca le ineguaglianze, che assicuri legalità; che protegga l’ambiente, che veda crescere non solo il PIL ma anche e soprattutto il BES.

A differenza dei programmi in corso in Germania, Francia, Scandinavia oggi i piani di supporto alle imprese si sono concentrati prevalentemente sul rinnovamento dei macchinari; le informazioni sulle innovazioni sono imprecise e scarsamente utilizzabili dagli innovatori; la formazione digitale non ha ancora trovato strade condivise e efficaci; la partecipazione non dispone di modelli operativi e condivisi. Non ci sono ancora politiche industriali e educative capaci di aiutare davvero le imprese e i lavoratori a rafforzarsi nella transizione.

 

2. Le nuove tecnologie digitali sono solo uno dei tre pilastri della quarta rivoluzione industriale

La quarta rivoluzione industriale

La Quarta Rivoluzione Industriale è la nuova travolgente fase delle rivoluzioni industriali e di quello che Adamo Smith chiamava la fonte della ricchezza delle nazioni, ossia il lavoro organizzato. Essa sviluppa in modo inedito la manifattura come punta di diamante dell’ecosistema della conoscenza. Occorre per l’immediato futuro governare innovazioni dell’organizzazione e del lavoro partecipate, inclusive e fortemente integrate con le tecnologie abilitanti. Tutto questo richiede tre livelli di azione in forte reciproco rafforzamento: a) politiche industriali a livello europeo, nazionale e territoriale orientate a favorire cambiamenti strutturali e a implementare nuovi strumenti di intervento, b) progettazione partecipata delle imprese, delle pubbliche amministrazione, delle città, dei territori, c) progettazione tecnologica che nasca da idee avanzate e sostenibili di società, città, organizzazione, lavoro, apprendimento.

Le naked technologies

Le nuove tecnologie digitali sono in esplosivo sviluppo nei sistemi di produzione di beni e servizi: robotica avanzata, tecnologie additive, automazione integrata dei processi produttivi, internet delle cose, interaction design, virtual and augmented reality, messa in rete di attività produttive e progettuali, impiego di big data, cloud computing, intelligenza artificiale e molto altro.

Esse sono alla base di profonde mutazioni del rapporto tra gli esseri umani e la conoscenza che hanno un impatto inedito sui sistemi di produzione dei beni e servizi. Per le attività produttive sono chiamate tecnologie abilitanti perché consentono di disintermediare; gestire e generare conoscenza con una potenza senza precedenti; connettere operazioni nel tempo e nello spazio; aiutare le decisioni; abilitare le organizzazioni e le persone a gestire i processi. Queste tecnologie digitali possono costituire e, alle volte, costituiscono anche il nucleo di nuovi prodotti e servizi personalizzati ma offerti allo stesso costo della produzione di massa. I dati saranno “il nuovo petrolio” se verranno utilizzati entro un contesto tecnologico, organizzativo e professionale che amplia la capacità di ogni decisore. Le tecnologie digitali stanno cambiando la vita delle persone e le persone stesse.

L’illusione tecnocratica, quella per cui la tecnologia da sola, ossia la naked tecnology, le tecnologie nude, porti in sé il ridisegno delle città, delle imprese, delle Pubbliche Amministrazioni ritorna in questo periodo con inquietante insistenza. Le innovazioni tecnologiche portano sempre dentro di sé le idee implicite o esplicite dei tecnologi sulle città, imprese, amministrazioni, lavoro e soprattutto sull’antropologia, sull’accesso alla conoscenza, sulla qualità e della vita delle persone (Landes, Boguslaw, Berman) e una volta impiegate nella realtà danno risultati imprevisti e imprevedibili, talvolta non positivi. Per le tecnologie digitali questo avviene in misura esponenziale perché le “macchine astratte” costituite dalla Intelligenza Artificiale e dai suoi algoritmi sono capaci di apprendere e sono difficilmente decifrabili dai lavoratori e dagli utenti.

Perché possa avere risultati positivi per tutti, la tecnologia da sola non basta e va progettata a partire dai suoi stakeholder e dai loro bisogni e desideri. Occorre progettare e riprogettare consapevolmente e congiuntamente anche gli altri due pilastri della quarta rivoluzione industriale: l’organizzazione e il lavoro, anch’essi soggetti a profonde innovazioni, necessarie perché il potenziale della tecnologia si dispieghi pienamente e positivamente. E tutto questo è troppo importante per essere lasciato nelle mani dei soli tecnologi.

Le aziende dominanti (Amazon, Google, Facebook, ecc.) stanno realizzando delle piattaforme che creano  sistemi complessi in cui si integrano tecnologia, organizzazione e lavoro, ma lo fanno senza prestare adeguata attenzione alla qualità dei servizi che erogano e al miglioramento delle prestazioni delle loro organizzazioni e delle loro persone. In quale misura il loro sistema di obiettivi è condivisibile e condiviso? I loro servizi, la loro organizzazione e il loro lavoro hanno, insieme ad effetti positivi, anche effetti molto negativi che non sono però fatali: una loro diversa configurazione potrebbe far vivere meglio lavoratori e consumatori, potrebbero contribuire di più al benessere comune. Anche loro potrebbero adottare un diverso e migliore joint design prima di andare in crisi, per contraddizioni interne o per vincoli regolatori esterni. Come fu per il taylor fordismo: ma senza aspettare 50 anni.

La digital transformation non può essere solo l’occasione di incrementare l’efficienza dei processi di produzione e distribuzione di beni e servizi. Essa ha il potenziale di :

  • trasformare i mercati in modo che essi siano il luogo in cui ogni utente trova le risposte alle sue personali esigenze di prodotti/servizi, dai bisogni “assoluti” ancora inevasi nel terzo e quarto mondo e in sempre più vaste aree del primo e del secondo a quelli qualificati personalizzati e performanti degli utenti evoluti dei paesi sviluppati;
  • trasformare i prodotti/servizi in modo che essi ottimizzino il loro rendimento dal punto di vista della sostenibilità ambientale
  • integrare processi di progettazione produzione e di business in modo che non ci sia soluzione di continuità tra di loro
  • sviluppare nuovi lavori che ai diversi livelli e con diverse specializzazioni operative concorrono al governo dei processi integrati e alla risposta alle esigenze degli utenti
  • distribuire la creazione di valore nei territori, evitando la sua polarizzazione in aree geografiche, territori e conurbazioni urbane.

 

La rivoluzione digitale e il lavoro: un dilemma, due opzioni e le azioni conseguenti

Economisti ed osservatori davanti al digitale presentano un dilemma fondamentale e hanno formulato in varie forme due opzioni: 

  1. il digitale sostituirà aree sempre più ampie di lavoro umano
  2. il digitale aumenterà il valore delle prestazioni umane 

In realtà il digitale è in grado di favorire entrambe le opzioni in diverse combinazioni.

 

Le implicazioni delle due opzioni sono rispettivamente:

  1. la sostituzione provocherà eliminazione di lavoro e riduzione del valore delle prestazioni lavorative (e probabilmente anche dei prodotti/servizi erogati), con aumento di disoccupazione e di disuguaglianze
  2. l’arricchimento del lavoro provocherà un innalzamento del valore delle prestazioni lavorative (e probabilmente dei prodotti/servizi erogati), con potenziale estensione dell’occupazione e professionalizzazione estesa.

 

La digitalizzazione, in sintesi, può consentire di produrre con meno lavoro umano oppure fare molto di più con lavoro umano di più alta qualità. L’esito della digital transformation per quanto riguarda il lavoro non è quindi già scritto ma dipende da quello che si farà:

a) nelle politiche 

b) nella progettazione.

c) nel management

 

 

 

La natura delle tecnologie digitali: non solo possono automatizzare ma possono anche e soprattutto abilitare

Le discipline della “man/machine task allocation” delle precedenti rivoluzioni industriali che valutavano i compiti da affidare agli uomini oppure alle macchine sono ormai obsolete: le nuove tecnologie digitali sono diverse perché consentono

  • non solo di disegnare processi più efficienti in cui si automatizzano compiti di lavoro, ma anche di favorire sempre di più lo sviluppo di lavori, ruoli, professioni in cui le persone divengano capaci di far fronte alle situazioni in cui si trovano, di interagire con le reti di persone, le macchine e le organizzazioni di cui fanno parte, di creare, di innovare;
  • non solo di disegnare organizzazioni che ottimizzano processi standardizzati, ma di sostenere lo sviluppo di organizzazioni di nuova concezione robuste, agili, aperte all’innovazione, capaci di aderire massimamente alle esigenze degli stakeholder;
  • di sviluppare il modo con cui le persone sono, conoscono, imparano, interagiscono fra loro in un mondo in cui tutti sono connessi con tutti e possono accedere ad una quantità di informazioni che va oltre il numero di atomi del mondo.

E’ l’”augmentation strategy” di cui parla l’ultimo rapporto del World Economic Forum.

 

La gara del lavoro contro le macchine?

Per i pessimisti la race against the machine – la gara degli uomini contro le macchine – è persa: le tecnologie potranno sostituire quasi tutti i compiti umani. McKinsey valuta che il 49% delle ore lavorate potrebbero essere teoricamente computerizzate (11.900 miliardi di dollari di salari). In Europa il saldo fra operai e impiegati esecutivi che perderanno il lavoro da una parte, e nuovi lavori qualificati dall’altra, potrebbe essere di 30% complessivi, con oltre 4 milioni di disoccupati e gravi problemi di riconversione. E’ in atto un vero panico: robocalypse now e jobless society.

 

Ma le cose non devono andare necessariamente così e questo esito ha un alto livello di improbabilità.

La gara contro le macchine infatti è tutt’altro che perduta perché 

  1. molte sono le cose che le macchine non sanno fare, fra cui creazione originale, gestione di conflitti, disegno di istituzioni, organizzazioni e sistemi sociali, manipolazioni fini e moltissimo altro
  2. vi sarà una forte crescita del personale che svilupperà la ricerca e sviluppo e che progetterà, gestirà, manuterrà quelle tecnologie e i sistemi socio-tecnici
  3. le grandi e medie imprese avranno crescente bisogno di lavoro qualificato (operai, artigiani qualificati dotati di competenze digitali)
  4. qualunque lavoro esistente o nuovo può essere valorizzato e progettato congiuntamente alle tecnologie per creare «lavoratori aumentati», “lavori ibridi”
  5. le PMI orientate alla produzione di qualità, che in Italia sono tantissime, anche se digitalizzate, non tenderanno a sostituire i lavori che sono i garanti della loro distintività; la PA che dovrà digitalizzarsi non ridurrà di molto organici perché trasformerà gli impiegati in professionisti per qualificare i propri servizi

ma soprattutto

  1. la torta dell’offerta di beni e servizi può e deve crescere e diversificarsi. Ai bisogni assoluti insoddisfatti della maggioranza della popolazione mondiale del terzo e del quarto mondo, potranno essere proposti prodotti e servizi con costi e qualità senza precedenti: cibo, salute, istruzione, acqua, sviluppo locale, istituzioni civili, potranno così allargare enormemente il perimetro e il volume delle attività produttive. Alla popolazione dei paesi evoluti, in cui la maggior parte della popolazione gode di bisogni assoluti soddisfatti, una quota crescente dopo la crisi è tuttavia al di sotto della linea della povertà o al di sotto della linea del benessere. A questi ultimi possono essere offerti prodotti e servizi per la soddisfazione di bisogni assoluti. A tutti possono essere offerti prodotti e servizi innovativi utili per lo sviluppo delle persone e delle società, minimizzando l’impatto ambientale e senza cadere nell’aumento del consumismo fine solo a se stesso: qualità dell’aria, difesa del suolo, istruzione di qualità, servizi sociali e sanitari, programmi per eliminare i NEET e offrire lavori decenti ai giovani e molto altro. 

 

  1. Non effetti sociali delle tecnologie, ma progettazione congiunta e partecipata

 

Le nuove tecnologie stanno già cambiando e sconvolgendo l’esistente e ancor più lo faranno in futuro: ma solo le politiche e la progettazione disegneranno il nostro futuro. Questo approccio ribalta l’attuale dibattito: passare dagli effetti sociali delle tecnologie alla progettazione congiunta e partecipata. 

 

Questa progettazione

  1. avrà per oggetto tutti i diversi livelli di realtà produttive e sociali, ossia le città, le imprese, le amministrazioni e soprattutto i lavori e i modelli di lavoratori, cittadini, persone che vorremmo avere 
  2. verrà svolta da attori diversi portatori di interessi diversi con modalità partecipative e negoziate
  3. sarà basata su concordati parametri di prosperità economica, sostenibilità e qualità della vita.

 

Saranno possibili tali percorsi innovativi, razionali, concordati, progressivi, umanistici, sostenibili, tesi al futuro invece che basati sulla legge dei più forti che brandendo le tecnologie come armi, generano sistemi che danneggiano il pianeta, le comunità economiche e sociali, i cittadini, i lavoratori? Noi riteniamo fermamente di si.

I rischi del proseguire l’attuale modello di sviluppo basato solo sui rendimenti finanziari e l’attuale dominanza dell’automazione per ottenerli sono molto alti e sono esplicitati non solo dalle autorità regolatorie internazionali e nazionali come l’Agenda 2030, ma anche percepiti in modo crescente dalle imprese e dai territori. La combinazione delle straordinarie possibilità progettuali della quarta rivoluzione industriale e della magnitudo dei rischi, fa sì che nessuno per quanto molto potente possa pensare di agire da solo.

Mentre è vivo il dibattito sulla decrescita e sul superamento capitalismo con acute controversie, è frattanto possibile modificare in modo positivo l’attuale modello di sviluppo attraverso la regolazione nazionale e internazionale e la progettazione e realizzazione di nuovi paradigmi di organizzazione e di lavoro, la partecipazione e l’apprendimento delle persone, la diffusione dei loro modelli scientifici, culturali e operativi. Alcuni esempi.

 

La progettazione delle tecnologie people centred

 

La progettazione congiunta che noi vogliamo sviluppare deve rendere evidente nei suoi discorsi e nei fatti che è conveniente sviluppare un’innovazione fatta di tecnologie dell’informazione qualitativamente diverse da quelle che pretendono di essere migliori di noi. Anche le tecnologie di punta come l’intelligenza artificiale possono infatti creare sistemi che non puntano a sostituire il lavoro umano, ma ad arricchirlo, anzi sono la condizione perché questo arricchimento coinvolga una fascia di lavori sempre più ampia. 

 

La progettazione congiunta di organizzazione, lavoro e tecnologia non si limita, infatti, a guidare l’adozione di una tecnologia, ma la progetta in modo che svolga al meglio il compito di arricchire le prestazioni di persone che devono governare situazioni ad alta complessità, innovare, dare senso alle cose, creare situazioni di benessere e equità per le persone e la società. Servono in questi casi sistemi, che usano la loro superiore capacità di elaborare masse immense di informazioni, per dare ad ogni utente in ogni diversa situazione risposte diverse che non ne snaturano l’identità e l’esperienza ma lo aiutano ad evitare errori e a far tesoro delle esperienze sue e di altri.

Sistemi di questo genere possono adottare tutte le tecniche, anche quelle più avanzate, dell’intelligenza artificiale, ma devono essere progettati in modo diverso da quelli che oggi vanno per la maggiore, che, come dicevamo più sopra, si pongono l’obiettivo di trovare la soluzione ottimale ad un problema. Essi invece devono sviluppare due capacità: 

  • da una parte essere capaci di filtrare ed elaborare i big data, così da fornire ad ogni singolo utente le informazioni che gli servono
  • dall’altra interpretare l‘esperienza di ogni singolo utente per capire di che cosa può avere bisogno.

 E’ chiaro che in questo caso la capacità di apprendere di questi sistemi ha un senso ben diverso da quello che gli attribuisce l’intelligenza artificiale mainstream: non diventare sempre più intelligente per avvicinarsi sempre più alla soluzione ottima, ma adeguare costantemente il proprio operato all’evoluzione dell’esperienza dei suoi utenti.

 

Tali sistemi non possono che essere pensati partendo, nella loro progettazione, dall’osservazione dei comportamenti dei loro utenti e dei loro stakeholder e ridisegnando la loro interazione con il digitale che le nuove tecnologie rendono possibile. 

 

In sintesi che cosa è progettazione delle tecnologie people centred?

  1. Sviluppare sistemi che contestualizzino, personalizzino, ascoltino, facciano tesoro delle esperienze di relazione con il cliente eterno o interno ad una organizzazione.
  2. Sviluppare sistemi che integrano le conoscenze e potenziano le capacità degli uomini per affrontare compiti difficili o impossibili, non che gareggino ad essere più intelligenti degli uomini. Il servizio di queste tecnologie non si limita al singolo ma si estende  a comunità anche molto allargate che  collaborano nelle loro attività e nel continuo aggiornamento delle loro competenze e pratiche professionali.
  3. Sviluppare sistemi che riconoscono e valorizzano le differenze fra le persone e tra le loro esperienze e che creano condizioni di inclusione e di qualità della vita, tenendo conto dei diversi punti di partenza delle persone, dei  gruppi, delle comunità: non standardizzazione ma presa in carico della individualità di ciascuno.

 

Nuove organizzazioni

Anche le organizzazioni si stanno innovando profondamente da tempo e ora, sotto la spinta del digitale, stanno virando verso nuovi modelli flessibili, sostenibili, antropocentrici.

  • Strategie. Nuovi business model basati su prodotti e servizi utili centrati sui singoli clienti o classi di clienti o progettati dai clienti stessi.
  • Macro organizzazioni. Reti organizzative planetarie; piattaforme industriali; piattaforme digitali; ecosistemi cognitivi, che valorizzino tutti i “nodi” di queste organizzazioni complesse (aziende, istituzioni, professioni).
  • Funzionamento organizzativo. Lean organization animate da organizzazioni organiche e unità organizzative flessibili, basate su sistemi di coordinamento e controllo non gerarchici e su potenti processi informativi e ideativi. In una parola Organizzazioni evolutive e flessibili come piccole società sane e performanti.
  • Impresa integrale. Nuova cultura ed etica dell’impresa, che porti a costituire imprese capaci di equilibrare efficacia, efficienza, sostenibilità, qualità della vita.

 

Una nuova idea di lavoro dopo il taylorismo

Una nuova idea di lavoro, ben diversa dal lavoro tayloristico dei gigajob o dei lavori super specialistici transitori, già si concretizza in molti casi sia nel lavoro altamente qualificato (knowledge worker) che nel lavoro semplice, entrambi basati su conoscenza, responsabilità dei risultati e competenze tecniche e sociali. Sono lavori che suscitano impegno e passione. Lavori fatti di relazioni positive tra le persone e le macchine. 

Lavori che includano anche il «workplace within», ossia il posto di lavoro che è dentro le persone: la loro formazione, le loro storie lavorative e personali, le loro aspirazioni e potenzialità. Lavori con confini mobili con il tempo di vita, entrambi caratterizzati da una buona/alta qualità.

 

Le esperienze in corso

Accanto a situazioni di disoccupazione tecnologica incontrollata e a fenomeni di degrado del lavoro, aumentano in Italia forme di impresa e di organizzazione innovative e di professionalizzazione del lavoro che ottengono risultati sorprendenti di innovazione strategica, produttività, qualità della vita di lavoro, sostenibilità ambientale. 

Molte di queste esperienze sono condotte da grandi e medie imprese che hanno sviluppato un modello di Italian Way of Doing Industry, centrato su simbiosi con il mercato, internazionalizzazione, alto livello tecnologico, cura delle risorse umane, governance condivisa, come rilevato da Butera e De Michelis. E’ il caso di imprese diventate grandissime come Ferrero, Luxottica, Zambon. E’ il caso di imprese medio-grandi internazionali come Illy, Cantine Ferrari, Frau, Technogym, IMA, Cucinelli e altre. E’ il caso anche di imprese medie come Bonfiglioli, Arduino, Loccioni che hanno sviluppato paradigmi industriali originalissimi. Le imprese eccellenti, di cui le poche citate sono solo alcune fra tantissime, sono portatrici di un modello di valenza internazionale ma poco noto: esse sono ancora poche e le loro esperienze non si trasferiscono alla grande massa di Piccole e Medie imprese di cui è fatto in prevalenza il tessuto industriale italiano.

Molte esperienze hanno il carattere di programmi pubblico/privato a dimensione territoriale. Per esempio il “Patto per il Lavoro della Regione Emilia Romagna”, che mette insieme tutti gli stakeholder del territorio concordando un obiettivo comune quantificato, quale la riduzione del tasso di disoccupazione dall’11 al 5%.

Un esempio ancora è il “Programma Manifattura Milano”, in cui azioni di politiche pubbliche e di innovazione culturale promosse dal Comune puntano a rendere possibile la reindustrializzazione della grande città attraverso forme di impresa, lab, community innovative che adottano tecnologie digitali e valorizzano lavori artigiani e intellettuali vecchi e nuovi.

Molte di queste esperienze spesso sono condotte con processi di partecipazione delle persone, delle istituzioni locali, delle scuole e talvolta del sindacato. Lo testimoniano le numerose ricerche recentemente pubblicate da Micelli, Granelli, Magone e Mazali, Segantini, Bartezzaghi, Pero, Ponzellini, Seghezzi, Secchi e Rossi, Beltrametti ed altri.

 

  1. Alcune proposte: progettazione, politiche, movimento culturale

 

La progettazione

Su questi argomenti, e secondo le linee qui accennate, abbiamo sviluppato alcune riflessioni e proposte per la discussione e per l’azione. 


La radice di queste proposte  è che rimettere al centro il lavoro non può essere una affermazione ideologica ma richiede una progettazione dei contenuti dei ruoli , dei mestieri, delle professioni e delle relative competenze fatta in modo integrato con le tecnologie e con l’organizzazione e specifica ai diversi contesti. Questo a sua volta richiede una collaborazione fra imprese, istituzioni, pubbliche amministrazioni, scuole, sindacati, media.

 

1. La prima proposta è rilanciare il job design e re-design of the work itself, ossia la progettazione e riprogettazione dei lavori, nei loro contenuti, nel loro valore, nelle loro qualità, delle loro identità. Ciò sia nei contesti ad alta tecnologia (i così detti nuovi lavori) sia in quelli tradizionali. Lavori che creino valore economico, sociale e culturale. Lavori “ibridi” che si avvalgano delle capacità abilitanti delle tecnologie: dai robot collaborativi che sono di supporto ai “lavoratori aumentati” al sistema di IA Watson che aiuta i medici a fare diagnosi e concentrarsi sulla cura del paziente. Lavori che suscitino impegno e passione. Lavori basati su conoscenza, responsabilità dei risultati, cura dei bisogni dei “clienti” esterni o interni, padronanza e controllo dei processi, cooperazione con le persone e con la tecnologia, competenze tecniche e sociali. Lavori con accettabili confini mobili con il tempo di vita, tali da garantire un’alta qualità di entrambi. Lavori dipendenti e autonomi che abbiano simili protezioni giuridiche. Lavori che godano di una accettabile qualità della vita di lavoro.

Per ottenere ciò occorre progettare ruoli, mestieri e professioni. L’affermata centralità delle persone si ottiene offrendo alle persone ruoli basati su responsabilità, controllo e competenze; ruoli aperti/evolutivi come copioni che le persone interpretino e animino come ruoli agiti in base alle loro competenze, abilità, impegno. Ruoli inclusi in mestieri e professioni “a banda larga” che rappresentino un “centro di gravità” entro il continuo mutamento. Ruoli e professioni entro un modello di organizzazione e di lavoro socializzato basato sul Cooperazione autoregolata, Condivisione delle conoscenza, Comunicazione estesa, Comunità professionale performante, lavoro e organizzazioni ben diverse da quelle del taylor-fordismo: il modello 4C. Progettare i lavori vuol dire configurare, nella concretezza e varietà dei processi produttivi e nella realtà della vita delle persone, idee di lavoro valide, solide, decenti che siano componenti di un modello di servizio/prodotto e di un modello di società, che offrano dignità, identità e cittadinanza, come per esempio lo furono i lavori artigiani nel rinascimento, le professioni nell’800, lo stesso lavoro di fabbrica del ‘900. 

Si propone in sintesi di accelerare un percorso di valorizzazione strutturale del lavoro umano, già in atto nei contesti più virtuosi, puntando a una “professionalizzazione di tutti” e non solo di una élite. Professionalizzazione vuol dire non solo l’aumento di complessità e di valore dei ruoli e delle professioni e delle relative competenze ad ogni livello di qualificazione (da precisare e sviluppare nel caso di un progettista di tecnologie e da riprogettare radicalmente e arricchire nei casi di un operaio alla catena di montaggio e in un addetto alle casse di un supermercato, che verranno solo minimamente sostituiti dalle macchine) ma anche il rafforzamento della dignità, riconoscibilità sociale e ruolo sociale di ogni lavoratore in ogni forma di rapporto di lavoro, sia di quello autonomo che di quello con un rapporto di lavoro “subordinato”. 

Come scrive Giovanni Mari, quindi si punta ad una libertà nel lavoro e non alla libertà dal lavoro. La professionalizzazione di tutti contiene la possibilità di acquisire una libertà nel lavoro, che per le persone consiste nel disporre di competenze e capacità di controllo sui processi di lavoro (locus of control) e sia nel padroneggiare la comprensione dello “scopo” del lavoro ottenuto dalla opera propria, di altre persone, delle tecnologie. 

La regolazione giuridica e contrattuale del lavoro è ovviamente molto importante perché attiene ai diritti e alla equità ma essa genera occupazione solo a fronte della quella valorizzazione del “lavoro in sé”, qualificato e non, subordinato e non che proponiamo. 

Occorre d’altra parte condurre il processo di progettazione del lavoro al di fuori delle gabbie prescrittive e concettuali ottocentesche delle mansioni, delle posizioni, dei livelli, delle declaratorie che non descrivono il lavoro ma ne definiscono solo le condizioni per la remunerazione e la protezione di diritti. 

La formazione iniziale e continua delle competenze hard e soft è importante come attributo di diverse idee di lavoro. Ma in assenza di idee progettuali di lavori nuovi e antichi, la scorciatoia oggi è di puntare solo su una delle componenti, dei requisiti del lavoro: le singole competenze. Il lavoro del futuro non potrà essere una incognita gestita solo attraverso l’accumulo di competenze molecolari che non si agglutinano mai in una idea di lavoro.

2. La seconda proposta è valorizzare e supportare la progettazione dell’impresa e dell’organizzazione, il business and organization design. Le grandi imprese che sono andate più avanti nella digital transformation hanno sviluppato organizzazioni innovative avvalendosi di tutta l’esperienza di lean management centrate sui processi ma anche rendendole agili, aperte, parzialmente self-managed. Le piattaforme informatiche che hanno sostenuto la nascita e lo sviluppo dei giganti del web contengono nuove forme potenti e inquietanti di business model, di impresa e di organizzazione con cui bisogna fare i conti. Le imprese dell’Italian Way of Doing Industry, fra cui quelle citate, hanno sviluppato modelli di impresa e organizzazione originali rispetto a quelli nordamericani. Le imprese hanno avuto maggiori opportunità di crescere quando i loro business model si sono basati su prodotti e servizi centrati sui singoli clienti o specifiche classi di clienti, crescendo insieme ai loro mercati, andando oltre all’economia di scala. Abbandonando la centralizzazione e verticalizzazione dei tradizionali “castelli” organizzativi, le nuove reti d’impresa e le imprese rete hanno fatto diventare grandi le piccole e medie imprese aggregandole entro catene del valore e processi planetari per mezzo di sistemi di connessioni tecnologiche, economiche, culturali. Gli “ecosistemi sociali dell’innovazione” sono stati spesso nuovi modelli di relazioni sociali e professionali che generano innovazione, come nel caso irraggiungibile della Silicon Valley e in quelli invece raggiungibili dei nuovi distretti allargati italiani, dell’area di Agrate, della Motor Valley Emiliana. Le microstrutture delle aziende che hanno avuto successo hanno abbandonato i reparti e gli uffici divisi tradizionalmente in base al controllo gerarchico esercitabile e ne hanno creato di nuovi basati su processi formalizzati, supportati da tecnologie ICT, ben controllati e continuamente migliorati affidati a team e comunità di pratica caratterizzati da modelli 4C (cooperazione autoregolata, condivisione di conoscenze, comunicazione planetaria, comunità). Queste forme organizzative non sono più burocrazie industriali ma forme organizzate e flessibili di nuova concezione composte da strati organizzativi coesistenti, di cui quelli formali (organigrammi, mansionari, procedure) sono solo lo “zoccolo duro” che sostiene altri strati basati su regolazione sociale (team dinamici, sistema professionale, knowledge management, comunità di pratica, cultura organizzativa, modelli di leadership, etc.). 

Nelle singole aziende questi modelli funzionano ma essi non hanno la robustezza e riproducibilità che nel passato aveva avuto l’organizzazione taylor-fordista: la fabbrica di Ford, il lean management di Toyota sono stati riprodotti in tutto il mondo. Spesso l’organizzazione oggi è invece solo un’area specifica applicabile solo per una specifica organizzazione oppure il terreno delle parole alla moda (per es agile o self management). 

Fondamentale è la nuova frontiera dei valori e dei parametri che guidano la progettazione: non basta aggiungere la responsabilità sociale dell’impresa ad un percorso dominato da logiche puramente finanziarie ed economiche. Occorre ed è possibile invece sviluppare ”l’impresa integrale” che persegue insieme economicità, sostenibilità, socialità: questo modello non è solo quello del caso antico della Olivetti di Adriano Olivetti, ma oggi ancora in Italia è il caso di Zambon, Illy, Loccioni, HFarm, Cucinelli e un gran numero di altre. 

Nuovi modelli di impresa e nuova scienza organizzativa, per virtù delle imprese dell’Italian Way, abbandonano così Max Weber e Ford. Nuovi metodi e percorsi stanno emergendo dovranno poter essere adottati da tutti, come è avvenuto per il taylor-fordismo e per la lean production.

3. La terza proposta è sviluppare e diffondere metodologie di progettazione socio tecnica che sappiano coniugare, nelle condizioni oggi possibili, innovazione tecnologica e organizzativa e sviluppo delle persone, non solo per massimizzare il PIL ma anche il Bes (Benessere equo e sostenibile) (Giovannini, cit). 

4. La quarta proposta è di rilanciare la formazione manageriale dei manager privati e pubblici, dei dirigenti sindacali, e degli imprenditori. Occorre rilanciare una nuova scienza del management e della governance dell’impresa , delle Pubblica Amministrazione, delle organizzazioni no profit in un percorso di collaborazione fra istituzioni scolastiche (università e scuole superiori) e imprese, , con teoria e metodi formativi diversi da quelli tradizionali . Il ruolo degli imprenditori e del management in questo percorso è cruciale: architettare, promuovere, sostenere l’innovazione; perseguire in modo congiunto obiettivi economici di medio e lungo periodo, obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale, obiettivi di supporto alla qualità della vita di lavoro, proteggere l’impresa dalle diseconomie e dalle minacce esterne; attivare e mantenere percorsi di dialogo con tutti gli stakeholder tutto ciò richiede lo sviluppo di un “management ambidestro”, capace cioè insieme di gestione quotidiana accurata e di innovazione prospettica. Nuove forme di governance sostanziale dell’impresa, soprattutto quella di minori dimensioni, che attragga risorse professionali e finanziarie per lo sviluppo dell’impresa che colga la quarta rivoluzione industriale.

5. La quinta proposta è attivare cantieri di partecipazione progettuale. E’ l’imprenditore, il manager, il dirigente pubblico che deve assumersi il rischio di, indicare la direzione, avere l’ultima parola. Ma la nuova situazione è che nessuno sa tutto quello che è necessario per affrontare questo enorme impegno progettuale che richiede in misura uguale scienza e applicazione, scienza e arte, creatività e rigore. None of us is smart as all of us. La progettazione non si esaurisce nelle progettazione integrata delle dimensioni fondative dei “tre pilastri” ma la vera partita sarà la realizzazione e la innovazione continua, una battaglia quotidiana nei processi realizzativi, nel controllo delle varianze e dei dettagli del diavolo che accompagnano l’innovazione: progettare un futuro che è già qui, un futuro accorciato. Quindi è necessario mobilitare tutte le conoscenze e competenze di scienziati, di lavoratori qualificati e meno qualificati, di consumatori in questo corale processo continuo. Quindi non solo gli scienziati e i tecnici sono partner naturale dell’innovazione ma anche i lavoratori ordinari, i consumatori, i cittadini: lo dimostra il successo del modello del miglioramento continuo della Toyota o lo sviluppo dei prosumer di Tripadvisor.

La partecipazione delle persone nel vivo dei processi di innovazione è d’altra parte il più potente sistema di apprendimento e di crescita professionale e civile e prepara le persone ad affrontare i continui cambiamenti. Il cambiamento continuo richiede la valorizzazione delle esperienze e dei punti di vista di chi fa quotidianamente l’esperienza della produzione e del consumo. 

La partecipazione progettuale che coinvolge le persone è necessaria ma non sufficiente: deve coinvolgere anche le istituzioni e i sindacati, senza ledere le prerogative della proprietà e del management. In primo luogo gli Enti di Governo centrale e locale, che possono e devono promuovere potenti strumenti di facilitazione e sostegno dell’innovazione. Il programma Industria 4.0 o il Patto per il Lavoro della Regione Emilia Romagna, il Programma Manifatture Milano citati non sono solo politiche che hanno reso disponibili risorse, ma hanno costituito ecosistemi cognitivi e “macro frame” progettuali che stanno cambiando il modo di pensare all’innovazione. 

In secondo luogo le istituzioni formative. Le università e le scuole della quarta rivoluzione industriale progettano insieme alle imprese e alle amministrazioni non solo i curricula e le aule ma anche i new job e i new skill: è il caso delle Fachhochschule tedesche che hanno 880.000 allievi (contro i 9.000 italiani dell’ITS).

Inoltre i sindacati italiani nel passato non sono entrati nella fase della progettazione dell’organizzazione del lavoro come era avvenuto nei modelli di Industrial Democracy scandinava o di Mitbestimmung tedesca. Oggi la tendenza è quella di trovare forme per distinguere progettazione e contrattazione e di contribuire alla prima nell’interesse di lungo periodo degli occupati e degli occupabili. Il sindacato può essere un soggetto di innovazione se si prende carico di rappresentare i bisogni dei lavoratori di oggi e di domani, dei senior e di giovani, dei “superqualificati” e dei “senza mestiere”. Se i nuovi sistemi dovranno essere antropocentrici come molti dicono, quale modello di umano, quali bisogni, quale qualità dei contributi, quale qualità di lavoro e di vita, dovranno essere al centro di una progettazione che deve costruire qualcosa che ancora non c’è? Sarà questa la missione del sindacato? 

Nuovi paradigmi di lavoro e di organizzazione, nuova sociotecnica, procedure di partecipazione sono i cardini di nuove modalità con cui gli stakeholder della Quarta Rivoluzione Industriale prenderanno parte a progettare le imprese, le pubbliche amministrazioni, le città, i territori, le piattaforme.

 

Le politiche

Un ruolo centrale rimane allo Stato e ai corpi intermedi nello sviluppare le politiche che favoriscano quanto abbiamo illustrato. 

Innanzitutto le politiche industriali come quella iniziata nel programma Industria 4.0 che si è concentrata a far partire gli investimenti tecnologici: ora si tratta di sostenere l’innovazione nella progettazione dell’organizzazione e del lavoro, soprattutto nelle Piccole Medie Imprese. Il sostegno agli esperimenti di innovazione organizzativa e professionale ha precedenti importanti in Giappone (con un ruolo centrale del Juse, nello studio e nella diffusione di quello che gli americani chiameranno lean management), in Germania (con il programma Humanisierung der Arbeit che mobilitò l’accademia e la consulenza a supporto di progetti di cambiamento organizzativo e professionale concordati fa imprese e sindacati).

Fondamentali le politiche di gestione della transizione: le persone che perderanno il lavoro non saranno per lo più quelle preparate per i nuovi lavori che nasceranno. Sapienti politiche di formazione, ricollocazione, difesa del reddito saranno necessarie. E soprattutto dovranno essere rapidamente implementate.

Altre linee di politiche pubbliche andranno attivate fra cui: potenziamento della ricerca scientifica e tecnologica; investimenti tecnologici infrastrutturali; politiche fiscali in materia digitale (per es web, digital tax); interventi selettivi sull’orario di lavoro; forte potenziamento di investimenti nella istruzione e formazione tecnica; defiscalizzazione del lavoro giovanile e altro.

Esistono proposte di politiche societarie che dovrebbero ridefinire il modello di società e di produzione. Le correnti che propugnano l’economia circolare prevedono l’estensione della vita dei prodotti, la produzione di beni di lunga durata, le attività di ricondizionamento e la riduzione della produzione di rifiuti, l’importanza di vendere servizi piuttosto che prodotti. “Per esempio la proposta di Domenico De Masi di ridurre l’orario di lavoro ed elevare la produttività con un uso estensivo dell’automazione, sviluppando il lavoro e l’ozio creativo e offrendo a tutti un reddito universale.

Ma queste politiche stanno alla organizzazione e al lavoro di produzione di beni e servizi – la primaria generatrice di valore e di lavoro- come il calore del sole sta al germogliare dei semi piantati nel terreno o il calore della chioccia o dell’incubatore stanno allo schiudersi dell’uovo: se la biologia del seme o la fecondazione dell’uovo non sono adeguati, non nascerà la pianta e non nascerà il pulcino o nasceranno deformi. Si ribadisce vigorosamente, nella prospettiva di questo nostro documento, la centralità della progettazione dell’organizzazione e del lavoro nella produttività e nella qualità della vita di lavoro.

 

 

Un movimento culturale 

Tutto quello che abbiamo evocato è di tale magnitudo da sporgere largamente su quello che i singoli soggetti e lo Stato possono fare. Occorre che si sviluppi ora un vero e proprio movimento culturale che faccia della valorizzazione del lavoro, della innovazione di tecnologia, organizzazione e lavoro integrata che abbia al centro l’uomo di cui abbiamo finora parlato, un terreno condiviso di riflessione, sperimentazione, esperienza aperto al confronto con le idee che nascono ovunque nel mondo. E soprattutto che affermi il primato dell’esserci riusciti su quello di averlo enunciato o di averlo tentato.

La proposta di rimettere davvero al centro il lavoro come fonte di sicurezza, dignità, democrazia viene da tante parti. La voce più forte che colloca il tema della promozione del lavoro entro il quadro di una evoluzione del sistema economico e della protezione dell’ecosistema fisico e sociale viene da Papa Francesco nella sua enciclica Laudato sì e recentemente ribadito in una icastica intervista . 

Il dibattito e le azioni sulla quarta rivoluzione industriale aprono temi e scelte che riguardano l’orientamento culturale e politico di tutti e si intrecciano con altri grandi temi, interessi, posizioni, culture. L’orientamento progettuale che abbiamo proposto non evita queste grandi questioni ma le inquadra entro percorsi dove prevalgono i dati, i fatti, i progetti, i risultati e la partecipazione.

Un movimento culturale che si prenda in carico seriamente il tema della comunicazione: tv, cinema, social media, giornali, pubblicazioni devono essere in grado di diffondere concetti, informazioni, casi a un largo pubblico e ai giovani. Oggi non lo fanno.

Progettare cosa, con quale fine? Nel processo di progettazione, oltre alle opzioni sulle alternative del prodotto o servizio specifico, del progetto specifico, sono contenute spesso le grandi opzioni sul modello di economia e società, dal modello di crescita indefinita a quello dell’economia circolare. «Allargare la torta» come abbiamo detto, richiede opzioni rispetto alle tipologie di bisogni: soddisfare bisogni superflui dettati dal consumismo oppure piuttosto sforzarsi di offrire prodotti e servizi per soddisfare bisogni assoluti o evolutivi della maggior parte degli abitanti del pianeta? 

Il tema della diseguaglianza è cruciale, ora che l’egemonia della finanza sull’economia si sta accentuando. 

Le opzioni culturali e etiche pesano: progettare tecnologia, organizzazione, lavoro in una visione e finalità “Trumpiana” non è lo stesso che farlo in una visione e finalità, per esempio “Francescana” (in riferimento alla enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco).

Le problematiche di sostenibilità ambientale richiedono di definire e negoziare parametri di sostenibilità, che sono sia materia di analisi scientifica e sia di controversie politico-ideologiche. Un nuovo rapporto uomo-ambiente, in cui lo sviluppo socioeconomico – così come definito dai Sustainable Development Goals approvati all’unanimità dall’assemblea generale dell’ONU – avvenga all’interno dei Planetary Boundaries, ossia quei limiti fisici ed ecosistemici che non devono essere valicati affinché questo sviluppo possa avere luogo (quali, giusto per citare quelli purtroppo già oltrepassati: il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la modifica del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo e i cambiamenti nell’uso del suolo).

Altri parametri di progettazione riguardano la qualità della vita dei lavoratori e dei cittadini. Diverse, e non riconducibili le une alle altre, sono le dimensioni dell’integrità della vita: integrità della vita fisica (infortuni, nocività, ergonomia fisica, salute); integrità cognitiva (abilitazione a portare sul lavoratore il locus of control, stress and strain; integrità professionale (dignità e rispetto; responsabilità e visibilità sui risultati; retribuzione; sviluppo, formazione continua); integrità della vita sociale (work life balance); integrità del sé (identità personale e professionale, idea del futuro). Il lavoro diventa così generatore non solo di soddisfazioni di bisogni legittimi ma fonte di costruzione di persone integrali, di autocoscienza, di socialità e di riconoscimento sociale. 

 

 

Il motore della  valorizzazione del  lavoro: un nuovo paradigma di Impresa 4.0 ?  

Le azioni che abbiamo indicato in sintesi si orientano verso caratteristiche dell’Impresa 4.0 che si allontanano molto dai paradigmi tradizionali che in particolare tendono a 

  • sviluppare organizzazioni e forme di lavoro di nuova generazione insieme alle tecnologie digitali
  • promuovere la professionalizzazione di tutti, con forme di lavoro a più alto livello di creatività, di produttività, di valore per il cliente e con migliore qualità della vita di lavoro
  • generare imprese integrali che ottimizzano insieme economicità e sostenibilità ambientale e sociale
  • ristrutturare radicalmente i sistemi per la formazione continua, il retraining e i servizi per l’impiego
  • reinventare la scuola tecnica nel che cosa e nel come
  • promuovere la formazione continua per tutti sulle competenze digitali e per imparare a imparare e a cambiare
  • e soprattutto imparare ad “allargare la torta”, creando nuovi mercati e nuovi prodotti/servizi per i bisogni assoluti e per quelli di qualità

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