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Vincenzo Musacchio: “Verità e giustizia tradite”*

Il 19 luglio scorso sono passati trentatré anni esatti dalla strage di via D’Amelio, l’attentato di stampo mafioso in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Se dovesse raccontare a un ragazzo, che non ha vissuto quel periodo storico, chi fu il giudice Paolo Borsellino, cosa gli direbbe?
Fu un magistrato ligio al suo ruolo, simbolo di una lotta alla mafia condotta con la schiena dritta e vittima, insieme alla sua scorta, di una strage di cui si sa ancora poco degli esecutori materiali e nulla dei mandanti. Assieme a Giovanni Falcone ha introdotto nuove modalità d’indagine sulla criminalità organizzata. Fece parte del pool antimafia, ideato da Rocco Chinnici e diretto poi da Antonino Caponnetto, ottenendo risultati importantissimi tra i quali il maxiprocesso di Palermo. Ai miei studenti ricordo sempre la sua rettitudine morale, il suo coraggio e il suo grande senso del dovere nei confronti dello Stato e dei cittadini.

Tra i più bei pensieri che Borsellino ci lascia, vi è sicuramente la fiducia nelle giovani generazioni che riteneva “le più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. A distanza di oltre trent’anni, questo suo pensiero è ancora valido?
Il suo pensiero è ancora attuale. Sulla capacità dei giovani di promuovere il cambiamento fu, a ragione, sempre ottimista. Devo, tuttavia, riconoscere che la mia generazione, talvolta, non ha dato un buon esempio. Se i giovani fossero coesi nel contrastare la mafiosità, le organizzazioni criminali non avrebbero futuro. Quando li incontro nelle scuole, colgo il loro bisogno di conoscere per promuovere il cambiamento. Come Borsellino, dunque, anch’io ripongo molta fiducia in loro e sono convinto che sapranno costruire un mondo migliore.

L’agenda rossa di Borsellino, sparita il giorno della strage, sarà mai ritrovata?
Paolo Borsellino aveva con sé l’agenda rossa il giorno della strage ed era nella sua borsa. Questo dato non può essere messo in dubbio poiché esistono diverse testimonianze dei suoi familiari che lo confermano. Sul suo ritrovamento, tuttavia, resto molto scettico. Comunque, ad alcuni interrogativi credo sia opportuno rispondere per dovere di verità e giustizia, sia nei confronti delle vittime sia dei cittadini. Bisognerebbe far luce su chi ha portato via l’agenda, se è stata distrutta o semplicemente nascosta e, infine, se è stata consegnata a qualcuno e a chi nello specifico.

Cosa c’era scritto in quell’agenda?
Note importanti e non semplici appunti di vita. Se su quell’agenda non vi fosse stato scritto nulla d’importante, sarebbe ricomparsa anche solo per dissipare i sospetti sui tanti punti oscuri di quel momento storico che evidentemente non possono essere disvelati. Ritengo che essa, tuttora, rappresenti una grande arma di ricatto.

Lei crede che il giudice Borsellino pensasse di morire dopo la morte del suo fraterno amico Giovanni Falcone?
Antonino Caponnetto mi raccontò più volte che, dopo la strage di Capaci, Borsellino sapeva bene di essere nel mirino della mafia. Mi riferì persino che alcuni giorni prima del suo attentato aveva saputo con certezza che a Palermo era giunto il tritolo a lui riservato e poiché voleva essere pronto ad affrontare il grande passo in qualsiasi momento, telefonò al suo padre confessore per ricevere la comunione. Borsellino, dunque, ha sempre avuto ben chiaro il prezzo che avrebbe pagato per la sua lotta alla mafia.

Perché ucciderlo solo dopo pochi giorni dalla strage di Capaci?
Come Falcone, anche Borsellino aveva scoperto l’esistenza di legami tra mafia e pezzi deviati del nostro sistema politico, economico e finanziario. I dati da lui acquisiti lo fecero sentire talmente in pericolo da confidare alla moglie che sarebbero stati i mafiosi a ucciderlo materialmente, ma altri a decidere la sua morte. Pochi giorni fa, proprio su questo suo pensiero, a Caltanissetta il Gip ha interrotto la camera di consiglio su richiesta della Procura per valutare nuove prove emerse sui mandanti esterni dopo il ritrovamento di un verbale di Paolo Borsellino sulla cd. pista nera. Questi fatti andrebbero approfonditi nel loro insieme perché potrebbero aprire un spiraglio per trovare la soluzione a un rebus che dura da ben trentatré anni!

Chi sono gli “altri”?
Sono coloro che decisero la sua morte: chi “trattò” con la mafia, chi sottrasse dal luogo della strage l’agenda rossa, chi isolò e ostacolò Borsellino al punto da indurlo a definire il Palazzo di Giustizia di Palermo un covo di vipere, chi alimentò equivoci e avallò depistaggi mai visti nella storia della Repubblica Italiana.

Quindi, i mandanti l’hanno fatta franca?
I mandanti eccellenti non soltanto l’hanno fatta franca, ma hanno persino raggiunto lo scopo di eliminare i due magistrati che potevano mettere in crisi il nuovo sistema politico istituzionale mafioso. Lo stesso Falcone, a proposito dell’attentato all’Addaura, parlò di “menti raffinatissime che orientavano certe azioni della mafia” e ne era a tal punto convinto da lasciare postumo un indirizzo investigativo da seguire per le indagini sul suo assassinio. Nello specifico egli afferma: “Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi… Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vuole capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”. La mafia, dunque, sembrerebbe aver avuto solo il ruolo di braccio armato mentre i mandanti furono esterni all’organizzazione e ancora oggi, purtroppo, restano impuniti.

Avremo mai la verità su queste morti?

Non per ora, ma questo non può e non deve spingere ad arrendersi. Dobbiamo continuare a lottare e reclamare i nomi di chi ha barbaramente determinato le morti di due grandi magistrati. Nello Stato democratico a cui noi dovremmo anelare, Paolo Borsellino, pochi giorni dopo la morte di Falcone, avrebbe testimoniato a Caltanissetta e la sua agenda rossa sarebbe stata consegnata immediatamente ai magistrati inquirenti e, invece, nella realtà politica e istituzionale che connota i nostri giorni regna ancora un silenzio assordante sulle responsabilità e sui continui depistaggi. Ho sempre pensato che se lo Stato avesse voluto veramente ricercare le tante verità negate alle vittime di mafia, impegnando le migliori risorse umane e legislative avremmo avuto già avuto verità e giustizia. Così non è stato e forse sarebbe il caso che noi tutti cominciassimo a domandarci perché questo non sia accaduto!

*Vincenzo Musacchio, criminologo, docente di strategie di lotta alla criminalità organizzata transnazionale, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (Stati Uniti). Attualmente, è ricercatore indipendente e membro ordinario dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nel corso della sua carriera, ha avuto l’opportunità di collaborare con figure di spicco della lotta alla mafia come Antonino Caponnetto, magistrato di notevole esperienza che ha guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni Ottanta. È unanimemente riconosciuto come uno dei massimi esperti delle nuove mafie transnazionali. Esperto in strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati, scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È riconosciuto come il principale esperto europeo di mafia albanese e i suoi studi approfonditi in quest’ambito sono stati impiegati anche da commissioni legislative a livello europeo.

Dal sito: www.rainews.it

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