Letum non omnia finit. (Non tutto finisce con la morte). Cosa resta della esemplare figura di papa Francesco? Tantissimo davvero. Mi piace dapprima fare memoria della non comune capacità del Nostro di accogliere la sofferenza come occasione di consolazione. Che un afflitto possa essere beato nell’afflizione non è proprio di agevole comprensione. Ma con papa Francesco è stato così. Chi lo ha frequentato, negli ultimi mesi di vita terrena, può dare testimonianza della sua disposizione d’animo nei confronti della sofferenza. Fino all’ultimo ha mantenuto per sé e per chi gli era vicino una atmosfera di normalità; non ha permesso che la malattia occupasse interamente la sua esistenza e che colorasse di nero tutta la sua vita.
Lo spazio qui a disposizione mi consente una sola sottolineatura su un tema di centrale rilevanza, quello riguardante il senso e la portata civilizzante del lavoro umano nella odierna società. Il nucleo del messaggio papale è l’affermazione che il lavoro, prima ancora che un diritto, è un bisogno umano fondamentale. E’ il bisogno che ogni persona avverte di concorrere a trasformare la realtà di cui è parte, edificando così sé stessa. Riconoscere che quello del lavoro è un bisogno fondamentale è affermazione assai più forte che dire che esso è un diritto. E ciò per l’ovvia ragione che, come la storia insegna, i diritti possono essere sospesi o addirittura negati; i bisogni, se fondamentali, no. Sappiamo anche che non sempre i bisogni possono essere espressi nella forma di diritti politici o sociali. Bisogni come quelli di fraternità, dignità, senso di appartenenza non possono essere rivendicati come diritti. È dunque il bisogno di lavorare a dare fondamento, non solo giuridico ma pure etico, al diritto al lavoro, che diversamente risulterebbe un diritto infondato e pertanto passibile di venir calpestato.
Per cogliere appieno il significato del lavoro come bisogno umano fondamentale ci si può riferire alla riflessione di Tommaso d’Aquino sull’agire umano. Due le forme di attività umana che l’Aquinate distingue: l’azione transitiva e l’azione immanente. Mentre la prima connota un agire che muta qualcosa al di fuori di chi agisce, la seconda fa riferimento ad un agire che cambia anche l’agente stesso. Ora, poiché nell’uomo non esiste un’attività talmente transitiva da non essere anche sempre immanente, ne deriva che la persona ha la priorità nei confronti del suo agire e quindi del suo lavoro. La conseguenza che discende dall’accoglimento del principio-persona è bene resa dall’affermazione degli Scolastici secondo cui “operari sequitur esse”. Quando l’agire non è più sperimentato da chi lo compie come propria auto-determinazione e quindi propria auto-realizzazione, esso cessa di essere umano. Quando il lavoro non è più espressivo della persona, perché non comprende più il senso di ciò che sta facendo, il lavoro diventa servitù. L’agire diventa sempre più transitivo e la persona può essere sostituita da una macchina quando ciò risultasse più vantaggioso – il che avviene da tempo. Invece nell’opera umana non si può separare ciò che essa significa da ciò che essa produce.
Notevole la conseguenza che discende dall’accettazione della prospettiva di discorso suggerita da papa Francesco. Essa chiama in causa il fatto che il lavoro umano possiede due dimensioni: acquisitiva, l’una ed espressiva, l’altra. La prima indica che per mezzo del lavoro, la persona acquisisce il potere d’acquisto con cui provvedere alle proprie necessità. A tale dimensione corrisponde il concetto di lavoro giusto. Già la Rerum Novarum di papa Leone XIII (1891) aveva reclamato con forza la “giusta mercede all’operaio”. La seconda dimensione esprime il fatto che attraverso il lavoro, la persona realizza il proprio potenziale di vita, sviluppando i talenti che ha ricevuto. A tale dimensione corrisponde il concetto di lavoro decente, che è tale se favorisce o consente la fioritura umana. Si legge al n.125 della Laudato Sì: “Qualsiasi forma di lavoro presuppone un’idea sulla relazione che l’essere umano può o deve stabilire con l’altro da sé”. Occorre dunque vigilare perché lavoro giusto e lavoro decente non vengano mai disgiunti se si vuole andare oltre la sfortunata idea secondo cui il lavoro umano è una merce, per la quale esiste un apposito mercato: il mercato del lavoro, appunto. Il lavoro non è un “fattore della produzione” che deve adattarsi alle esigenze del sistema produttivo per accrescerne la produttività. Al contrario, è il processo produttivo che va modellato per consentire alle persone la loro fioritura. Già al n.67, la Gaudium et Spes (1964) indicava che: “Occorre dunque che tutto il processo produttivo si adegui alle esigenze della persona e alle sue forme di vita” – e non viceversa.
Il lavoro giusto e decente – ci dice il Pontefice – è sia quello che assicura una remunerazione equa a chi lo ha svolto, e al tempo stesso quello che permette al lavoratore di essere ascoltato, rispettato, riconosciuto. C’è una dimensione morale nel lavoro che non può essere compensata dal denaro. Il luogo di lavoro non è semplicemente il luogo in cui certi input vengono trasformati in certi output, ma è prima di tutto il luogo in cui si forma e si trasforma il carattere del lavoratore. La portata della grande sfida che ci sta di fronte è allora come realizzare le condizioni per muovere passi verso la libertà del lavoro, intesa come possibilità concreta di consentire alla persona che lavora di tenere in armonia le due dimensioni di cui si è detto. Le democrazie liberali mentre sono riuscite, più o meno bene, a realizzare le condizioni per la libertà nel lavoro – e ciò grazie alle lotte del movimento operario e al ruolo del sindacato – paiono impotenti quando devono muovere passi verso la libertà del lavoro.
Perché pare così difficile, oggi, andare in questa direzione? È forse la non conoscenza dei termini della questione oppure la non disponibilità degli strumenti di intervento a impedire la ricerca di soluzioni? Niente affatto. La causa, piuttosto, è una organizzazione sociale incapace di articolarsi nel modo più adatto a valorizzare le risorse umane disponibili. È un fatto che le nuove tecnologie del digitale liberano tempo sociale dal processo produttivo, un tempo che l’attuale assetto istituzionale trasforma in disoccupazione oppure in forme varie di precarietà. L’aumento, a livello di sistema, della disponibilità di tempo – un tempo utilizzabile per una pluralità di usi diversi – continua ad essere utilizzato per la produzione di cose o servizi di cui potremmo tranquillamente fare a meno e che invece siamo indotti a consumare, mentre non riusciamo a consumare altri beni come quelli relazionali e i beni comuni. Il risultato è che troppi sforzi ideativi vengono indirizzati su progetti tesi a creare occasioni effimere o transitorie di lavoro, anziché adoperarsi per riprogettare la vita di una società post-industriale fortunatamente capace di lasciare alle nuove macchine le mansioni ripetitive e dunque capace di utilizzare il tempo così liberato per consentire alle persone di rispondere alla loro vocazione.
Il punto che merita attenzione è che occorre distinguere tra impiego, cioè posto di lavoro, e attività lavorativa. In ciascuna fase storica dello sviluppo delle economie di mercato è la società stessa, con le sue istituzioni, a fissare i confini tra la sfera degli impieghi (il lavoro salariato) e la sfera delle attività lavorative. Purtroppo, tale confine è, oggi, sostanzialmente il medesimo di quello in essere durante la lunga fase della società fordista. E’ questa la vera rigidità che occorre superare se si vuole avere ragione del problema in questione. Pensare di dare un lavoro a tutti sotto forma di impiego sarebbe pura utopia. Infatti, è bensì vero che politiche di riduzione del costo del lavoro, unitamente a politiche di sostegno alla domanda aggregata potrebbero accrescere, in alcuni settori, la produzione più rapidamente dell’aumento della produttività e contribuire così alla riduzione della disoccupazione. Ma a quale prezzo? Quello di dare vita a eticamente inaccettabili e politicamente pericolosi trade-offs: per redistribuire lavoro a tutti si finirebbe con l’accettare come qualcosa di naturale la categoria dei working poors, oppure come qualcosa di inevitabile il modello neo-consumista il cui fine (nascosto) è quello di farci dimenticare il nostro vuoto interiore. Accade così che la società post-industriale registri, al tempo stesso, un problema di insufficienza di posti di lavoro, cioè di disoccupazione, e un problema di eccesso di domanda di attività lavorative, domanda che non trova corrispondente offerta.
È pensabile che si possa realizzare un tale progetto? Sì – ci assicura papa Francesco – ad una condizione però: che ci si decida a declinare nello spazio pubblico il principio di fraternità, un principio che è il completamento e il superamento, al tempo stesso, del principio di solidarietà.
*Insegna Economia Politica all’Università di Bologna, Presidente della Pontificia Accademia delle scienze Sociali