1.La riforma e l’ispirazione europea
Il disegno di riforma contenuto nella legge delega 183/2014, e precisato nei primi decreti attuativi, affronta questioni essenziali per il futuro del diritto del lavoro. Le modifiche normative proposte incidono infatti su due aree direttamente investite dalle trasformazioni degli assetti economici e sociali in atto in tutti i paesi avanzati: le diversificazioni del lavoro nell’impresa e quindi le modalità del suo impiego; gli assetti regolativi e istituzionali del mercato del lavoro e gli strumenti per il sostegno delle persone che lavorano.
La proposte del governo, via via precisate con non poche varianti e in larga parte definite nella legge delega, non smentiscono l’ambizione degli annunci, perché introducono innovazioni spesso in piena discontinuità col passato, su tutti i temi affrontati. Inoltre il governo si è proposto di inserire le singole modifiche in un disegno organico ispirato, almeno nelle intenzioni, alle linee guida europee della flexsecurity. Tali linee guida, come è noto, si sono nel tempo “allargate” non senza ambiguità, per rispondere alle diverse pratiche nazionali spesso lontane dalle condizioni dei paesi di origine della formula, e sono state applicate con molte variazioni.
Il test della crisi ha mostrato le criticità della formula e la necessità di adattarne i contenuti, integrandola con misure ulteriori dirette a migliorare le performances complessive del sistema, in particolare a massimizzare le occasioni di occupazione stabile e di qualità secondo i modelli virtuosi del Nord Europa. (1)
Con queste osservazioni e riserve sul senso del disegno, la valutazione al riguardo deve riguardare l’insieme dei provvedimenti che sono stati emanati con interventi di diverso peso e potrà perfezionarsi solo nel tempo.
La prima tappa dell’iter è il decreto 34/2014 sul contratto a termine che ha affrontato con anticipo sul resto della normativa un aspetto ritenuto cruciale della flessibilità in entrata.
Si tratta di un intervento molto significativo perché la normativa su tale contratto è un test di particolare importanza di come l’ordinamento regola la flessibilità in entrata.
La previsione del cd. contratto a tutele crescenti costituisce un altro elemento di novità del disegno governativo. A differenza del contratto a termine, questo istituto ha avuto una lunga preparazione, con molte varianti, nel dibattito degli esperti e nelle proposte parlamentari; ma è rimasto bloccato per anni in sede legislativa a causa della querelle sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. (2)
In ogni caso la normativa sul contratto a tutele crescenti con le agevolazioni previste dalla legge finanziaria 2015 (L. 190/2014), è destinata ad alterare profondamente l’equilibrio fra i rapporti di lavoro. Essa introduce due elementi strutturali che rendono competitivo il contratto a tempo indeterminato, nella nuova versione a tutele crescenti, rispetto al contratto a termine e persino all’apprendistato: la consistente riduzione di costi e la minore rigidità della disciplina di licenziamento, cioè il minore rischio per il datore di lavoro di vedere reintegrato il lavoratore licenziato ingiustificatamente.
Tale cambio di convenienze dà per la prima volta un valore effettivo alla dichiarazione presente in molti testi legislativi italiani ed europei, che definisce il contratto a tempo indeterminato come il tipo normale, o prevalente, di rapporto di lavoro. Tale formula è tanto reiterata, quanto finora svuotata di significato, appunto per il gioco delle convenienze che l’ha fin qui smentita, oltre che per la debolezza dei mercati del lavoro non corretta da politiche economiche stabilizzatrici ed espansive.
2.Il riordino dei tipi contrattuali : il superamento del contratto a progetto
Gli equilibri tra i vari contratti di lavoro sono ulteriormente destinati a cambiare con l’entrata in vigore del decreto approvato dal Consiglio dei Ministri il 20 febbraio 2015 sul riordino dei tipi contrattuali.
La legge delega 183/2014 si propone l’obiettivo, ancora una volta ambizioso, di predisporre un testo organico delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro (formula invero ridondante) con lo scopo di rendere i contratti vigenti più coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo, anche internazionale, oltre che di rendere più efficiente l’attività ispettiva. E a tal fine indica fra i principi direttivi “la semplificazione, la modifica e il superamento dei tipi esistenti”.
Il punto centrale e più discusso del decreto riguarda la nuova regolazione delle collaborazioni, in particolare dei contratti a progetto; ma esigenze simili di revisione normativa servirebbero anche per le cd. partite IVA.
Questo tema merita una meditata riflessione, perché il decreto non si limita, come annunciato dal premier, ad abolire il contratto a progetto, bensì interviene direttamente nella ultradecennale querelle qualificatoria riguardante la distinzione fra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo. Si tratta di una questione che affatica da sempre i giuristi del lavoro, quelli italiani più di quelli di altri paesi; anche per le sollecitazioni che essi ricevono periodicamente dall’incerto legislatore.
La direttiva contenuta al punto 7 a) della delega, che si propone di analizzare le forme contrattuali esistenti per semplificarle e valutarne “la coerenza con le attuali esigenze produttive”, è sufficientemente ampia da comprendere tutti i lavori subordinati e autonomi. (3)
Il legislatore sembra avere tenuto conto delle obiezioni rivolte alla tecnica delle presunzioni utilizzate dalla legge 92/2012 per contrastare l’abuso delle collaborazioni. Per ottenere il risultato voluto ha fatto leva, come si diceva, sulla convenienza economica e normativa del contratto a tutele crescenti risultante dalla forte incentivazione economica prevista nella legge finanziaria e dal superamento dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Ma in realtà non ha rinunciato a un intervento “di sistema” diretto a ridefinire i confini fra lavoro subordinato e collaborazioni. La formula utilizzata dall’art. 47, 1° co, dello schema di decreto, evita di proporre una nuova definizione del tipo di lavoro subordinato e prevede invece un allargamento dell’ambito di applicazione della disciplina, prevedendo che “la disciplina del rapporto di lavoro subordinato si applichi anche in rapporti che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
Si tratta di una cautela terminologica che, riferendosi all’ambito applicativo della disciplina e non alla fattispecie, sembra voler prevenire possibili obiezioni sollevate in nome del principio di indisponibilità del tipo. Peraltro un simile principio non può essere invocato per escludere la possibilità che il legislatore modifichi i caratteri dei tipi da esso stesso storicamente configurati e disciplinati. Le pronunce della Corte Costituzionale richiamate a fondamento del principio non hanno inteso affermare la immodificabilità dei tipi da parte del legislatore. Piuttosto hanno ritenuto che una volta definita dal legislatore la fattispecie del lavoro subordinato, con la relativa disciplina di tutela, non è legittimo escludere dall’ambito di tale disciplina una categoria di rapporti in tutto corrispondenti agli elementi della sua fattispecie, qualificandola nominalisticamente in altro modo. (4)
Come dirò subito, il decreto non ritiene di proporre una normativa specifica delle varie forme di collaborazione e di lavoro autonomo, nonostante le sollecitazioni ricevute in tal senso. L’occasione di dare risposte funzionali alle esigenze di questi è per ora rinviata.
Che tali esigenze restino attuali è indubbio, in quanto il superamento del contratto a progetto non fa venire meno le varie forme di collaborazione, come è testualmente confermato dal decreto (all’art. 49) che fa salvo quanto disposto. dall’art. 409 c.p.c.
Il superamento dei contratti a progetto previsto dalla norma dell’art. 49, secondo cui gli artt. da 61 a 69 bis del dlg 276/2003 restano in vigore solo per i contratti a progetto in atto, evidenzia un vuoto di disciplina per quelle collaborazioni che non confluiranno nel lavoro subordinato (5), accrescendo l’urgenza di tutelarle con una normativa specifica.
3.Il criterio della eterorganizzazione
L’attrazione delle collaborazioni nell’area del lavoro subordinato, o meglio nell’ambito della sua disciplina, è determinata sulla base di elementi di vario rilievo. La natura esclusivamente personale delle prestazioni e la loro continuità riprendono contenuti propri delle collaborazioni e del lavoro autonomo in genere, ma non sono di per sé criteri esclusivi né quindi decisivi per la loro qualificazione.
L’indice più significativo riguarda le modalità di esecuzione delle prestazioni, che devono essere “organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. In sintesi si può dire che al criterio della eterodirezione tradizionalmente utilizzato per identificare la subordinazione di cui all’art.2094 Cod. Civ., si sostituisce il criterio della “eterorganizzazione” da parte del committente, che definirebbe la nuova area di collaborazione dipendente.
Tale indicazione del decreto non è del tutto nuova. Trova riscontro non solo nelle analisi di varie discipline sui mutamenti della morfologia del lavoro, ma anche in significativi filoni giurisprudenziali che hanno contribuito a svalutare la eterodirezione come criterio utile a identificare la collocazione funzionale delle prestazioni di lavoro rispetto all’impresa.
Le indicazioni che fanno seguito a questa pars destruens non sono peraltro univoche; rivelano anche per questo aspetto la difficoltà di intercettare la variabilità dei lavori e segnalano lo “sfrangiamento” dei criteri definitori.
I riferimenti giurisprudenziali infatti sono oscillanti (6) : si richiamano alla dipendenza, intesa come “messa a disposizione delle energie lavorative del prestatore di lavoro”, con la specificazione ulteriore che tale messa a disposizione è “in funzione dei programmi e per il perseguimento dei fini propri dell’impresa; oppure alla disponibilità continuativa nel tempo del prestatore di lavoro, ovvero ancora all’inserimento continuativo e organico delle prestazioni nell’organizzazione dell’impresa”. Trovano riscontro in orientamenti ministeriali (la cd. Circolare Damiano, n. 17 del 2006), riguardanti ad es. le prestazioni di attività di call center, quelle inbound che si limitano a mettere a disposizione le proprie energie per un determinato tempo senza autonomia (a differenza di quelle outbound); e nella previsione di una subordinazione attenuata nella legge storica sul lavoro a domicilio.
Quale che sia il rilievo di questi orientamenti giurisprudenziali, l’intervento del decreto contribuisce a consolidare un cambio di indirizzo potenzialmente di grande rilievo, su un aspetto da sempre centrale per l’identità del lavoro quale è appunto la subordinazione.
E’ prevedibile che il nuovo criterio adottato per identificare l’ambito applicativo della disciplina del lavoro subordinato, solleverà rinnovate controversie applicative sui criteri individuatori del tipo e quindi sulla portata dell’allargamento dell’area del lavoro dipendente.
In realtà il legislatore, consapevole delle implicazioni potenzialmente dirompenti di questa scelta, ha voluto circoscriverne la portata, graduandone l’impatto su una materia così socialmente rilevante e tormentata. Nella versione finale del testo si è introdotto un criterio definitorio eterogeneo rispetto a quelli fin qui esaminati, con la precisazione che nel nuovo ambito di dipendenza “allargata” si comprendono solo le prestazioni di contenuto ripetitivo.
Tale criterio appare non solo eterogeneo, ma difficilmente conciliabile con l’idea largamente acquisita secondo cui i contenuti dei lavori non sono di per sé decisivi in sede di qualificazione del tipo di rapporto, sia subordinato sia autonomo.
Oltretutto la distinzione basata sul contenuto del lavoro prefigura uno sdoppiamento della fattispecie e dell’ambito della disciplina del lavoro subordinato; cioè l’ allargamento di tale ambito proposto dalla norma riguarda solo i lavori di contenuto ripetitivo, mentre per gli altri lavori resterebbero validi i criteri tradizionali di identificazione della subordinazione (peraltro, come si diceva, già messi in discussione).
4.Le collaborazioni “fatte salve”
Nell’allargare l’ambito della disciplina del lavoro subordinato il decreto introduce una serie ulteriore di eccezioni, indicate al co 2 dell’art. 47. Alcune riguardano forme di collaborazione già oggetto di regolazione nella legge 92 (art.1, co 23): quelle prestate nell’esercizio di prestazioni intellettuali per le quali è necessaria la iscrizione in appositi albi; l’attività svolta nell’esercizio della loro funzione dai componenti di organi di amministrazione e controllo delle società e dei partecipanti a collegi e commissioni (categoria quest’ultima indicata alquanto genericamente); prestazioni rese istituzionalmente a favore di associazioni sportive dilettantistiche. (7)
La eccezione più rilevante riguarda le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi stipulati dalle confederazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, prevedono discipline specifiche del trattamento economico e normativo in ragione delle particolari esigenze produttive e organizzative del relativo settore.
La scelta di delegare alla contrattazione scelte regolative in questa materia si ritrova con varianti nella normativa precedente; in particolare nella legge 92/2012 all’art. 1, co 23, a).
Il decreto attuale estende il rinvio alla contrattazione alla generalità delle possibili collaborazioni e dà solo l’indicazione che tale contrattazione non può essere generica, ma deve prevedere per tali figure una disciplina specifica, legata alle particolari esperienze del settore. Si tratta di un vincolo di scopo che conferma una tendenza alla funzionalizzazione di questa contrattazione per delega e che sul piano pratico può orientare i sindacati tradizionali a dar vita a una contrattazione specializzata per i vari tipi di collaborazioni.
L’attribuzione di poteri prevista dal decreto offre alla contrattazione collettiva opzioni di grande rilievo. La norma ha l’obiettivo di fare salve ipotesi di collaborazione già regolate dalla contrattazione collettiva, sottraendole così all’attrazione del nuovo ambito allargato di applicazione della disciplina del lavoro subordinato. Ma non esclude che la stessa contrattazione possa individuare tipi di collaborazioni da ricondurre invece all’area del lavoro subordinato, come finora è per lo più avvenuto, anche a prezzo di rinunce nei trattamenti.
La norma del decreto riferisce il potere di regolazione in materia non alla tradizionale contrattazione di categoria, né a quella decentrata, pur valorizzata dalla recente legislazione, ma agli accordi collettivi stipulati dalle confederazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. La scelta del legislatore è anche qui innovativa, perché nella nostra tradizione le confederazioni non hanno mai esercitato un potere contrattuale diretto. Si può ritenere che essa sia motivata tenendo conto dell’ambito di regolazione attribuito a questi accordi, per la preoccupazione di evitare frammentazioni normative e di trattamento in una materia nuova e delicata. Ma è dubbio che il livello confederale sia il più adatto a regolare forme di lavoro e figure professionali eterogenee come quelle che per comune riconoscimento popolano il mondo delle collaborazioni.
5.L’allargamento dell’ambito del lavoro subordinato e la dipendenza economica
La norma dell’art. 47 sull’ambito di applicazione della disciplina del lavoro dipendente si distingue non solo rispetto alla tradizionale interpretazione dell’art. 2094 Cod. Civ. , perché ridimensiona la rilevanza di uno specifico potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, ma pure rispetto ai criteri posti a base delle presunzioni stabilite dalla legge 92/2012 per la qualificazione delle cd. partite IVA: durata della collaborazione superiore a otto mesi per due anni consecutivi, prevalente derivazione del reddito (80%) dal committente, utilizzo di una postazione fissa di lavoro nelle sedi del committente.
Gli indici della legge 92 riflettono quelli elaborati dalla dottrina italiana e da alcuni ordinamenti stranieri (Germania e Spagna in primis) per definire la cd. dipendenza economica del lavoratore (autonomo). (8)
La dipendenza economica è un concetto eterogeneo, come preciserò subito, rispetto alle categorie di subordinazione e di autonomia e quindi da tenere opportunamente distinto.
La strada imboccata dal legislatore attuale è diversa anche da quella seguita in periodi precedenti, di estendere singole tutele nate per i lavoratori subordinati storici ad altri tipi di lavoro, neppure sempre in base a motivi convincenti circa l’effettivo bisogno di protezione dei soggetti interessati. Tanto è vero che tale fenomeno, denunciato come “inquinamento delle tutele” ha contribuito non poco a screditare la funzione protettiva dal diritto del lavoro italiano ed europeo.
L’opportunità della scelta del decreto risulterà confermata se la ridefinizione dell’ambito di tutele previsto dal decreto sarà accompagnato dall’intervento promesso e finora rinviato, diretto a tutelare e promuovere le varie forme di collaborazioni e di lavoro autonomo. Adeguare la regolazione di tali forme di collaborazione è essenziale non solo per ovviare alle carenze di tutela sopra segnalate, ma anche per evitare che la revisione delle norme di subordinazione sia guidata dalla preoccupazione di escludere o limitare il ricorso al lavoro autonomo. Tale preoccupazione è stata finora prevalente, ma coltivarla oggi risulterebbe ingiustificato o controproducente rispetto alle esigenze attuali.
In realtà le soluzioni normative prospettate non sono univoche e risentono anch’esse delle incertezze del tempo. Una prima opzione riguarda l’ambito della regolazione che può riguardare l’intero spettro dei lavori autonomi oppure specificamente quelli contrassegnati da tratti di dipendenza economica.
Queste ultime sono le forme di lavoro che hanno finora attirato l’attenzione prevalente degli osservatori e del legislatore non solo in Italia, per la loro importanza sociale e per l’urgenza dei bisogni di tutela. Ma in ogni caso l’intervento normativo in materia dovrebbe costituire l’occasione per riavviare in modo sistematico l’opera di revisione di tutte queste forme di lavoro evitando i limiti e le aporie riscontrate negli interventi degli ultimi anni; il che potrebbe essere utile in vista di un più ampio progetto di Statuto dei lavori da tempo annunciato. (9)
In realtà anche per la individuazione del lavoro economicamente dipendente i criteri adottati non sono univoci.
In alcune proposte e nella legislazione spagnola gli indici sono fissati in termini definiti: ad es. una percentuale fissa del reddito derivato dal committente principale e il suo livello assoluto in cifra.
In altri casi, come nel sistema tedesco, i criteri rilevanti sono più di uno, non devono essere tutti presenti e presentano margini di flessibilità: ad es. il lavoro deve essere svolto normalmente per un solo committente, non deve essere uguale a quello svolto da un dipendente per il medesimo committente e per committenti impegnati in attività simili; e inoltre i giudici del lavoro valutano caso per caso il peso dei vari criteri.
Le opzioni qui accennate si riconducono a valutazioni culturali e politiche ancora aperte e non correttamente verificate circa i caratteri dei vari lavori autonomi. Una adeguata comprensione della realtà odierna di tali lavori, non può oscurarne i possibili caratteri di genuinità e trasporli meccanicamente verso un’area allargata di subordinazione.
6.Difficoltà interpretative
La riconduzione del lavoro economicamente dipendente alla fattispecie subordinazione, tradizionale o allargata, oltre a comportare conseguenze discutibili in punto di policy, si basa su un presupposto concettuale e sistematico non sostenibile. La dipendenza economica non è un criterio impiegabile per qualificare forme di lavoro subordinato o lato sensu dipendente, perché si rifà, come dicevo, a elementi eterogenei rispetto a quelli propri della subordinazione sia nella versione tradizionale della eterodirezione, sia in quella allargata dell’eterorganizzazione, cioè a indici di debolezza e di dipendenza economica, variamente quantificati, del prestatore rispetto al committente (10). Tali indici ricorrono in molte forme dell’attuale lavoro autonomo pur dotati di genuini tratti di autonomia professionale e lavorativa.
Piuttosto i parametri individuati dal decreto per l’allargamento dell’ambito della subordinazione, rendono ancora più sottile, se non evanescente, la distinzione con i tratti che definiscono il coordinamento caratterizzante le collaborazioni coordinate e continuative, di cui è confermata dallo stesso decreto la esistenza. Il debole significato definitorio del coordinamento è da tempo avvertito e risulta anche dalla non cospicua e incerta giurisprudenza in proposito. (11) Si è anzi escluso che esso possa considerarsi un criterio efficiente di identificazione dei rapporti di collaborazione.
La linea di confine fra la subordinazione allargata di cui al decreto e le collaborazioni coordinate e continuative mantenute in vita si conferma particolarmente incerta.(12) La delimitazione è tanto più tenue se si considera che la giurisprudenza chiamata a individuare requisiti della collaborazione, vi ha incluso non solo la continuità e la personalità della prestazione, ma anche la connessione funzionale derivante da un protratto inserimento del prestatore nell’organismo aziendale, sia pure aggiungendo che esso deve caratterizzarsi dall’ingerenza del committente nell’attività del prestatore.
Una ipotesi distintiva utile potrebbe dare rilievo ai possibili oggetti della collaborazione e alle diverse relazioni fra prestazioni singole e lavoratori inseriti in un’organizzazione. Il coordinamento riguarderebbe i casi in cui i rapporti fra le parti, e i vincoli di luogo e di tempo, in capo al collaboratore sono solo quelli necessari al raggiungimento del risultato oggetto della collaborazione; mentre viceversa nelle prestazioni organizzate dal committente, le modalità di esecuzione e i relativi vincoli di tempo e di luogo richieste al collaboratore, sono quelli più generali e per certi versi indeterminati propri di chi partecipa in un’organizzazione e vi è inserito (come è per il dipendente soggetto per questo allo jus variandi del datore).
Un criterio del genere può’ essere applicato ad es. agli addetti al call center. Per la qualificazione del loro rapporto alla stregua della nuova normativa, non sarebbe rilevante tanto il carattere inbound o outbound delle chiamate, quanto il fatto per gli operatori, pur godendo di una discrezionalità nel fare le chiamate, sono parte integrante dell’organizzazione del call center, con tutti i vincoli tipici di questa organizzazione.
Ma si tratta di un’ipotesi più che mai incerta, come ogni proposta interpretativa riguardo a queste fattispecie.
7.La parte mancante della regolazione
Come si diceva la nuova definizione potrà trovare una applicazione meno incerta, e meglio in grado di allargare l’area della disciplina lavoristica senza forzature, in quanto sia accompagnata da una ridefinizione dell’ambito dei lavori autonomi e della relativa disciplina.
Il presente decreto non ha ritenuto di cogliere l’occasione della delega, che pure non poneva ostacoli al riguardo, per affrontare finalmente l’argomento.
Il tema ha importanza tale da meritare una trattazione in un testo normativo ad hoc, come prospettato dallo stesso governo.
La elaborazione di una simile normativa dovrà non solo tenere conto delle possibili ricadute finanziarie, ma sciogliere le alternative sopra ricordate circa l’ambito dell’intervento, il lavoro autonomo in generale o quello economicamente indipendente, e circa il merito della relativa disciplina. Le proposte elaborate negli anni passati possono fornire solo in parte indicazioni utili, perché in questi anni la trasformazione delle forme di lavoro si è ulteriormente accelerata. Le indicazioni allora avanzate, con l’ambizione un po’ illuministica di riordinare l’intero spettro dei lavori in un quadro organico, dovranno fare i conti con un sistema produttivo e del lavoro nonché con un assetto istituzionale più complesso e instabile. Inoltre le ipotesi allora formulate di modulazione delle tutele nella prospettiva di una loro estensione si dovranno misurare con le ristrettezze delle risorse finanziarie e con i limiti della crescita economica.
Un condizionamento simile riguarda in realtà l’intero assetto del diritto del lavoro e del welfare e impone di valutare criticamente quali parti dell’acquis consolidatosi negli anni costituiscono un patrimonio di diritti irrinunciabili e quali invece rappresentano tutele normative e benefici economici da ridimensionare per renderle fruibili alla generalità dei lavori e difendibili dalle pressioni competitive evitando una incontrollata corsa al ribasso. La ricerca di regole e tutele per le forme di lavoro autonomo dovrà operare una analoga selezione degli ambiti di tutela prioritaria, tanto più perché si tratta di regolare un’area finora trascurata.
In questo contesto dovrà operarsi la scelta già proposta: cioè valutare se procedere con una normativa riferibile in generale al lavoro autonomo, o se invece anticipare norme specifiche per il lavoro economicamente dipendente. Questa seconda opinione è forse più matura nella elaborazione teorica e legislativa e può meglio avvalersi di utili raffronti comparati.
In ogni caso anche un intervento sul lavoro economicamente dipendente dovrebbe comprendere regole riferibili all’intero mondo del lavoro autonomo. A tali norme generali andrebbero aggiunte, per differenza, disposizioni per i lavoratori economicamente dipendenti sulla base del principio ordinatore che moduli le tutele in relazione al carattere di debolezza economica di questi lavoratori.
Note
1 Un punto debole è che le forme e il peso delle flessibilità stano crescendo di più delle misure di sicurezza, specie per gli outsider. Lo riconoscono anche autori inclini a valutare positivamente le politiche di flexibility. Cfr. per tutti, T. Wilthagen, Flexibility and security over the life corse, Official publications of the European Communities, Luxembourg, 2008; A. Hemerijck, Changing Welfare States, Oxford University Press, 2012, 256 ss. Un dato comune a gran parte dei paesi europei è che le tutele del reddito in caso di inattività sono state ridotte, in varia misura, mentre sono cresciuti gli interventi di politica attiva del lavoro e le spese relative.
2 Una ampia ricostruzione del dibattito italiano ed europeo nonché delle proposte da varie parti avanzate su questo tema, si trova nel volume comparato di G. Casale e A. Perulli, Towards the single employment contract, ILO, Hart, Geneva, 2014. La qualificazione di contratto unico ricorrente in tali proposte è stata poi precisata e ampiamente ridimensionata, come si vede nelle attuazioni peraltro limitate che l’idea originaria ha ricevuto.
3 Così anche A. Perulli, Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, WPLSDLE Massimo D’Antona, It, 235/2014, in corso di pubblicazione in DRI, 2015
4 M. Pallini, Il lavoro a progetto: ritorno al futuro?, in M. Pallini (a cura), Il lavoro a progetto in Italia e in Europa, Mulino, 2006, p. 147; M. Persiani, Considerazioni sulla nuova disciplina delle collaborazioni non subordinate, RIDL, 2013, I, p. 842; M. Pedrazzoli, Dai lavoratori autonomi ai lavoratori subordinati, in GDLRI, 1998, p. 546 ss. D’altra parte la decisione della Corte 399 del 2008, talora richiamata al riguardo, motiva la sua censura non in base al principio di indisponibilità del tipo, bensì in quanto irragionevole e illegittima per violazione dell’art. 3, 1° co.
5 Le tutele previste per i casi di malattia, maternità e infortunio non vengono meno, perché sono legate alla normativa specifica di carattere previdenziale: cfr. in particolare la legge 126/2006, co 788, che le prevede per i collaboratori a progetto e assimilati fra cui rientrano i collaboratori coordinati e continuativi. Viene meno invece la norma sul compenso minimo previsto per i contratti a progetto dalla legge 92/2012.
6 Cfr. per indicazioni significative, anche di giurisprudenza, O. Razzolini, Le norme di subordinazione, cit., p. 993 ss. Sull’allargamento del concetto di subordinazione si sono orientati in vario modo diversi scritti recenti, V. Bavaro, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato, Cacucci, Bari, 2008, spec. p. 168 ss.; F. Martelloni, Lavoro coordinato e subordinazione, Bononia, Univ. Press, 2012; M. Pallini, Il lavoro economicamente dipendente, Cedam, 2013, cap. I, spec. p. 116 ss. La inadeguatezza della dicotomia subordinazione/autonoma a rappresentare l’universo dei lavori esistenti è segnalata fin dagli scritti fondamentali di M. Pedrazzoli, Lavoro sans phrase e ordinamento dei lavori, RIDL, 1998, I, p. 49 e di A. Supiot, Au dela de l’emploi, Paris, 1999.
7 La indicazione limitativa che fa riferimento alla continuatività delle prestazioni sembra escludere le prestazioni occasionali riconducibili al lavoro accessorio per cui il decreto allarga l’ambito di impiego (art. 51).
8 Cfr. su questo da ultimo A. Perulli, Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica, DRI, 2015, in corso di pubblicazione.
9 Rinvio a T. Treu, Statuto dei lavori e Carta dei diritti, in DRI, 2004, p. 195 ss.
10 L’argomento è ben sviluppato da A. Perulli, Un Jobs Act, cit., p. 11 ss., il quale osserva che nel lavoro subordinato la dipendenza economica è un effetto “materiale” della subordinazione, mentre nel lavoro economicamente dipendente e nella sua disciplina diventa un elemento costitutivo della fattispecie.
11 G. Santoro Passarelli, Falso lavoro autonomo e lavoro autonomo economicamente debole ma genuino: nozioni a confronto, RIDL, 2013, p. 104 ss.; G. Proia, Metodo tipologico, contratto di lavoro subordinato e categorie definitorie, ADL, 2002, p. 103 ss. Il carattere prevalentemente personale del lavoro non è in sé rilevante per qualificare il rapporto come dipendente o autonomo. E’ semmai significativo e come tale utilizzato in altri ordinamenti, per segnare la linea distintiva con l’area delle (piccole) imprese. Tale linea peraltro si rivela anch’essa permeabile se si considerano le micro imprese individuali, non a caso talora incluse nell’area del lavoro dipendente, ad es. nella legislazione francese. Lo ricordano A. Perulli, Un Jobs Act per il lavoro autonomo, cit., p. 10 e, in generale, O. Razzolini, Piccolo imprenditore e lavoro prevalentemente personale, Giappichelli, Torino, 2012.
12 Il punto è rilevato criticamente da A. Perulli, Il Falso superamento dei cococo nel Jobs Act, NelMerito, 6 marzo 2015; secondo l’A. la norma del decreto apre una nuova problematica interpretativa che complica invece di razionalizzare lo scacchiere tipologico; e per questo Perulli propone di eliminare l’ambiguo riferimento al cambiamento e di introdurre invece la nozione di dipendenza economica.