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Cinque proposte per fare ripartire il Mezzogiorno

A volte la lettura di un semplice documento ufficiale ci fa capire più cose di quanto non lo facciano complicate elaborazioni scientifiche o raffinati dibattiti.

Mi è infatti capitato di leggere nei giorni scorsi un rapporto dell’Istat che sintetizza alcuni dati economici di confronto fra le grandi regioni italiane.

Il primo dato riguarda il PIL pro-capite delle macro-zone tra le quali si usa dividere l’Italia.  Ebbene nel 2013 il PIL per abitante era di 33,5 mila Euro nel nord-ovest, 31,4 mila nel nord-est e 29,4 mila nel centro.  Questi dati mostrano una certa disuguaglianza ma, tutto sommato,  modesta, in quanto contenuta entro una differenza del 10%.

Quando si passa alla lettura del dato del mezzogiorno si entra in un altro Paese: il PIL pro-capite scende a 17,2 mila euro. Si tratta di un livello inferiore del 45,8% rispetto a quello della media del centro-nord. A cascata arrivano naturalmente tutti gli altri numeri: la spesa per i consumi delle famiglie risulta pari a 18,3 mila euro per abitante nel centro-nord e si ferma a 12,5  mila nel mezzogiorno. Sono naturalmente altrettanto abissali le differenze di efficienza nel sistema produttivo: si passa dai 46,6 mila euro di valore aggiunto per abitante della provincia di Milano ai 12 mila di Agrigento. Non solo siamo di fronte a differenze intollerabili ma a differenze che tendono a crescere, dato che le cadute di occupazione più pesanti durante tutto il periodo della crisi sono state proprio nel mezzogiorno.

Potrei andare avanti ad elencare un serie di dati più particolareggiati che l’Istat propone alla nostra attenzione ma quelli elencati in precedenza sono sufficienti per sottolineare il dovere di riportare il problema del mezzogiorno al centro della nostra attenzione, dopo un periodo di vent’anni  durante i quali esso è uscito dalle priorità della politica italiana.

Un’uscita figlia della rassegnazione perché, anche limitandoci al dopoguerra, le abbiamo proprio provate tutte. Dal 1950 quando De Gasperi diede vita alla Cassa del Mezzogiorno fino al 1984, quando fu soppressa, si pensava che l’intervento dello stato centrale fosse sufficiente per riequilibrare le drammatiche differenze territoriali.

Di fronte agli sprechi e alle deviazioni delle cattedrali nel deserto si è deciso di porre fine all’esperienza della Cassa e, da allora, si è oscillato confusamente fra politiche di accentramento e decentramento. A quelle dello stato centrale si sono alternate le competenze delle amministrazioni regionali che, tuttavia, non sono state nemmeno in grado di utilizzare i fondi resi disponibili dalle nuove politiche dell’Unione Europea.

Si è quindi oscillato fra gli interventi straordinari e le competenze degli organi dell’amministrazione ordinaria e, per disperazione o per confondere le acque, sono state create sempre nuove sigle, così che un attento osservatore delle cose del mezzogiorno ha dovuto prendere atto del fallimento di questi cambiamenti disarticolati scrivendo che al sud “un acronimo al giorno non toglie il medico di torno”.

Si è poi è pensato che la nuova centralità del Mediterraneo, frutto dell’impressionante aumento dei traffici con l’Oriente, avrebbe potuto costituire la molla per il cambiamento e si è quindi tentato di fare dei porti di Gioia Tauro e di Taranto l’aggancio del mezzogiorno al nuovo mondo.  Il combinato disposto fra la criminalità organizzata e le inadempienze burocratiche ha invece deviato verso la Spagna e la Grecia la gran parte dei nuovi traffici marittimi.

Negli ultimi anni sono stati infine impostati progetti di sviluppo interessanti che, tuttavia, sono stati depotenziati da un incredibile “accanimento terapeutico procedurale”. Infiniti sono gli esempi di questo accanimento: basti ricordare (G. Soriero) che i fondi statali liberati dal blocco della costruzione del ponte sullo Stretto e destinati, con uno specifico voto del Parlamento, alla modernizzazione della rete ferroviaria del mezzogiorno, sono rimasti inutilizzati.

Vi sono quindi tutte le premesse perché anche la nuova possibile ripresa della nostra economia si fermi ancora una volta a Eboli.

Lo scarso dibattito politico sul mezzogiorno è ancora prevalentemente incentrato sulla istituzione di nuovi ministeri, nuove agenzie e nuovi dipartimenti. Tutto bene, ma oggi abbiamo bisogno di agganciarci alla possibile ripresa con un piano di primo intervento volto almeno ad indirizzare i fondi comunitari in alcune direzioni capaci di trascinare lo sviluppo di intere aree.

Penso in primo luogo al potenziamento dei centri di ricerca applicata già presenti in alcune università del Sud, cominciando da Napoli e Bari, e all’incentivazione della  nascita di nuove imprese attorno ad esse.

Penso poi all’indispensabile rilancio dei porti di Taranto e Gioia Tauro, verificando anche l’agibilità della proposta della Svimez di creare a Gioia Tauro una Zona Economica Speciale.

Ritengo inoltre necessario il pieno utilizzo delle risorse energetiche, lo sfruttamento delle quali è del tutto compatibile con le necessarie garanzie di rispetto dell’ambiente.

Resta infine da mettere finalmente in atto la valorizzazione degli incredibili “giacimenti culturali,” accompagnandola con una politica di rilancio del turismo, anche attraverso una moderna e diffusa catena di alberghi, della quale non si vede ancora traccia nel nostro Paese.

Tuttavia l’urgenza maggiore è quella di rimettere la questione meridionale al centro dell’agenda politica italiana. Bisogna però fare presto perché le migliori energie del mezzogiorno continuano ad emigrare. Non si può pensare di produrre sviluppo nel nostro mezzogiorno promuovendo le risorse umane  che andranno invece a favorire le altre regioni o gli altri Paesi.

 

(*) Su autorizzazione dell’Autore; già apparso su Il Messaggero dell’8 marzo 2015

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