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La politica industriale è un’opinione, ricostruttiva

Quando si discute di politica industriale non si fa accademia. Ma proprio nel senso letterale del termine. Non ha il rango di una scienza. E’ una locuzione che ha bisogno di una interpretazione perché sia percepita come espressione di una realtà. Negli ultimi cinquant’anni si sono viste politiche industriali di ogni tipo in giro per il mondo, esplicitate in relazione ai regimi democratici e non, allo stadio di sviluppo dei singoli Paesi, alle dinamiche sociali che in essi si sono sviluppate. Non esiste un modello egemone. Piuttosto possono essere elencate esperienze consolidate, quasi tutte a scarsa esportabilità, perché connesse fortemente con la storia industriale e politica del Paese di riferimento.

Anche se è sostanzialmente un’opinione e non una scienza esatta, di una politica industriale non si può fare a meno, specie se si è un Paese come l’Italia. Nonostante tutto, ancora oggi, secondo soltanto alla Germania in Europa in fatto di consistenza industriale e ottavo nel mondo. Un patrimonio non indifferente, riqualificato più volte nel corso di un secolo, esposto attualmente ad una crisi in parte devastante e in parte stimolante. La parte “distrutta” è sotto gli occhi di tutti, non ha escluso nessun territorio ed ha lasciato sul campo morti e feriti. Procedendo dal Nord verso il Sud, il fenomeno della desertificazione industriale si accentua e si colora dei segni della rassegnazione e della disperazione.

La parte “sopravissuta” sfuma la sua capacità di reazione con i colori della tenacia e dell’ingegnosità per riadattarsi alle nuove condizioni, fino a quelli della creatività e del successo per spostare su frontiere nuove i confini della produzione di beni e servizi ad essi connessi. E’ la parte che sta cercando di conquistare nuovi mercati e di far crescere le nostre esportazioni nella consapevolezza che la competizione vincente è quella nei confronti dei prodotti di qualità medio e alta piuttosto che quelli di bassa qualità. Il che implica un saper ideare, saper fare e saper vendere del tutto innovativi rispetto al passato, quando l’industria italiana aveva come principale mercato la domanda interna e come competitori i produttori esteri di bassa gamma.

Tutto questo si è dipanato negli ultimi sette anni senza scelte vere di politica industriale. Senza un’opinione dominante e orientante il cambiamento. Ciò è avvenuto, specie all’inizio della crisi, per ignavia. Il Governo di allora si spinse a negare la crisi strutturale. La considerò un raffreddore. Poi sono prevalsi l’austerità di marca germanica, i tentativi di far quadrare i conti tagliando la spesa pubblica per investimenti, la rinuncia a fronteggiare la caduta dei consumi interni e esteri con una revisione delle prospettive su cui si era lavorato negli anni passati. Il prezzo di questo vuoto – specie in termini di occupazione, specie nel Mezzogiorno e tra i giovani – è stato altissimo e peserà sugli anni a venire.

Se bisogna sostituire la parte distrutta e sostenere quella sopravvissuta del tessuto produttivo italiano, la politica industriale che si deve affermare non può che essere “ricostruttiva” e muoversi su due livelli. Quello della dotazione di progetti e di risorse. Hanno ragione quanti sostengono che non basta inondare di liquidità le banche. Il Quantitative easing della Bce è importante, sarà utile ma la risposta soltanto monetaria – specie con i vincoli che l’accompagnano – non è sufficiente a garantire la ricostruzione. Ci vogliono piani di investimenti pensati per il medio e lungo periodo riguardanti beni “reali” sulla falsa riga di quanto previsto dal Piano Juncker. Il quale ha un tallone d’achille nella sua dotazione finanziaria. All’Italia, scrive Vaciago, “i mancati investimenti (pubblici e privati) degli ultimi dieci anni (in molti casi, non sono state fatte neppure le manutenzioni, cioè si è mangiato il capitale) e la stessa capacità di sostituire il capitale che la crisi ha reso obsoleto, ci dicono che nei prossimi anni abbiamo bisogno di un volume d’investimenti dell’ordine di quanto il Presidente Juncker ha proposto per l’intera Unione europea “ (Il sole 24 ore 18/04/2015). 

Il secondo livello è quello della governance. Senza “eta beta” che guidano la pratica attuazione di una politica industriale fatta di progetti e risorse, si rischia di fare la fine dei “tagli lineari”: dare corpo all’irrilevanza dei fini. Le erogazioni a pioggia hanno l’effetto di allocare risorse a caso. Può andare bene, ma anche male. Un sistema di regie è necessario. Specie ora che le grandi famiglie industriali, quelle del miracolo economico della metà degli anni 60 dello scorso secolo, sono praticamente sparite o trasferitesi altrove. Nessuno è nostalgico dell’IRI, ma qualcuno che faccia da “pivot” in una squadra di imprenditori privati e pubblici di media e piccola stazza ci deve pur essere. Di fatto è in campo la Cassa Depositi e Prestiti ma non è un soggetto imprenditoriale. D’altra parte, gestendo il risparmio degli italiani che si affidano alle Poste non può che camminare con un passo felpato lungo il sentiero, in parte imprevedibile, del futuro dell’industria italiana.

Il Governo non può eludere il tema della governance. E se lo fa, diminuisce la propria identità strategica. Si accontenta di formulare risposte momentanee, mentre questa è la fase per dare un respiro di lungo periodo al sistema produttivo italiano.    

 

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