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Manager si diventa, con il sapere e con l’etica

Non sappiamo se nel 2009 diecimila manager rischiano davvero di essere messi nella condizione di dovere rinunciare alla loro attuale attività professionale, come sostiene Meletti (Corriere della sera, 1 giugno, 2009) o come mettono in risalto i dati indicati da Federmanager, che denunciano la perdita di 7000 dirigenti nel 2008 ed evidenziano la perdita di altre 3000 unità nel primo trimestre 2009, quasi tutti over 45. Una cifra consistente, che rappresenta il 12% dell’insieme dei dirigenti operanti nel settore manifatturiero.

 

In ogni modo, la tendenza dell’andamento di questo particolare segmento del mercato del lavoro è certamente condizionata da due fenomeni

particolari: dalla situazione economica non florida in cui versano le nostre aziende, per la maggior parte piccole e medie, tradizionalmente poco inclini all’innovazione, salvo alcune eccezioni, dove la ripresa deve ancora mostrare i primi segnali reali di inversione di tendenza; e dall’immagine del ruolo del manager, che è peggiorata negli ultimi tempi creando, di conseguenza, un indebolimento della sua legittimazione sociale.
È stata l’esplosione della crisi finanziaria americana che ha amplificato questo secondo fenomeno, quando sono stato rese pubbliche le notizie relative al fatto che i dirigenti delle grandi banche che hanno portato alla rovina i loro clienti avevano stipendi da milioni di dollari e con il fallimento in corso si erano assegnati bonus incredibili. Ma anche le esperienze domestiche maturate nel settore del trasporto aereo non sono state da meno.

Mai come in questo caso, è necessario ricordare l’impressionante attualità della massima di Sturzo: “L’economia senza etica è diseconomia”.
In realtà, anche nell’attuale contesto economico e sociale, difficile e complesso, dove per poter far ripartire adeguatamente il sistema ciascun ruolo deve ottenere una propria rilegittimazione sociale, quando la sua azione si è dimostrata essere palesemente inefficace, l’attività dei ruoli manageriali (dirigenti e quadri) continua a svolgere una funzione determinante per la vita e il futuro dell’impresa. Ovviamente ci riferiamo a quelle figure professionali e a quegli attori responsabili che sono in grado di assumere le scelte più adeguate, nei tempi e nelle modalità più appropriate, finalizzate a far progredire l’impresa, come “bene comune” da salvaguardare al di sopra degli interessi di parte nel medio termine (non solo nel brevissimo periodo), tese a salvaguardare e a promuovere le legittime aspettative degli stakeholder interni ed esterni.
In altri termini, si tratta di quelle persone che non s’individuano facilmente sul mercato e che, attraverso il proprio contributo professionale e la loro capacità di leadership, condizionano la vita dell’impresa, ne determinano i risultati aziendali e investono sul futuro proprio e su quello della comunità aziendale. Per queste ragioni, come sostiene acutamente Alberoni, sulla rivista Manageritalia (giugno, 2009): “Trovare un bravo manager è perciò forse la cosa più difficile e importante per il successo di un’impresa”.
Infatti, a nostro avviso, nell’attuale contesto economico e organizzativo, sempre più permeato da una competizione globale, vi sono una serie di variabili che tendono a determinare un mutamento paradigmatico e un nuovo assetto dei ruoli manageriali all’interno delle aziende e inducono sviluppi nuovi che tendono a ridefinire politiche, competenze e responsabilità.
Si tratta di variabili che inducono una diversa scansione e una forte accelerazione ai processi di business, a quelli organizzativi e gestionali, che risultano essere correlati ad un insieme di fenomeni fortemente interconnessi tra di loro da una logica sistemica.
In linea con questa impostazione, si potrebbe sostenere che i seguenti fenomeni, più di altri, rappresentano elementi che condizionano la vitalità e le prospettive delle medie e grandi imprese italiane, in merito alla scelta di investire sulla presenza di un buon manager in azienda:
1. la crisi economica, che induce un ripensamento delle politiche attuate nella gestione dei principali processi (business, organizzativi e gestionali), ma anche di quelli di progettazione/pianificazione e di valutazione;
2. l’evoluzione dei modelli organizzativi, verso una logica di lean organization, che punta ad una semplificazione dei processi, ad una maggiore integrazione sinergica delle operations, attraverso l’implementazione di strutture snelle e multitasking work);
3. la pervasività dell’innovazione tecnologica, che semplifica il governo dei processi, riduce l’azione lavorativa pesante e routinaria, e contribuisce, insieme al ridisegno organizzativo, ad una riprogettazione delle attività e dei compiti;
4. una nuova visione del senso e del ruolo che svolge il lavoro nella vita personale, connesso con l’incremento dei livelli di scolarità e di formazione, che determinano un nuovo sistema di aspettative verso l’attività lavorativa e inducono una “motivazione al lavoro” sempre più orientata al rispetto dei principi di autonomia professionale, di responsabilità dei risultati e di autorealizzazione personale e professionale.
Siamo in presenza, dunque, di elementi strutturali e culturali che inducono un’approfondita riflessione, richiedono una profonda revisione della cultura manageriale e una rielaborazione delle linee di sviluppo dell’assetto dei nuovi ruoli manageriali, sia nelle grandi imprese, che in quelle piccole e medie.
Infatti, i recenti dati Istat dimostrano che le trasformazioni del mercato del lavoro registrate nel corso del 2008 e nel primo semestre del 2009 si muovono in due diverse direzioni rappresentate, da una parte, da una “polarizzazione” della struttura delle professioni, in cui sono sempre più numerosi i lavoratori nelle fasce alte (Knowledge workers) e quelli appartenenti a livelli meno qualificati, con compiti fortemente condizionati dai processi di innovazione tecnologica ed organizzativa. Contemporaneamente, dall’altra parte, si presenta un fenomeno che si era già manifestato negli ultimi dieci anni, teso a determinare una tendenziale riduzione delle figure dirigenziali.
In questo caso, a nostro avviso, non si tratta di ruoli manageriali innovativi, bensì di figure che continuano a svolgere un mero ruolo di “controllo” e supervisione, che non favoriscono il coordinamento e l’integrazione dei processi e delle persone e non apportano/inducono innovazione.
A questo proposito, è utile ricordare che, in questa direzione, l’evoluzione dei modelli organizzativi, la forte innovazione tecnologica e l’estrema pervasività delle Information Communication Technology (ICT), il cui utilizzo è esteso ormai all’insieme dei processi aziendali (interni ed esterni, compresi quelli che coinvolgono attivamente il cliente finale), riducono il peso e il ruolo delle politiche e delle figure di controllo ed enfatizzano, invece, l’apporto dell’attività di coordinamento e di responsabilizzazione diffusa a tutti i livelli organizzativi e produttivi. Del resto le tecnologie ICT, per il loro carattere trasversale e reticolare, fanno scoprire e favoriscono campi di cooperazione inesplorati, di una portata eccezionale. Si pensi solo alle potenzialità connesse con un adeguato sviluppo dell’e-work o dell’e-commerce, dal punto di vista relazionale, comunicativo e creativo, e alla loro influenza sull’attività di marketing e sul livello produttivo.
In definitiva, in questo nuovo scenario, la situazione di crisi economica tende a “rimescolare le carte”, nel senso che riduce il peso dei manager nelle grandi aziende, ma non le funzioni e il ruolo imprescindibile, e comincia ad estendere una loro “presenza strategica” nell’area delle piccole e medie, che hanno ormai compreso l’importanza delle attività di innovazione, pianificazione e sviluppo, ma anche l’utilità del marketing e della comunicazione d’impresa. Tali manager, come in altri settori del nuovo mercato del lavoro, spesso non svolgono un’attività a tempo pieno e/o a tempo indeterminato. Per questa ragione avanzano le figure di temporary manager e i rapporti di lavoro con contratti a progetto o di tipo consulenziale.
Infatti, secondo alcune stime, sarebbero ormai circa 25.000 (1/4 del totale) i manager che, avendo perso la propria attività professionale cercano contratti e consulenze nelle piccole e medie imprese per sostenere il proprio reddito. La stessa linea di tendenza viene indicata in uno studio della Promelec International di giugno 2009, una società di executive search, dove si sostiene che sarebbe proprio “lo zoccolo duro delle realtàproduttive di piccole e medie dimensioni”, quello capace di garantire sicurezza e continuità d’impiego per i dirigenti. In queste aziende,

prevalentemente manifatturiere, vengono ricercate figure addette alla pianificazione ed allo sviluppo di progetti di business, produttivi o di marketing. Si tratta, in ogni modo, di attori che hanno maturato un’esperienza in aziende più avanzate e sono chiamati a svolgere una funzione “sistemica” mirata alla creazione di una rete relazionale tesa a produrre sinergie, integrazioni dei processi produttivi, ma anche un sostegno fondamentale alla gestione di un clima relazionale improntato alla cooperazione e al perseguimento di obiettivi di efficacia e di qualità dei risultati. Come dimostrano alcune inchieste (Demurtas, Il Sole 24 ore, 28 Gennaio, 2009; Samo, Harvard Business Review, giugno, 2009), se con la crisi i manager tendono (o sono indotti) a diventare consulenti, ottimizzando le loro esperienze, hanno bisogno però di migliorare le loro competenze e renderle più adeguate alle richieste del mercato, per questo debbono orientarsi verso un processo di formazione basato su di una logica di lifelong learning.

In questo rinnovo delle competenze manageriali e delle prospettive di ricollocazione, ovviamente, non va dimenticata la dimensione internazionale, sempre più importante, nei processi di concentrazione di big company capaci poter competere a livello globale, nel settore industriale, così come nel credito e nel trasporto aereo. Ma questa nuova prospettiva, naturalmente, richiede lo sviluppo di competenze professionali, culturali, linguistiche e di networking adeguate, a cui i nostri manager sono ancora poco “vocati”.

Infatti, lo sviluppo delle imprese innovative nella società della conoscenza non può più basarsi sull’attività di gruppi professionali circoscritti o sull’azione di superspecialisti isolati, ma deve poter contare su un’intelligenza diffusa e su reti professionali adeguate, orientate ad una logica di qualità, di personalizzazione e a comportamenti improntati al rispetto dell’etica della responsabilità personale e professionale (Luiss Guido Carli,

Terzo Rapporto “Generare classe dirigente in Italia”, 2009).
Per questa ragione, la diffusione di una nuova visione del senso e del ruolo che svolge il lavoro nella vita personale, richiede sempre più una nuova cultura manageriale, un agire comunicativo e organizzativo orientato al rispetto della persona (collaboratore/cliente) e dell’impresa e ad una leadership di tipo partecipativa e trasformazionale. Un manager, insomma, con meno competenze specialistiche, sempre più in grado di favorire la trasformazione e i processi di cambiamento, sviluppando la capacità di dare nuove prospettive e di guidare gli altri con l’esempio, ma soprattutto di mettersi in discussione, rinnovando e migliorando il proprio profilo (Cocozza, Direzione risorse umane, 2006).
A questo proposito, è utile ricordare l’importante ruolo svolto dalle associazioni professionali di rappresentanza, che dovrebbero tendere a sostenere la creazione di reti relazionali e professionali tra i dirigenti, in cui si dà vita a “comunità di pratiche” ma, soprattutto, offrire processi formativi e strumenti culturali interpretativi necessari per poter comprendere il processo di mutamento in atto e orientare le scelte in una logica di autoimprenditorialità e di adeguatezza, rispetto al mercato e alle specifiche culture organizzative di riferimento.
I nuovi ruoli manageriali, dunque, così come qui sono stati delineati, da una parte, hanno ampliato la platea degli attori coinvolti in una prospettiva proattiva e di responsabilizzazione diffusa (aggregando i process owner) e, dall’altra, assottigliando il numero dei dirigenti con potere decisionale hanno reso più strategica l’azione manageriale, poiché orientata maggiormente sull’efficacia (cosa) e non più sulla sola efficienza (come).
Questo nuovo assetto, a nostro parere, ha reso obsolete le politiche (gestionali, organizzative, di marketing e produttive) tradizionali, generiche e indistinte, ha superato anche l’epoca dell’individualizzazione delle politiche e ha avviato, invece, l’era di progetti mirati ad una reale personalizzazione, passando dall’efficienza (centrata sul potenziamento del Know how), alla motivazione (Know what) e soprattutto sul senso dell’agire umano delle persone e sul committment nel contesto lavorativo, investendo sul Know why (Cocozza, Persone organizzazioni lavori, 2009). Del resto è noto che in un contesto organizzativo collaborativo, motivante e fiducioso i risultati sono tendenzialmente migliori e più efficaci. In conclusione, come aveva già indicato opportunamente Wright Mills (White Collars: The American Middle Classes, 1951), si può sostenere che il lavoro dei colletti bianchi ha smesso di svolgere una funzione esclusivamente strumentale e ha cominciato ad avere un ruolo espressivo attraverso il quale la persona manifesta il proprio essere sociale e, per mezzo di esso, realizza le proprie massime aspettative: sentirsi motivato in quello che fa, gioire dei risultati del proprio lavoro, impegnarsi per un lavoro “ben fatto” eticamente orientato e socialmente responsabile.

(*) Antonio Cocozza è Docente di Comunicazione d’Impresa e gestione delle risorse umane Università Roma Tre e Università Luiss Guido Carli

 

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