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La socialità che emerge dalla contrattazione

Il contesto: la crisi e il secondo welfare.

L’Italia ha ormai raggiunto e superato una “soglia” oltre la quale il ritorno al modello di welfare pre-crisi non sembra non solo possibile ma neppure auspicabile, a causa del radicale cambiamento dello scenario sociale ed economico in cui tale modello è stato istituito e si è consolidato. 

I cambiamenti demografici e delle strutture familiari mettono a repentaglio le “capacità di welfare” del principale ammortizzatore sociale italiano, la famiglia. L’allungamento dell’aspettativa di vita media ha implicazioni, oltre che sui bisogni assistenziali, sulla distribuzione degli oneri di cura: combinato al prolungamento dell’età delle donne primipare, contribuisce all’incremento di quella generazione “sandwich” schiacciata contemporaneamente tra la cura dei figli e dei genitori anziani e non autosufficienti. Un problema che in Italia – senza adeguati strumenti di caregiving familiari per bambini e anziani – potrebbe peggiorare ulteriormente i livelli di occupazione femminile già ampliamente inferiori alla media europea. 

Parallelamente alla crescita e all’aumento della complessità dei bisogni sociali, assistiamo al taglio delle risorse per farvi fronte particolarmente a danno degli enti locali, che negli ultimi anni – a causa della pesante contrazione dei trasferimenti statali – hanno acquisito sempre più importanza nell’erogazione dei servizi di welfare. Dal 2008, la crisi economica ha poi drammaticamente influito sui tassi di occupazione, ampliando ulteriormente gli squilibri già esistenti tra generazioni, livelli di istruzione e regioni italiane.

Per “conciliare” il contenimento della spesa pubblica e la sostenibilità del sistema di welfare statale con la tutela dei nuovi rischi che derivano dall’invecchiamento della popolazione, dalla maggiore flessibilità del mercato del lavoro e dall’aumento delle spese sanitarie, una possibile soluzione è costituita dall’emergere di un “secondo welfare” che racchiude tutte le iniziative non solo di protezione ma anche di promozione e investimento sociale in grado di favorire un reale rinnovamento del modello di welfare attraverso il coinvolgimento di attori economici e sociali quali imprese, sindacati, enti bilaterali, fondi previdenziali, casse professionali, fondazioni, assicurazioni, il terzo settore e gli enti locali. 

Tra gli attori del secondo welfare spiccano certamente le aziende e i sindacati: soggetti in grado di implementare politiche di welfare aziendale capaci di accrescere il benessere dei lavoratori e, in un numero crescente di casi, dei territori in cui hanno sede e delle loro comunità. Agendo in modo integrativo rispetto al primo welfare, il welfare in azienda può favorire uno scambio virtuoso fra miglioramento del benessere dei lavoratori e una maggiore efficienza produttiva dell’impresa, la riduzione dell’assenteismo e la migliore qualità dei prodotti attraverso il ricorso alla contrattazione di secondo livello – aziendale, ma anche inter-aziendale e territoriale – per dare legittimazione e continuità alla nuova forma di scambio tra le parti.

 

Il welfare aziendale: i protagonisti e le prestazioni

Il welfare aziendale è generalmente inteso come l’insieme di benefit e servizi forniti dall’azienda e dai sindacati ai dipendenti al fine di migliorarne la vita privata e lavorativa in numerosi ambiti, dal sostegno al reddito familiare e alla genitorialità, alla tutela della salute e fino a misure per il tempo libero e agevolazioni di carattere commerciale. 

In Italia, le imprese hanno ormai da tempo superato il modello tradizionale di “paternalismo industriale” in voga negli anni ’50, e si avviano oggi a definire modelli di welfare aziendale  – o meglio dire, di welfare contrattuale – meno discrezionali, più condivisi con i lavoratori e attenti alle mutate esigenze della forza lavoro, e spesso integrati nella strategia aziendale per migliorare le prestazioni lavorative. I pacchetti di welfare rientrano da un lato nella strategia interna di “rewarding” dei dipendenti che, più soddisfatti e motivati, svolgono meglio il loro lavoro e scelgono di non lasciare l’azienda, e dall’altro costituiscono una ampia fetta delle politiche di responsabilità sociale d’impresa promosse dalla Commissione europea e sempre di più sotto lo sguardo attento di tutti gli stakeholder, lavoratori, azionisti e consumatori.

Impresa e sindacato hanno la responsabilità, e al tempo stesso l’opportunità, di discutere insieme la spesa per le politiche di welfare rivolte ai dipendenti e alle loro famiglie e le direttrici di sviluppo più opportune in base ai bisogni della popolazione aziendale. Se per l’azienda si tratta di una strategia lungimirante di investimento sul proprio capitale umano interno, i rappresentanti dei lavoratori possono invece contribuire alla definizione dei benefit e alla supervisione circa la corretta erogazione, nonché assicurarne la continuità nel tempo attraverso l’inclusione negli accordi aziendali. Specialmente quando l’inserimento di strumenti di welfare si configura come trade-off con il salario – nei casi in cui ad esempio l’azienda disponga l’introduzione di un benefit per “compensare” la mancata possibilità di aumenti salariali, per “mitigare” l’effetto di una riorganizzazione aziendale o proponga la conversione in welfare di parte del salario variabile – il ruolo delle rappresentanze sindacali risulta cruciale sia per “vigilare” il processo sia per certificarne la legittimità agli occhi dei lavoratori una volta raggiunto un accordo con il datore di lavoro. 

Le relazioni industriali giocano dunque un ruolo fondamentale nello sviluppo del welfare aziendale, specialmente a livello decentrato ma certamente anche con le posizioni e le “linee guida” in materia di contrattazione di secondo livello espresse sia dalle associazioni datoriali che dalle diverse sigle sindacali a livello nazionale. 

Tra i “protagonisti” del welfare in azienda c’è però anche lo Stato, che favorisce lo sviluppo del welfare aziendale attraverso le agevolazioni fiscali previste per la fornitura di beni e servizi da parte delle imprese ai propri dipendenti. Tra le principali motivazioni che spingono alla creazione di piani di welfare per i dipendenti, le aziende menzionano proprio la possibilità di sfruttare gli sgravi fiscali previsti negli articoli 51 e 100 del TUIR e, a testimonianza della rilevanza del nuovo business, sono ormai numerose le società di consulenza e servizi nate nel nostro Paese proprio per progettare, implementare e gestire sistemi di welfare aziendale. Sono in molti oggi – studiosi, aziende e rappresentanti delle istituzioni – a chiedere un aggiornamento della normativa fiscale per quanto riguarda la lista dei beni e servizi ammessi, i limiti di deducibilità, e soprattutto l’ambiguità circa il requisito della volontarietà che sembrerebbe escludere i servizi inseriti nella contrattazione dal godimento di quei benefici fiscali che consentono un risparmio sia al datore di lavoro sia al lavoratore. 

I pacchetti di welfare aziendale si compongono generalmente di quattro aree di intervento: la previdenza complementare, la sanità integrativa, le politiche per la famiglia, e i programmi di formazione. Alle prime due, più “consolidate” all’interno dei piani retributivi, si sono aggiunti più di recente i beni e servizi di conciliazione vita-lavoro, finalizzati al miglioramento dell’equilibrio tra lavoro e vita privata di tutti i lavoratori attraverso una grande varietà di servizi, che vanno dal sostegno economico all’aiuto nel disbrigo delle commissioni. Un ambito che in Italia riguarda però ancora in particolare le lavoratrici donne, divise tra lavoro e compiti di cura dei figli e/o dei genitori anziani e spesso costrette a riconsiderare le proprie prospettive lavorative e di carriera – fino a rinunciare al posto di lavoro – a causa della mancanza di un’offerta adeguata di servizi dedicati a bambini e anziani. L’ambito del work-life balance si divide a sua volta in tre sottocategorie, corrispondenti alla natura del benefit offerto: denaro, servizi e tempo. Con denaro si intendono tutti gli strumenti di sostegno al reddito familiare che prevedono l’erogazione monetaria – come ad esempio i rimborsi delle spese scolastiche o del costo dei libri di testo – mentre i servizi vengono forniti direttamente dall’azienda e, spesso, all’interno della stessa struttura di lavoro come asili nido aziendali e sportelli informativi e di consulenza psicologica, sanitaria o legale. Il tempo rappresenta certamente la categoria più diffusa in questo periodo di crisi economica: gli strumenti di flessibilità come il part-time, la flessibilità oraria in ingresso e uscita, e le novità introdotte sotto l’etichetta di lavoro agile sono infatti per l’azienda “benefit a costo zero”, che necessitano però di uno sforzo di riorganizzazione interna delle attività e del personale. 

Agli strumenti di flessibilità a costo zero si aggiunge però la disciplina dei permessi e dei congedi, che stabilisce invece le condizioni di miglior favore rispetto alla normativa e ai contratti collettivi nazionali vigenti per quanto riguarda il diritto a usufruire di permessi retribuiti e la possibilità di ricevere da parte dell’azienda integrazioni del salario durante il congedo di maternità. 

Rientrano infine sempre più spesso nell’accezione di welfare aziendale i programmi di formazione e life-long learning offerti ai dipendenti: nonostante si tratti di iniziative talvolta specifiche e legate all’utilizzo di nuove tecnologie produttive, finalizzate all’aggiornamento delle competenze dei collaboratori nell’interesse aziendale, queste costituiscono al tempo stesso importanti occasioni di apprendimento che, specialmente se riferite a competenze più generali come ad esempio corsi di informatica e di lingua straniera, arricchiscono il profilo professionale e culturale dell’individuo. 

 

Welfare aziendale e PMI: criticità e prospettive

Sono ormai numerose le indagini svolte da aziende e società di consulenza che mostrano come il welfare aziendale costituisca per le imprese che lo introducono una strategia di motivazione del personale e di miglioramento del clima aziendale capace di portare risultati in termini di ridotto assenteismo, maggiore produttività, generale miglioramento del clima interno e delle relazioni sindacali, nonché un reale aiuto alle persone che si sentono più serene e valorizzate. 

La vera forza del welfare aziendale risiede nelle sue potenzialità nel fornire nuove risposte a quei bisogni sociali emergenti sui territori e ancora privi di tutela, e in questo senso la sfida per il futuro consiste nel dare la possibilità anche alle piccole e medie imprese – che costituiscono la stragrande maggioranza delle aziende italiane – di poter offrire soluzioni di welfare ai propri dipendenti. Da sole, le PMI non hanno la forza economica e organizzativa e neppure la massa critica necessaria per implementare sistemi di welfare aziendale efficienti ed economicamente sostenibili, e necessitano dunque di strumenti innovativi per “mettersi in rete” condividendo costi e servizi e facendosi carico collettivamente delle incombenze organizzative e amministrative. Le soluzioni ad oggi più utilizzate per favorire l’allargamento dei benefici del welfare aziendale alle comunità locali attraverso sistemi inter-aziendali e territoriali sono: gli accordi tra associazioni datoriali e sindacali sotto forma di patti per lo sviluppo; l’aggregazione tra imprese attraverso lo strumento delle reti d’impresa; i contratti di secondo livello; la pubblicazione da parte di amministrazioni regionali e locali di bandi per il co-finanziamento di reti inter-aziendali per le PMI. 

Se un ruolo di primo piano rispetto alla diffusione del welfare nelle PMI è certamente occupato dalle relazioni industriali – particolarmente a livello decentrato – attraverso l’inserimento di servizi di welfare negli accordi aziendali e territoriali, la connessione tra welfare e reti di imprese appare in prospettiva futura una grande opportunità che consente di guardare al rinnovamento del sistema di tutele con più ottimismo. 

Uno strumento, quello della rete d’impresa, nato per ragioni di competitività e internazionalizzazione che viene “convertito” alla condivisione di risorse e progetti finalizzati all’offerta di nuovi servizi per aiutare i lavoratori a fare fronte alle necessità della vita quotidiana, che possono al tempo stesso favorire lo sviluppo di strutture sul territorio e di occupazione nel settore dei servizi alla persona.

Lo sviluppo del welfare aziendale, grazie all’offerta di misure strutturate per rispondere a rischi e bisogni che il welfare pubblico non riesce parzialmente o totalmente a fronteggiare, può portare indubbi benefici a chi lavora all’interno dell’azienda – in special modo alle donne – e avere effetti indiretti sulla comunità e il suo territorio. In un’ottica sistemica, esso può contribuire all’alleggerimento della pressione sul bilancio pubblico, al rafforzamento dei legami tra imprese e territori che le ospitano, e alla promozione di una nuova economia mista dei servizi che potrebbe a sua volta generare effetti positivi sulla crescita economica e sull’occupazione, in particolare quella femminile. 

Il welfare aziendale potrà però costituire un “tassello” nel nuovo welfare mix solo se riuscirà ad “allargare” le tutele, scongiurando il rischio di creare una ulteriore frammentazione dei diritti tra aziende di diverse dimensioni, tra categorie di lavoratori, e tra territori.

(*) Università degli Studi di Milano, Laboratorio “Percorsi di secondo welfare”, Centro Einaudi di Torino

 

 

Contatti:

Franca Maino, franca.maino@unimi.it

Giulia Mallone, giulia.mallone@secondowelfare.it

 

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