Le elezioni del 31 maggio nelle 7 Regioni che ancora dovevano rinnovare gli organi istituzionali sono state vissute più come una verifica di middle term del Governo centrale, che come giudizio sia delle scelte che interessano i territori specifici che dell’adeguatezza del personale politico. Non è compito ed interesse di questa newsletter entrare nel merito dei risultati e delle conseguenti valutazioni. Ovviamente, ci sarebbe tanto da dire, poiché gli insegnamenti che emergono da questo voto sono molteplici e interessanti. Le semplificazioni – del tipo, tutti vincitori, perché tutti i partiti più importanti così le hanno interpretate – non aiutano a leggere con un po’ di distacco i messaggi inviati dagli elettori ai loro rappresentanti.
L’unico su cui vale la pena soffermarsi è il dato dell’astensione. Quando un cittadino su due non va a votare, accentuando un trend in atto da tempo, vuol dire che qualcosa si è già inceppato in quella che viene chiamata la democrazia rappresentativa. E’ vero che, in prima battuta, la colpa è sempre di chi non partecipa. Ma è fuori di dubbio che il livello di rappresentatività significa pure qualcosa. E guidare l’istituzione Regione non sapendo come la pensa la metà della popolazione avente diritto al voto, qualche interrogativo credo che se lo debbano porre quanti, a partire dai neo Presidenti, dovranno prendere decisioni nel corso della legislatura. Come c’è da chiedersi se tra le ragioni della rinuncia a votare non vi sia anche una crescente disaffezione per un’istituzione, come la Regione, che non ha dato segnali di eccellenza né sotto il profilo dell’efficienza governativa, né dal punto di vista della formazione delle classi dirigenti, né soprattutto nella caratterizzazione morale dei comportamenti.
In ogni caso, con queste elezioni, si completa sostanzialmente il rinnovo di tutti i responsabili delle Regioni. Ad eccezione di due, la guida delle Regioni è affidata a coalizioni di centrosinistra. Cioè a sistemi di alleanze difformi da quella che caratterizza l’attuale Governo centrale. Al di là di questa contraddizione e del fatto che, indipendentemente dai sistemi elettorali difformi con i quali si è votato a scala regionale, il bipolarismo – sia pure di coalizione – si conferma ovunque, è da aspettarsi che le politiche che verranno adottate dalle Regioni – dato l’alto tasso di identità di schieramento – siano meno divergenti di quanto si è verificato finora. In particolare su due ambiti, quelli di maggior rilievo per competenza e per risorse, quali la sanità e il lavoro.
L’aspettativa più grande che si può avere in fatto di sanità è che tutte le Regioni decidessero di allinearsi agli standards di costi, di prestazioni e di organizzazione che assieme definiscono. Senza attendere un nuovo Cottarelli che dall’alto imponga regole e tetti, sarebbe significativo che divenisse programma comune quello di realizzare nella legislatura di loro competenza un’omogeneità di condizioni nell’offerta sanitaria. Sarebbe anche uno stimolo sferzante verso lo Stato nella sua responsabilità di coordinamento e di completamento del Servizio nazionale, per esempio per quanto riguarda le politiche del farmaco. Come sarebbe interessante che ponessero un’attenzione particolare allo sviluppo del secondo welfare, contrattato o non, per ampliare le possibilità di una collaborazione tra pubblico e privato su questo terreno così sensibile per la gente.
Quanto alle politiche per il lavoro, il dato interessante che le accomuna tutte è che proprio a partire da questi mesi, inizia l’operatività del nuovo ciclo dei fondi strutturali, alimentati da risorse europee, per il periodo 2014/2020. E’ una fetta consistente delle risorse a disposizione delle Regioni. Sarebbe importante che, almeno per questo nuovo ciclo non si ripeta ciò che è avvenuto finora: che, soprattutto le Regioni meridionali, non hanno speso quanto veniva messo a loro disposizione. Una fattiva collaborazione tra Regioni collaudate nel programmare in tempo e con rigore questa spesa e Regioni più in difficoltà, potrebbe favorire il raggiungimento di questo obiettivo. Specie se una più intensa gestione coordinata tra i diversi fondi nella stessa Regione ponesse al centro l’occupazione, a partire da quella giovanile. Si eviterebbe lo scempio di assistere alla programmazione di corsi di formazione del tutto slegati dalla programmazione degli investimenti.
E c’è un altro capitolo inedito che si pone di fronte alle Regioni. Come dare un nuovo impulso alle politiche attive del lavoro, cuore delle indicazioni che Bruxelles assegna alla nuova programmazione. Lo sventagliamento delle esperienze accumulate negli anni non è giustificabile. Occorre un disegno organico che impronti l’azione programmatoria delle Regioni. Questo dovrebbe essere il core business delle Regioni in fatto di sostegno all’incrocio tra domanda ed offerta di lavoro. Invece, si profila una curiosa discussione sulla nascente Agenzia per l’occupazione. Dovrebbe essere l’”eta beta” per le politiche per il lavoro, ma senza braccia armate per operare. I centri per l’impiego, orfani delle Province, invece di fare capo all’Agenzia nazionale, verrebbero assegnati alle Regioni. Non esiste esempio identico in Europa. In Germania, dove pure i Land hanno molte competenze sul lavoro, non si sognerebbero di smembrare la loro Agenzia nazionale dotata di ben 120000 addetti all’orientamento e all’accompagnamento al lavoro (in Italia, nei centri dell’impiego ci sono 8000 addetti). Ovviamente, le Regioni chiedono che sia lo Stato a dotarle delle risorse per finanziare i centri dell’impiego. Un vero pasticcio che l’insieme delle Regioni dovrebbero sciogliere senza creare sovrabbondanza di leggi concorrenti.
In definitiva, non sarà insignificante quanto riusciranno a fare le Regioni anche sul tema del lavoro. Forse, agendo con impegno e rigore, potranno convincere quanti non sono andati a votare a non ripetersi e ad aumentare il loro senso di partecipazione attiva.