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Sarebbe migliore con più spazio alle parti sociali

La stagione che stiamo attraversando segna in maniera marcata la parabola discendente dello statuto dei lavoratori (1).

Questa legge, di importanza centrale per il tradizionale assetto protettivo del diritto del lavoro, è stata logorata in più punti dal tempo trascorso.

Sul versante della sua anima promozionale lo smottamento più rilevante era stato prodotto dal referendum sull’articolo 19, norma che ora sopravvive sull’instabile lettura datane dalla Corte costituzionale.

Sul versante della disciplina del rapporto di lavoro le rigidità che essa aveva cercato di imporre – in risposta alle negative esperienze degli anni ’50 – si stanno sgretolando sotto le spinte delle dinamiche economiche che inducono il legislatore, assillato dal problema occupazionale, a conferire crescente rilievo alle ragioni dell’impresa ed a concepire la protezione del lavoro come fondata, in primo luogo, sulle capacità competitive di quest’ultima.

Pensiamo a ciò che è accaduto, già da qualche tempo, all’istituto del collocamento, che pretendeva di imporre una forte rigidità in entrata secondo una logica distributiva delle occasioni di lavoro. Il collocamento numerico, che lo statuto voleva rendere più effettivo e condizionato dalla presenza del sindacato (artt. 33 e 34), è stato completamente travolto, come è noto, negli anni 90 ed al suo posto si è delineato un collocamento inteso come servizio al libero incontro tra i lavoratori e le imprese (sappiamo che si tratta di un disegno che, nella maggior parte dei casi, stenta a tradursi nella prassi).

Sempre per quel che riguarda il rapporto di lavoro, si pensi a ciò che qualche mese fa è accaduto all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori (rigidità in uscita). Percorrendo con maggior decisione la strada già aperta dalla legge Fornero quell’articolo è stato ridotto a ben poca cosa (2), nella convinzione che esso – anche se già indebolito dalle complicate formule della legge Fornero – continuasse a costituire un incentivo alla fuga delle imprese dalle assunzioni a tempo indeterminato e, quindi, un elemento influente sulla condizione di precarietà degli outsiders (3).

Ora, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, si è provveduto alla revisione di un’altra rigidità, quella relativa alle mansioni (art. 13).
Dopo la flessibilità numerica, garantita dal “contratto a tutele crescenti“ (4) , si assicura anche la flessibilità gestionale relativamente ai compiti lavorativi esigibili dal datore di lavoro. Un’altra flessibilità gestionale è in arrivo, attraverso la modifica dell’articolo 4, sui controlli a distanza. (5) 

Non ci si può esimere dall’esprimere una sintetica valutazione complessiva delle scelte che si stanno compiendo sul versante della
“flessibilità”. Devo dire che, nella maggior parte di esse, sembra prevalente un carattere alquanto regressivo.
Questa valutazione non è suggerita dal fatto che siano state messe in discussione storiche rigidità; queste certamente da tempo
necessitavano di essere corrette e riequilibrate, poiché sortivano effetti controproducenti. E’ frutto, invece, della considerazione che la strada scelta per metterle in discussione non fa evolvere il sistema protettivo  limitandosi ad un semplice percorso erosivo, di retromarcia; nella sostanza, di semplice smantellamento di tutele, con restituzione secca di margini di potere al datore di lavoro, che si cerca di alleggerire dai costi di una legislazione cresciuta a dismisura e pesantemente affidata agli incerti esiti della mediazione giudiziaria.

Trovandoci di fronte ad un governo di centro sinistra ci si poteva aspettare che la strada fosse un’altra; quella dell’ esplicita valorizzazione della regolazione prodotta dall’autonomia collettiva, che dovremmo considerare lo strumento fisiologico e prevalente della regolazione lavoristica, naturalmente vocato a trovare un dinamico bilanciamento tra le spinte economiche ed organizzative e le esigenze di protezione dei lavoratori. Sappiamo che la politica legislativa dei rinvii ai contratti collettivi da parte della legge è stata già ampiamente praticata in passato. Sarebbe stato opportuno valorizzarla con maggiore capacità sistematica e, soprattutto, con un impegno attivo del governo (proprio in virtù della sua attitudine al decisionismo) ad aiutare e spingere gli attori sociali (in primo luogo al livello confederale) a trovare soluzioni innovative, promuovendo assunzione di responsabilità da parte di essi. In questa prospettiva rilievo centrale avrebbe dovuto avere un intervento legislativo mirato, più che ad una minuta disciplina dei rapporti di lavoro, a sostenere la capacità regolativa del sistema di relazioni industriali, anche considerando che di recente è stata conclusa un serie di accordi interconfederali, animati da intenti apprezzabili (si vedano le premesse all’accordo del giugno 2011), meritevolmente finalizzati a conferire maggiore efficienza al sistema della regolazione collettiva.

Invece, i più recenti interventi legislativi si caratterizzano per il plateale ripudio del metodo della concertazione e per la svalutazione della politica dei rinvii alla contrattazione collettiva. In questi interventi l’autonomia collettiva, tranne che in alcuni casi sporadici (6) , non è esplicitamente concepita come una risorsa per la regolazione (anche se poi è prevedibile che questo apparente arretramento della tutela legislativa sia destinato ad aprire spazi alla contrattazione (7). Ci si deve chiedere se questo atteggiamento sia figlio di una scelta di schieramento del governo sul mercato politico (ricerca di consenso a spese del sindacato, indicato come soggetto conservatore, votato alla difesa dell’interesse degli insiders (8), oppure sia figlio di una scelta orientata da un senso di sfiducia nei confronti della capacità del sindacato di assumersi responsabilità di regolazione, essendo esso diviso e gravato, in alcune sue importanti componenti, da una cultura antagonistica. A ben vedere, le due prospettive non si escludono a vicenda, anche se la seconda potrebbe avere un peso non indifferente (non si può negare che, purtroppo, gli attori sociali nazionali – se si fa eccezione per lo sprazzo degli accordi interconfederali richiamati poco fa, che peraltro stentano a ricevere le necessarie implementazioni. – sembrano trovarsi in uno stato di catalessi che finisce per favorire la loro delegittimazione). A questo punto mi chiedo anche quanta responsabilità nella qualità regressiva di questi percorsi sia da addebitare a quella parte della sinistra, che definirei “romantica” e “benaltrista (9) , ostinata nel considerare quelle rigidità come intangibili tabù (10), e quindi non disponibile
a riconsiderare criticamente l’effettiva adeguatezza della disciplina di determinati istituti e non disponibile alla ricerca di tecniche alternative di tutela dei beni che le stanno a cuore; una sinistra pesantemente condizionata dalla – certo non gratuita, ma unidimensionale e quindi riduttiva – visione del potere imprenditoriale come naturalmente vocato alla prevaricazione e quindi socialmente pericoloso; un sinistra che, negli anni ’80 soprattutto, dava per scontato che le spinte alla flessibilità provenienti dalle imprese fossero solo espressione di una rivincita, di una richiesta di riequilibrio dei rapporti di forza rispetto a quelli che si erano
espressi negli anni della conflittualità permanente e non voleva considerare che quelle spinte avevano ben più profonde motivazioni, scaturenti dalle modificazioni indotte dalle dinamiche economiche. Questo suo miope atteggiamento l’ha condannata ad una tattica difensivistica, di semplice gestione dell’arretramento. La sua capacità di condizionamento del decisore politico ha imposto percorsi molto lenti, faticosi e compromissori, con qualche venatura di ipocrisia. Gli esiti sono stati disastrosi.

Pensiamo a quello che è successo a suo tempo nella materia del collocamento. La difesa di un collocamento con pretese di distribuzione delle occasioni di lavoro, pur nella consapevolezza della sua ineffettività, si è protratta troppo a lungo, volta a volta accettandosi – a cominciare dalla seconda metà degli anni ’70 – allentamenti di quella pretesa a fini di incentivazione del datore di lavoro (11). Solo nel 1991 (con la legge n. 223) si è accettato il principio della richiesta nominativa e dal 1997 si è cominciato a voltar pagina (12). Non si può negare che il tempo perso in questo percorso certamente abbia influito sull’ attuale cronica debolezza
del sistema dei centri per l’impiego.
Una vicenda analoga si è consumata sull’articolo 18 (13). Opponendo l’idea che l’articolo 18 costituisce un irrinunciabile presidio contro la debolezza del singolo (14) e che un intervento su di esso si sarebbe inevitabilmente tradotto anche in una minaccia per l’esistenza dello stesso sindacato, non si è voluto considerare che nella pratica quell’articolo – in ragione della strutturale indeterminatezza delle fattispecie legittimanti il licenziamento, rimesse ai variabili esiti della mediazione giudiziaria, nonché in ragione, soprattutto, della lunghezza dei processi, che faceva lievitare a dismisura il risarcimento, senza riguardo alla gravità del comportamento datoriale – produceva effetti negativi sulla gestione. In particolare, quello di costituire un potente incentivo, per il datore di lavoro, all’accensione di rapporti di lavoro di carattere temporaneo, idonei ad evitargli il rischio degli eventuali costi connessi alla disciplina del licenziamento. Non si è voluto vedere che quell’articolo, se riusciva a tutelare l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, lo faceva principalmente nei termini indiretti del condizionamento derivante sul datore di lavoro dall’esistenza del rischio di cui si è detto, mentre nel contempo poteva offrire al singolo la chance di partecipare alla roulette giudiziaria, con la prospettiva di poterne ottenere un sostanzioso ritorno monetario.

L’articolo 18 è divenuto letteralmente un tabù dopo lo scontro tra Cofferati e Berlusconi (2002). Approfittando di una situazione di emergenza, quel tabù, come sappiamo, è stato toccato dal Governo Monti e non si è saputo reagire se non ottenendo una assai complicata soluzione compromissoria di contenimento, senza intervenire sulla vera radice del problema, che non sta tanto nell’articolo 18 (15), quanto nella strutturale indeterminatezza delle causali giustificative e nell’incertezza che ne deriva, la quale andrebbe governata (16).
Sempre nella prospettiva di contenimento della marea montante, che voleva mettere a frutto l’intollerabilità della divisione tra lavoratori stabili e lavoratori precari, la sinistra benaltrista, pur di non ragionare sul problema dell’articolo 18, si è dichiarata a favore della perfida idea del contratto a tutela crescenti (promuovere assunzioni a tempo indeterminato prevedendo l’ingresso della tutela dell’articolo 18 solo dopo alcuni anni). Ma cosa rappresentava questa disponibilità se non l’ammissione che il 18 produce un qualche effetto di disincentivazione della assunzione a tempo indeterminato? Purtroppo la storia si è ripetuta.

Interessata più a battersi sulla difensiva, per affermare l’intangibilità di alcuni suoi tabù, che non a proporre e ricercare soluzioni progressive, quella sinistra ha nei fatti finito per propiziare un effetto disastroso. L’idea del contratto a tutele crescenti si è trasformata in un cavallo di troia. E’ stata partorita la figura di un contratto a tutele crescenti che costituisce ben altra cosa da quella iniziale: semplicemente una nuova disciplina dei licenziamenti, che consolida la linea seguita nella legge Fornero attraverso una drastica e molto efficace semplificazione. Peraltro, bisogna riconoscerlo, un formale ossequio al tabù lo ha voluto pagare lo stesso legislatore nel momento in cui ha scelto di tenere indenni dalla nuova disciplina i rapporti di lavoro già in vita.

 (*) Professore ordinario di Economia industriale e mercato del lavoro all’Università La Sapienza di Roma 

 

NOTE

1  – F. Carinci, Il tramonto dello statuto dei lavoratori (dalla legge n. 300/1970 al Jobs act),
in Studi in memoria di Mario Giovanni Garaofalo, Bari 2015.
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2 – Si veda il d. lgsl. 4 marzo 2015, n. 23. Si sono seccamente restituite quote di potere
all’impresa. Se è vero che formalmente l’esercizio del potere di recesso continua ad essere
subordinato alla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, è altrettanto
vero che la monetizzazione della violazione in termini veramente blandi equivale a ridurre il
peso di quelle causali nella logica della gestione aziendale Eloquente, al riguardo, è anche l’
esclusione, nella nuova disciplina, di quel condizionamento che la decisione datoriale
potrebbe avere nella fase della conciliazione preventiva rispetto all’intimazione del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Sotto questo profilo un particolare rilievo
presenta anche la disposizione che consente la monetizzazione del licenziamento per
giustificato motivo soggettivo anche nel caso in cui il comportamento contestato al
lavoratore sia stato inequivocabilmente contemplato del contratto collettivo come passibile
di una sanzione conservativa (si pensi, ad esempio, ad un comportamento per il quale il
contratto collettivo esplicitamente preveda solo un richiamo verbale).
L’intento di correggere la Fornero relativamente a questo profilo era certamente
comprensibile, dal momento che la formulazione in essa contenuta non consentiva di
raggiungere l’obiettivo che si voleva perseguire, quello di limitare la sanzione della
reintegrazione ai casi più gravi di violazione della disciplina del licenziamento da parte del
datore di lavoro (infatti, il magistrato, esercitando il suo potere di apprezzamento della
gravità del comportamento del lavoratore, ben poteva disporre la reintegrazione ove avesse
ritenuto che quel comportamento dovesse essere passibile solo di una sanzione
conservativa). Probabilmente i redattori della Fornero sarebbero riusciti a cogliere nel segno
se, invece di escludere la monetizzazione con riferimento ai licenziamenti motivati da
comportamenti contemplati dal contratto collettivo come passibili di sanzione conservativa,
avessero escluso la sanzione della reintegrazione con riferimento ai licenziamenti adottati
per reagire a comportamenti del lavoratore qualificati dal contratto collettivo come passibili
di licenziamento, con riferimento ad essi ragionevolmente escludendo la possibilità di un
diverso apprezzamento da parte del magistrato (ad esempio, se il furto è previsto come
evento legittimante il licenziamento in tronco, può essere ragionevole precludere al
magistrato un diverso apprezzamento, ad esempio in considerazione dello scarso valore del
bene rubato).
Ad ogni modo, se era comprensibile che si volesse correggere la Fornero, è invece
difficilmente deglutibile, per la sua irrazionalità, la soluzione che si è data. Essa perpetra una
sfacciata svalutazione del dettato dell’autonomia collettiva. Sotto questo profilo
probabilmente si potrebbe sostenere la sua incostituzionalità perché, consentendosi al datore
di lavoro di “portare a casa” comunque un risultato in palese violazione di quel dettato,
esplicitamente si mortifica il principio della tutela del lavoro (35 Cost), che si esprime anche
attraverso l’esercizio dell’autonomia collettiva. Peraltro questa mortificazione avviene in
un’area – quella del potere disciplinare – che deve ritenersi neanche lontanamente
riconducibile a quella dialettica insiders/outsiders che può fornire un’alibi all’intrusione del
legislatore. In conclusione, la Corte potrebbe sostenere che è irragionevole sanzionare con
la reintegrazione il licenziamento discriminatorio e non anche l’inequivocabile violazione del
contratto collettivo.
BREVI OSSERVAZIONI SULLA REVISIONE DELLA DISCIPLINA DELLE MANSIONI CONTENUTA NEL
DECRETO LEGISLATIVO N. 81/2015 E SU ALCUNE RECENTI TENDENZE DI POLITICA LEGISLATIVA
IN MATERIA DI RAPPORTO DI LAVORO
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3 – Sembra che, su questo versante, la statistica cominci a registrare effetti positivi del
decreto, che ovviamente non sono di incremento dell’ occupazione – poiché questo può
essere propiziato solo dalla crescita economica – bensì di trasformazione di contratti
temporanei in contratti a tempo indeterminato.
Il legislatore cerca di contrastare la precarietà anche attraverso il tentativo di un
drastico ridimensionamento della figura delle collaborazioni a progetto prevedendo (art. 2,
d. lgsl. 15 giugno 2015, n. 81) che la disciplina del rapporto di lavoro subordinato trovi
applicazione anche ai rapporti di collaborazione “le cui modalità di esecuzione sono
organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro”. Come
sappiamo, un tentativo di contenimento era stato già fatto qualche anno fa (con la legge
92/2012) prevedendo limitazioni e presunzioni di subordinazione. Si era prodotta una
riduzione delle collaborazioni, ma solo in virtù della complessità del suo dettato e delle
conseguenti nuove incertezze che ne derivavano e che rendevano la materia un vero e
proprio campo minato. Ora il nuovo decreto segue la strada di una drastica semplificazione:
sopprime la figura del contratto a progetto e affida la selezione al criterio della
eteroorganizzazione della collaborazione.
Che dire? L’ intenzione di semplificare è sicuramente apprezzabile, ma bisogna riconoscere
che siamo ancora lontani da un quadro che possa offrire certezze. Si introduce un criterio
(la eteroorganizzazione) che dovrà essere chiarito, dal momento che si presta ad una
duplice lettura. Infatti, da un lato si potrebbe sostenere che la eteroorganizzazione sussista
solo in presenza di un potere, in capo al datore di lavoro, di modificazione delle modalità di
esecuzione della collaborazione; da un altro lato si potrebbe sostenere, invece, che il
concetto di eteroorganizzazione non necessariamente riguardi l’esercizio di un potere del
datore, essendo riferibile anche ad una eteroorganizzazione interamente configurata
consensualmente, all’interno del programma negoziale. Solo questa seconda lettura – che si
sostanzierebbe nel ritenere il criterio dell’ eteroorganizzzione una riproposizione, con altre
parole, del vecchio concetto di coordinamento – si presterebbe a prosciugare effettivamente
il bacino delle collaborazioni. In conclusione l’unica certezza è che dovremo assistere ad un
interessante lavorio della dottrina ed agli assestamenti della giurisprudenza. Da un
legislatore che vuole offrire maggiori certezze alla gestione aziendale, anche riducendo gli
spazi della mediazione giudiziaria, c’era da aspettarsi uno sforzo maggiore.
18 FRANCO LISO WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .IT – 257/2015

4 – E, ancor prima, dalla sostanziale liberalizzazione del contratto di lavoro a termine.
5 – Su questo articolo un intervento era necessario. L’evoluzione tecnologica da tempo ci
aveva ha messo di fronte ad una situazione che certamente non poteva essere contemplata
nel 1970 (anno di emanazione dello statuto dei lavoratori) e cioè alla diffusione nel tessuto
della organizzazione aziendale di dispositivi (come ad esempio il computer, lo smartphone)
necessari allo svolgimento dell’attività produttiva, ma idonei a raccogliere una messe di
informazioni sull’ attività svolta dal lavoratore. Si poteva ritenere che anche per questi
dispositivi si ponesse l’onere della negoziazione con il sindacato e si poneva il problema di
quali dati potesse essere fatta raccolta. Su questo secondo versante era successivamente
intervenuta la legislazione in materia di tutela della privacy e l’autorità istituita per la
gestione di questa legge (Garante per la protezione dei dati personali) nel 2006 aveva
dettato linee guida per il trattamento dei dati relativi ai lavoratori dipendenti da parte dei
datori di lavoro e pubblicato un vademecum (aprile 2015) riassuntivo delle sue prese di
posizione.
La nuova disposizione cosa fa?
Da un lato, perfidamente non riproduce espressamente quel divieto, sebbene sembri
presupporlo poiché continua a subordinare ad un accordo con le rappresentanze dei
lavoratori (o, in mancanza di accordo, all’autorizzazione dell’attività amministrativa)
l’installazione di strumenti “per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del
lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale” dai quali derivi anche “la possibilità di un
controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” (comma 1).
Da un altro lato, ha voluto esplicitamente sottrarre le aziende dall’impaccio del necessario
confronto con il sindacato (nonché dai limiti che da quel confronto potrebbero scaturire)
quando siano in gioco gli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione
lavorativa” e gli “strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze” (comma 2).
Da un altro lato ancora, statuisce che le informazioni raccolte ai sensi del primo e del
secondo comma siano utilizzabili legittimamente” a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro
”a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli
strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196” (la legge sulla protezione dei dati personali).
Nella sostanza quale effetto produrrà questa norma? Verrà esplicitamente svalutata la
mediazione sindacale ed il potere aziendale verrà assoggettato ai soli limiti che potranno
derivare dalla normativa sulla protezione dei dati personali La gestione di questa normativa,
tuttavia, non potrà essere orientata, come accadeva nel precedente quadro, dall’esistenza di
un principio generale di divieto di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, poiché,
come abbiamo visto, la norma è stata riscritta senza riprodurre l’affermazione di quel
principio. Se ne deve trarre la conclusione che – salvo problematiche forzature che si
possano fare del principio della privacy – si spalanca la strada a pervasivi controlli della
prestazione lavorativa fatti con gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la
prestazione lavorativa. Il che costituisce un notevole arretramento sul piano dei principi, che
volevano una gestione del personale non affidata a vecchi modelli disciplinari da “grande
fratello” (penso a “1984” di Orwell). Si giustifica quindi la forte opposizione manifestata
dalle organizzazioni sindacali.
Ma anche qui va fatta un’amara considerazione: in fin dei conti, se il legislatore è
intervenuto, lo ha fatto perché evidentemente le parti sociali non sono state capaci di
governare le difficoltà applicative dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, di temperarne
l’eccessiva rigidità con riferimento a situazioni (penso alla possibilità di controlli meramente
difensivi) nelle quali era opportuno e ragionevole assumersi la responsabilità di trovare un
ragionevole bilanciamento e, se del caso, proporne al legislatore una riformulazione
condivisa. Non rimane che formulare l’auspicio che, da un lato, le organizzazioni sindacali,
ormai non potendosi permettere di stare al rimorchio del dato normativo, al massimo livello
assumano l’iniziativa di chiedere l’apertura di un tavolo di trattativa e, dall’altro, che la
controparte datoriale accetti il confronto con spirito costruttivo, non accedendo alla miope
prospettiva tattica di lucrare sul vantaggio che l’attuale formulazione della norma
concederebbe loro. La parti hanno necessità di rilegittimare il proprio ruolo di governo del
mondo del lavoro, anche nei confronti dello stesso legislatore, al cui variabile intervento non
possono delegare le proprie responsabilità.
BREVI OSSERVAZIONI SULLA REVISIONE DELLA DISCIPLINA DELLE MANSIONI CONTENUTA NEL
DECRETO LEGISLATIVO N. 81/2015 E SU ALCUNE RECENTI TENDENZE DI POLITICA LEGISLATIVA
IN MATERIA DI RAPPORTO DI LAVORO
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6 – Particolarmente apprezzabile, anche se non privo di risvolti problematici che avrebbero
potuto essere meglio governati sul piano tecnico, è il comma 2, lett. a, dell’art. 2, d. lgsl. n.
81/2015 nel quale si prevede l’esclusione dalla disciplina del lavoro subordinato delle
“collaborazioni per le quali gli accordi collettivi stipulati dalle associazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche
riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze
produttive ed organizzative del relativo settore”.

7 – Come si visto in precedenza, questa affermazione è destinata a trovare conforto proprio
nella materia delle mansioni.

8 – In verità questa è apparsa chiara nella vicenda relativa all’articolo 18: in un primo tempo
il presidente del consiglio dei ministri aveva affermato che l’articolo 18 non rappresentava
un problema, poi improvvisamente lo ha neutralizzato con la chiara intenzione di apparire
come paladino degli outsiders e di svecchiare la posizione del suo partito. Sul mercato
politico questo articolo ha storicamente rappresentato una partita di alto valore simbolico,
quantomeno a partire dallo scontro tra Cofferati e Berlusconi all’inizio degli anni 2000. Non
si può dire la stessa cosa per il periodo precedente. Si pensi, ad esempio, che negli anni ’80
lo stesso Cnel si era pronunciato a favore di una revisione di quell’articolo.
BREVI OSSERVAZIONI SULLA REVISIONE DELLA DISCIPLINA DELLE MANSIONI CONTENUTA NEL
DECRETO LEGISLATIVO N. 81/2015 E SU ALCUNE RECENTI TENDENZE DI POLITICA LEGISLATIVA
IN MATERIA DI RAPPORTO DI LAVORO
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9 – Ho trovato una efficace descrizione della sua antropologia nel romanzo di Francesco
Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi 2013.

10 – Ovviamente un discorso speculare andrebbe fatto anche sul versante
dell’associazionismo imprenditoriale, in genere pigramente interessato solo al discorso della
retromarcia.

11 – Si pensi, in particolare, al contratto di formazione e lavoro che nei primi anni ’80, con la
prospettiva di incentivare l’occupazione giovanile, consentiva di eludere varie rigidità sulle
quali non si riteneva opportuno intervenire direttamente (il giovane poteva essere assunto
con chiamata nominativa e a temine; inoltre della sua assunzione non si teneva conto ai fini
del calcolo della soglia di applicazione dell’articolo 18).
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12 – Per una ricognizione di queste vicende v. I servizi all’impiego, in Garofalo D. e M. Ricci,
Percorsi di diritto del lavoro, Cacucci, Bari 2006, 591-630 nonché la voce Servizi all’impiego
nell’Enciclopedia giuridica Treccani.

13 – Per un mio “sfogo” al riguardo v. più diffusamente Articolo 18 e dintorni, in Studi in onore
di Ghezzi, Cedam 2005,vol. I.

14 – E’ appena il caso di ricordare che la relazione tra articolo 18 e condizione di debolezza del
singolo nel rapporto di lavoro è stato sostenuto da una nota sentenza della Corte
costituzionale in materia di prescrizione dei crediti da lavoro.

15 – Al quale si poteva imputare solo che conteneva una sanzione ad una dimensione, non
graduabile dal giudice in ragione dell’ effettiva gravità del comportamento datoriale.
BREVI OSSERVAZIONI SULLA REVISIONE DELLA DISCIPLINA DELLE MANSIONI CONTENUTA NEL
DECRETO LEGISLATIVO N. 81/2015 E SU ALCUNE RECENTI TENDENZE DI POLITICA LEGISLATIVA
IN MATERIA DI RAPPORTO DI LAVORO
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16 – E invece si è accettata una soluzione di mera monetizzazione del rischio derivante dall’
incertezza della mediazione giudiziaria; in altri termini una soluzione volta ad immunizzare il
piano della gestione aziendale nei confronti della discrezionalità valutativa del magistrato.
E’ da ricordare che, nel corso dei lavori per l’approvazione della legge Fornero, in coerenza
con la sua cultura pragmatica, solo la Cisl aveva avanzato la proposta di prevedere, per i
licenziamenti motivati da ragioni economiche, un coinvolgimento del sindacato così come già
avviene per i licenziamenti collettivi. Questa proposta ha ricevuto una traduzione edulcorata
nella previsione del tentativo di conciliazione presso la dpl.
Molto di più si sarebbe potuto fare in questa prospettiva, se ci fosse stata la disponibilità a
ragionare. Ad esempio, dare veramente forza – rispetto al generico dettato della legge – ad
accordi collettivi – anche aziendali – volti a dettagliare le causali giustificative, in modo da
ridurre effettivamente la discrezionalità della mediazione giudiziaria; prevedere forme di
coinvolgimento della rappresentanza aziendale, idonee, da un lato, ad influire fattualmente
sulla decisione datoriale e, dall’altro lato, a coinvolgerla e responsabilizzarla sulle dinamiche
di gestione della comune barca, per questa via promuovendo quello di cui c’è veramente
bisogno, in particolare per il governo delle conseguenze negative prodotte dalle accentuate
turbolenze che da tempo stiamo attraversando: una cultura partecipativa. Un impianto di
questo tipo, in quanto naturalmente promozionale di una contrattazione delle politiche
aziendali idonee a favorire la stabilità occupazionale, avrebbe promosso maggiormente
l’interesse collettivo dei lavoratori alla stabilità del rapporto di lavoro, laddove la disciplina
tradizionale – come si è detto – si muove in una prospettiva meramente individualistica.

 

 

 

 

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