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Formazione, la bella esclusa dalle politiche del lavoro

Per scrivere ancora una volta, su invito dell’amico Raffaele Morese, sulla formazione permanente devo vincere un senso di rassegnazione e di impotenza che deriva da anni di predicazione inutile, dalla partecipazione a centinaia di riunioni e di convegni che si concludevano con una straordinaria unita’ nell’individuarla come l’anima delle politiche attive del lavoro, a cui non corrispondevano  azioni conseguenti. E persino norme di legge, come quella della recentissima legge Fornero, rimaste inattuate.

Elsa Fornero inseri’ col concorso del Ministro Profumo, allora al Miur, due commi importanti nella legge che porta il suo nome. Non si arrivava fino ad affermare il diritto alla formazione come diritto della persona, ma si facevano decisi passi avanti nel considerare, in una prospettiva unitaria, la crescita culturale, civile, sociale e occupazionale che la formazione permanente deve proporsi, rompendo finalmente la separatezza della formazione continua professionalizzante dall’educazione degli adulti, a fini culturali. 

La persona è unica e indivisibile, e la crescita professionale, culturale, sociale della persona va pensata in una prospettiva unitaria. E a questo fine si definivano le azioni integrate da mettere in atto da scuola, Universita’, imprese, col concorso delle Regioni, per costruire in Italia un vero sistema di formazione permanente. Ovviamente, i commi della legge avrebbero preteso puntuali decreti attuativi. Ma mentre la riforma Fornero trovò rapida attuazione nelle parti che permettevano ulteriore deregolazione del mercato del lavoro e risparmi, come gli interventi sul sistema pensionistico, rimase inattuata sul tema della formazione permanente, a dire il vero senza nessuna sollecitazione in proposito né delle forze sociali, né dei partiti.

Questa volta parlare di formazione permanente nei provvedimenti del Governo Renzi  e’ meno imbarazzante, perchè la formazione permanente semplicemente non c’e’, ne’ nella legge sulla scuola, ne’ nel jobs act. Eppure non sono nemmeno due anni che i dati dell’OCSE, che censivano in 28 Paesi le competenze alfanumeriche degli adulti in eta’ di lavoro, avevano diffuso una certa preoccupazione e sconcerto, che arrivò per qualche giorno persino sui media. 

L’Italia è ultima e penultima sia per quel che riguarda le competenze linguistiche che quelle matematiche. Il 70% della popolazione italiana e’ sotto il livello 3, che per l’OCSE è il livello minimo per vivere e lavorare dignitosamente nel mondo di oggi. Per quel che riguarda il rapporto formazione lavoro, il rapporto mette in rilievo come i giovani italiani, anche quelli più istruiti, nell’attesa del lavoro, e se svolgono lavori di precari e di bassa qualità, invece di acquisire competenze addirittura ne perdono.

La perdita di competenze nel lavoro è strettamente correlata al basso numero delle imprese che fanno sistematicamente formazione – il 30% delle imprese contro il 60% della media europea – e alla bassa qualità dei lavori che vengono offerti ai giovani. L’Italia ha, rispetto alla maggioranza degli altri Paesi dell’OCSE, una percentuale di lavori ad alta e media qualificazione nettamente inferiore.  

La crisi ha aggravato questo problema. Il rapporto di monitoraggio del mercato del lavoro del 2014 prodotto dall’ISFOL ci dice che il saldo negativo di posti di lavoro – 379000 posti perduti dal 2007 al 2012-  è  tutta da ricondurre alle professioni maggiormente qualificate che nel periodo si sono contratte di 1 milione e 393000 unità. Al contrario i lavoratori occupati in professioni di profilo medio e basso sono aumentati rispettivamente di 645 mila e 369 mila unità. Credo che questa sia la ragione fondamentale che fa si che il contratto di lavoro a tutele crescenti e la stessa decontribuzione abbiano inciso positivamente più sul tasso di disoccupazione degli over 50 che sui giovani, mediamente più scolarizzati. 

La crisi ha aggravato i problemi strutturali dell’Italia, che dipendono da un sistema di produzione di merci e servizi scarsamente capace di innovazione produttiva e di internalizzare  sapere . E’ vero che nella crisi il titolo di studio costituisce ancora un vantaggio relativo per trovare lavoro e per non rischiare di perderlo, ma questo significa solo che aumenta la percentuale di più istruiti che fanno lavori a bassa qualificazione, togliendo tra l’altro possibilità di lavoro ai meno scolarizzati. La retorica dominante continua a presentarci questa bassa qualità dell’ingresso al lavoro come una fase transitoria della vita.  Ma se la percentuale di lavori ad alta qualificazione che il nostro sistema produttivo è in grado di offrire continua a diminuire l’ingresso al lavoro povero e precario diventa una trappola da cui sarà sempre più difficile uscire. E la “trappola” è oggi la condizione di vita di tanti giovani istruiti del nostro Paese.

 Per far fronte al problema, i ministri Giovannini e Carrozza nominarono una Commissione di esperti, presieduta da Tullio De Mauro, che sintetizzò in un rapporto, fatto proprio dagli stessi Ministri, gli interventi necessari per superare quello che l’OCSE stessa considera il maggior ostacolo all’occupabilità delle persone  nel nostro Paese.

 In quel rapporto si individuano le azioni necessarie per costruire in Italia un sistema di formazione permanente, che richiedono un complesso integrato di interventi  che riguardano politiche innovative della scuola, della formazione professionale, dell’Università e scelte coerenti  delle imprese.  Ma cambiato il Governo e cambiati i Ministri il rapporto è rapidamente entrato nella clandestinità. Infatti ne’ nella sedicente “Buona Scuola” né nella misure sul mercato del lavoro del Governo Renzi  si trovano tracce dei contenuti di quel rapporto.

 C’è una incentivazione contributiva generalizzata per le nuove assunzioni senza alcun obbligo di formazione. Si rende addirittura possibile il demansionamento nei processi di ristrutturazione, in un Paese che, abbiamo visto, ha come uno dei suoi problemi principali il livello basso delle qualifiche e l’over education di una parte consistente dei propri lavoratori. 

 E con la legge finanziaria e la generalizzazione della decontribuzione c’è stato un brusco calo degli stessi contratti di apprendistato, che anche dopo i ritocchi in senso deregolatorio degli ultimi governi, mantenevano comunque un qualche obbligo formativo per le imprese nei confronti dei nuovi assunti.

La decontribuzione, come del resto l’intera logica del jobs act, continua una linea che sembra attribuire i problemi occupazionali dell’Italia al costo del lavoro e alle rigidita’ del suo mercato. Le evidenze vanno da tutt’altra parte. Le differenze fra i diversi paesi dell’Ocse rispetto alla creazione del lavoro sono molto più facilmente spiegabili coi differenziali di investimento in ricerca, istruzione, innovazione, che con gli interventi sul mercato del lavoro. E soprattutto da questo dipendono i differenziali di produttività dei sistemi Paese, che in Italia cala sia quando cresce, rendendo effimera la stessa crescita, che quando cala l’occupazione. Il basso valore aggiunto delle nostre produzioni e dei nostri servizi corrisponde alla bassa qualita’ e alla precarieta’ dei lavori offerti e alla scarsa attenzione nel valorizzare e nel far crescere le competenze. 

Di formazione si parla solamente nel decreto istitutivo della nuova Agenzia del lavoro, collegato alle operazioni di inserimento o reinserimento lavorativo.  Anni di esperienza sul campo dimostrano che quando la formazione appare nella vita delle persone solo nei momenti di crisi e difficolta’ molto difficilmente raggiunge i suoi scopi. Se la formazione non e’ vissuta dal lavoratore come un momento permanente della propria  vita lavorativa, collegata alla sua crescita professionale e culturale, difficilmente e’ in grado di aiutarlo nei momenti della perdita e della crisi. 

Soprattutto poi, quando e’ attivata in automatico, dopo una “profilazione” sommaria on line, sulla base del quale viene conferito al disoccupato un assegno di ricollocazione da spendersi verso i servizi per l’impiego o piu’ probabilmente, visto che la riforma e’ a costo zero e i servizi dell’impiego pubblico sono assolutamente sottodimensionati, verso le agenzie  di intermediazione private accreditate, che lo indirizzeranno verso un lavoro con le attivita’ di formazione necessarie.

L’ esperienza della Garanzia Giovani dovrebbe averci insegnato che gli unici risultati ottenuti, del resto molto limitati, da un metodo per molti versi simile a questo, hanno riguardato le figure professionali più facilmente collocabili, e in genere collocate in maniera sotto dimensionata rispetto alla professionalità posseduta e al livello di istruzione, quelle  comunque già “ready to work”, e che sono un buon affare per le agenzie, lasciando fuori le persone, giovani e anziane, più difficili da collocare.  Che hanno bisogno di interventi complessi e mirati al rafforzamento culturale e umano, di un rapporto diretto con un servizio capace di progettare percorsi e di intervenire sull’indebolimento complessivo della persona in stato di disoccupazione.  

Lavoro che da noi hanno provato a fare qualche volta i Comuni, come estensione dei propri servizi di welfare locale, e le Province. Molto possono fare anche la scuola e l’Università oltre alla Formazione professionalizzante.  Ma per far questo ci vogliono servizi per l’impiego, come in Germania, in Francia, nella stessa Inghilterra, radicati sul territorio, capaci di fare rete e di progettare percorsi che utilizzino l’insieme delle opportunità formative presenti nel territorio. Da  noi si accentra, mentre la tendenza delle altre  nazioni europee va verso il decentramento. Anche con conseguenze paradossali rispetto alla coerenza delle stesse politiche attive del lavoro. Con il lavoro sempre più di competenza nazionale e la formazione professionale lasciata alle Regioni !

Come è noto il  contratto a tutele crescenti nasce mettendo in mora l’articolo 18 e la giusta causa nei licenziamenti. E’ stato da più parti dimostrato come i vantaggi derivanti dalla decontribuzione compenserebbero ampiamente l’indennità economica che i datori di lavoro dovrebbero pagare se licenziassero i lavoratori dopo il primo triennio di contratto. Un pericolo reale. L’obbligo alla formazione potrebbe in qualche modo attenuarlo.  E più difficile non stabilizzare un lavoratore su cui si è investito in termini professionali. Ma una quota formativa dovrebbe essere a disposizione anche del lavoratore per poter investire su se stesso, vista la scarsa qualità del lavoro che è chiamato a svolgere e l’incertezza della sua vita lavorativa futura. Sarebbe auspicabile che le parti sociali recuperassero per via contrattuale il vuoto legislativo in proposito.  Magari riattualizzando quella straordinaria esperienza contrattuale che furono le 150 ore per il diritto allo studio, conquistata nei gloriosi anni 70 e ancora presente nei contratti delle maggiori categorie. E finalizzando in questo senso lo 0,30 per la formazione che le imprese sono tenute ad accantonare dopo il patto sociale del 1998. Prima che vengano progressivamente svuotate dagli interventi del Governo o regolate centralisticamente dalla neonata Agenzia del lavoro. Ricordandosi  che nel patto del 1998 era contenuto l’impegno ad aumentare la contribuzione  per la formazione allo 0,50, che è comunque inferiore alla contribuzione per la formazione di quasi tutti i Paesi europei. E magari promuovendo in tutte le imprese che utilizzano i fondi bilaterali il delegato alla formazione, accanto al delegato alla sicurezza.

E credo che sarebbe davvero interessante se una parte fosse dedicata a sostenere, con la formazione necessaria, i diritti all’informazione da parte dei lavoratori e dei sindacati sulle strategie industriali. Sarebbe davvero un bel segnale per l’Italia e per la credibilità del sindacato e delle parti imprenditoriali se in questa stagione contrattuale prendesse corpo un sistema formativo finalizzato alla stabilità del lavoro e alla qualità dei prodotti e dei processi produttivi, alla crescita culturale e professionale delle persone, alla democrazia industriale. Che è poi la mancanza più grave del jobs act.  E magari partendo da lì riaprire un confronto col Governo su cosa voglia dire fare politiche del lavoro che contrastino la finanziarizzazione dell’economia e aprano la strada all’economia e alla società della conoscenza.

 

 

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