Sono volati molti frammenti delle tante ragioni che hanno cercato di imporsi durante la lunga gestazione della legge sulla “buona scuola”. Ci vorrà del tempo perché la polvere sollevata ricada a terra e si possano vedere con più nettezza gli effetti che essa produrrà su un corpo molto fragile qual è quello della scuola italiana, soprattutto nei gradi oltre le elementari. Di sicuro, è molto difficile non condividere l’opinione di chi sostiene che si poteva fare di più e meglio. Ma è altrettanto certo che non fare sostanzialmente niente – com’è stato proposto o esplicitamente o “spacchettando” le assunzioni dal resto della riforma – sarebbe stato peggio.
Né è pacifica la tesi che quello a cui abbiamo assistito è stato uno scontro tra conservatori e innovatori. Si sono troppo intrecciati elementi di conservazione e di riformismo tra le forze e gli interessi in campo che, francamente, l’opinione pubblica è stata più stordita che informata, più imbonita che convinta. Né il Governo, né l’opposizione, né le forze sociali coinvolte hanno gestito una questione, delicata come non mai, con la dovuta attenzione verso il resto della società. Al punto che tanto il mondo intellettuale quanto quello produttivo (considerando sia le imprese che i lavoratori di altri settori) sono rimasti più alla finestra che discesi in campo.
Resto convinto che sulle questioni più controverse (assetto definitivo degli organici, ruolo dei presidi, valutazioni di questi e dei docenti, peso della contrattazione collettiva, miglioramento delle strutture scolastiche e delle tecnologie, equilibrio tra gestione pubblica e privata dell’insegnamento che, come dice Berlinguer “è sempre pubblico”) la parola fine deve ancora essere scritta e che neanche si sa come e da chi sarà scritta. Molto dipenderà dalla capacità elaborativa dei protagonisti più direttamente impegnati nelle scuole che dovranno dare senso concreto a quanto è stato conservato e a quanto invece viene rinnovato.
Ed i protagonisti sono sostanzialmente tre: i presidi, i docenti, i genitori e tutti insieme devono assicurare la “buona educazione” delle ragazze e dei ragazzi che frequentano questi posti del sapere. Non basta una legge per fare “buona scuola”; la può, al massimo, facilitare. Certo, se ci fosse stata più partecipazione e dialogo, sospetti, forzature e malintesi si sarebbero potuti ridimensionare. Una consultazione “fredda” on line, qualche sporadico incontro ufficiale tra Governo e sindacati, sbrigativi confronti parlamentari sono più surrogati di partecipazione che prove schiaccianti di ascolto e dialogo benvoluti.
Ma ora che la legge c’è, i tre protagonisti non possono fare altro che trovare la via della collaborazione. Per ben applicarla e semmai metterla in marcia su binari giusti. L’autonomia scolastica deve servire a questo, a saper dare una prospettiva di apertura della scuola al territorio, alle realtà culturali e produttive esistenti, alla valorizzazione del merito senza lasciare indietro nessuno. E questo può avvenire con più efficacia se il preside non si consideri l’”uomo solo al comando”, i docenti non si sentano lesi nella loro autonomia didattica, se i genitori la smettano di fare soltanto i sindacalisti dei propri figli. Al riparo di queste estremizzazioni, c’è un campo di sperimentazione vasto e stimolante.
Almeno attorno a due grandi questioni. La prima riguarda il “come” si insegna. Nella gran parte delle 368 mila aule scolastiche italiane, buona parte del tempo è assorbito da lezioni ed interrogazioni. Una didattica prevalentemente trasmissiva non consente un coinvolgimento motivante ed interattivo degli studenti. Una recente inchiesta (condotta da Observa Science in Society e contenuta nell’Annuario Scienza, Tecnologia e Società 2015) ha coinvolto 3500 ragazzi del secondo anno delle scuole superiori di tutto il territorio nazionale. Tra i tanti dati interessanti, è emerso che la propensione agli studi scientifici universitari è quasi 4 volte superiore tra gli studenti che hanno potuto utilizzare un laboratorio per esperienze scientifiche, rispetti agli altri.
Un cambiamento di mentalità, prima che di risorse ed entrambi devono essere assunti come capisaldi ineludibili da tutt’e tre le componenti fondamentali della scuola. Ma questo serve anche a combattere la dispersione scolastica. Non escludere nessuno, scrive Marco Rossi Doria, “è un’opera complessa, incerta, ma se la scuola pubblica va verso le persone per come sono, costruendo un solido sistema di alleanze e lavorando con i ragazzi e le famiglie, può riconquistare un terreno perduto, a patto che si metta in discussione” (La scuola è mondo, edizioni Gruppo Abele).
La seconda grande questione è l’orientamento. Con la nuova legge diventa obbligatorio organizzare l’alternanza scuola-lavoro nell’ultimo triennio della scuola secondaria superiore (almeno 400 ore negli istituti tecnici e almeno 200 nei licei). Dare sistematicità a questo avvicinamento della scuola e dell’impresa è fondamentale per sollecitare la migliore scelta possibile circa gli studi universitari o l’avviamento al lavoro.
Se ad esso si affiancherà un’altra sistematica capacità di far conoscere le dinamiche del mercato del lavoro, sia con incontri mirati con protagonisti delle attività produttive, sia con l’utilizzo di strumenti di conoscenza (portali ed altro) della varietà delle professioni e dei mestieri che più si adattano alla personalità del giovane, gli studenti e le loro famiglie ma anche gli insegnanti sarebbero messi nelle condizioni di orientarsi con maggiore consapevolezza.
Una sana alleanza su queste due questioni tra presidi, docenti e genitori sarebbe il miglior modo per rendere meno aliena la scuola, svuoterebbe la visione pseudo aziendalistica che da più parti, atorto o a ragione, si è voluto dare alla “buona scuola”, aprirebbe orizzonti nuovi all’impegno dei giovani. Non è poco.