Quando, da ragazzo, entrai in un grande laboratorio di ricerca, provai un emozione fortissima: già dalle scuole medie la scienza in generale e la fisica in particolare mi affascinavano, e in particolare mi attiravano i misteri dell’Universo, le grandi domande sulla struttura della materia e sull’origine del Cosmo, in poche parole l’infinitamente grande dell’astrofisica e della cosmologia, e l’infinitamente piccolo della fisica delle particelle elementari. Pochi anni dopo e quasi un quarto di secolo fa, negli stessi Laboratori Nazionali di Frascati dell’INFN (l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) entrai nuovamente come laureando per iniziare, di fatto, la mia carriera di ricercatore.
La consapevolezza sui problemi della scienza moderna era appena superiore a quella della prima volta: non ero più solo un ragazzo affascinato da Carlo Rubbia, fresco premio Nobel, e dagli articoli sulle riviste specializzate in divulgazione scientifica, e avevo toccato con mano la durezza e la serietà dello studio della fisica e della matematica che sono alla base delle congetture teoriche più accattivanti e degli apparati sperimentali più tecnologicamente avanzati, ma di certo non avevo ancora un’idea precisa di questo lavoro.
La prima considerazione che viene fuori quando ripenso a tutto il percorso che mi ha portato a fare il mestiere che sognavo di fare da ragazzo, è che in questi anni ho contratto un grande numero di debiti nei confronti delle moltissime persone che mi hanno insegnato quello che so e – per molti versi – quello che sono. Ancora oggi, nella mia vita professionale, mi rendo conto di quanto non solo io, ma in realtà ciascuno dei ricercatori con i quali mi capita giornalmente di interagire, a ben vedere sia stato influenzato dai suoi maestri: dai professori, dai colleghi più anziani e autorevoli, dalle personalità di riferimento nel proprio settore e nel proprio ambito ristretto di ricerca.
Ripenso a questo ogni volta che accetto di fare da tutore per una dissertazione, che seguo uno studente o lavoro con un dottorando e più in generale con un collega più giovane, così come quando mi rivolgo agli studenti di scuola superiore: sento, infatti, la responsabilità di trasmettere, oltre a qualche nozione, la percezione di cosa sia fare ricerca, e in piccola parte influenzare il ricercatore che sarà (se percorrerà fino in fondo questa strada).
Ho scelto, quindi, di fare il ricercatore, per una spinta interna verso la conoscenza, la curiosità, in altre parole, per come funziona il mondo, ma l’intero percorso è stato in realtà influenzato e determinato dalle tantissime persone che ho incontrato e che hanno dato forma alla mia percezione del mio campo di ricerca, in aggiunta alla conoscenze tecniche specifiche che ho appreso, e una parte dell’entusiasmo che ancora oggi mi sostiene, è legato alla consapevolezza non solo di dare un piccolo (e forse impercettibile) contributo all’avanzamento della scienza, ma soprattutto di contribuire a mantenere in movimento la catena di trasmissione del sapere che permette di continuare a procedere e migliorare.
Spesso nell’immaginario collettivo la vita del ricercatore è raffigurata come completamente dedita alla scienza e chiusa a tutti gli altri aspetti, e persino alle interazioni con gli altri esseri umani. Naturalmente ogni scienziato è una persona diversa, con la sua personalità e la sua esperienza di vita, ma quello che sicuramente ho rintracciato in tanti, forse quasi tutti, i colleghi che ho incontrato è la grande dedizione verso quello che è certamente un lavoro (infatti, non sempre, ma spesso ci pagano persino uno stipendio…), ma è soprattutto una grande passione.
Al di là di come ciascuno riesca poi a gestire il richiamo, a volte travolgente, di questa passione, e a conciliarlo con la propria vita personale, sicuramente la ricerca tende a totalizzare gli interessi, il tempo, e i pensieri stessi di chi la fa. Solo così, del resto, si possono concepire i grandi sacrifici che molti fanno per ottenere risultati importanti, e anche nel caso in cui non si faccia una vita “estrema” come alcuni grandi personaggi (i Curie, la Levi Montalcini, e i mille altri esempi che si potrebbero fare), nella maggioranza dei ricercatori che conosco rintraccio un impegno, un entusiasmo, una voglia di ottenere dei risultati, una dedizione al lavoro che vanno molto al di là del dovere “d’ufficio” e che spiego (guardando a me stesso) solo con la spinta fortissima che nasce dal fare un lavoro che è anche la propria passione. Del resto, a parte i rari casi in cui i risultati arrivano in modo quasi naturale e senza (apparente) sforzo, l’unico modo in cui la gran parte degli scienziati ottiene grandi e piccoli successi è attraverso il lavoro. In questo, la ricerca è estremamente onesta e non ammette scorciatoie, e il tempo e la comunità scientifica globale sono giudici severissimi ma anche giusti.
Dunque fare il ricercatore è un privilegio, una grande responsabilità verso i “grandi” che hanno costruito la conoscenza nei secoli passati e verso le generazioni future, e anche un mestiere che richiede grandissima dedizione e sacrificio, e dunque che richiede una “molla” interiore molto potente.
Una molla tanto forte che spesso spinge a cercare di affermare le proprie aspirazioni anche pagando un prezzo salato.
La nostra università e la nostra comunità scientifica sono tra le migliori al mondo. Quest’affermazione è sostenuta da una quantità enorme di dati e statistiche, ma anche dal gran numero di scienziati italiani che ottengono risultati di eccellenza in tutti i campi. Affermarlo non è un mero esercizio di orgoglio nazionale o di categoria, ma semplicemente il punto di partenza di un ragionamento: abbiamo, come Paese, una risorsa molto preziosa.
Un altro dato di fatto che si potrebbe facilmente dimostrare con una valanga di numeri, è che l’Italia investe nella ricerca e nella formazione meno di quello che servirebbe a mantenere e a migliorare la propria posizione tra i paesi avanzati. Il dibattito pubblico è spesso incentrato sul ruolo delle imprese rispetto a quello dello Stato, sui non pochi difetti dell’Accademia e delle inefficienze del sistema della ricerca, e sulle priorità di un Paese che ha un disperato bisogno di rilanciare la propria crescita economica. È però indubbio che in Italia la reazione alla crisi – a differenza di tanti altri Paesi, anche di economie più in difficoltà di quella italiana – è stata quella di diminuire l’investimento in conoscenza, alta formazione e ricerca scientifica e tecnologica.
Questi due dati, la capacità di formare ricercatori di altissima qualità da un lato, e lo scarso investimento in ricerca dall’altro, hanno creato negli ultimi venti anni le condizioni per un fenomeno che è diventato parte del senso comune con il nome assai infelice di “fuga dei cervelli”, che in realtà è la punta di un iceberg assai più importante e imponente, che è il ricorso massiccio a forme di lavoro precario nell’università e nella ricerca.
Il ricercatore e l’accademico si formano in un percorso di apprendistato che ricorda, per certi versi, quello delle antiche botteghe artigiane: il “maestro” raccoglie attorno a sé una scuola, dalla quale emergono le eccellenze future. Quello che sarebbe però un percorso naturale, a causa soprattutto della scarsità di risorse e dell’estrema difficoltà a far accedere al ruolo nuovi elementi, è diventato una vera e propria via crucis per molti di coloro che aspirano a diventare ricercatori e professori. Facendo leva sulla passione, su quel fuoco che ho cercato di descrivere, che anima molti, se non tutti, quelli che intraprendono questo percorso, la carriera accademica è diventata sempre di più, in questi anni, un continuo ricorso a forme contrattuali sempre meno stabili e meno garantite, un collage di contratti e “contrattini”, borse di studio e collaborazioni, periodi di “volontariato”, rincorse disperate ai (pochi) bandi nazionali e ai molto competitivi bandi europei.
Molti giovani brillanti vengono quindi catturati da un meccanismo che ha eletto la precarietà a sistema e che costringe a impiegare una quantità di tempo sempre maggiore alla ricerca del prossimo grant e del prossimo contratto, del prossimo cofinanziamento, piuttosto che del risultato scientifico.
Voglio essere chiaro: in modo estremamente cinico il danno maggiore per il sistema non è l’impossibilità per questi ricercatori di ottenere un mutuo, di accumulare contributi e anzianità di servizio, di progredire ai livelli superiori della carriera. Certo, per la vita delle singole persone e per i loro diritti anche di base (basti pensare alla tutela della maternità di una ricercatrice non assunta a tempo indeterminato), è una condizione difficile e penosa. Ma il danno irreversibile della prolungata precarietà e mancata immissione in ruolo dei giovani di valore è quello di frustrare l’iniziativa autonoma e la libertà di ricerca nel momento più creativo e fruttuoso della vita di uno scienziato. Se l’attività principale tra i trenta e i quarant’anni è quella di procurarsi i prossimi sei mesi di contratto, di preparare l’ennesima richiesta di fondi o l’ennesimo cofinanziamento, quale spazio resta per il colpo d’ala, per l’idea davvero nuova o per i tentativi apparentemente “folli”, gli unici che portano ai risultati davvero innovativi?
Da parte loro, le istituzioni scientifiche e le università strangolate da tagli di bilancio e spending review vengono poste davanti a dilemmi crudeli: finanziare nuove assunzioni o le legittime aspirazioni di chi è già in ruolo? Cercare di fare investimenti in infrastrutture di ricerca e progetti, o finanziare qualche altro contratto temporaneo per sostenere le attività? Fare di tutto per mantenere il livello di servizio di formazione e ricerca, dedicandosi a procacciare fondi esterni anche diversificando le proprie attività, o mantenere le proprie missioni tradizionali al costo di dolorose contrazioni e tagli? E anche a livello di singolo ricercatore: che tipo di messaggio dare ai giovani? Continuare a prospettare una carriera sempre più utopica o indirizzarli altrove? Distogliere i propri studenti e collaboratori dalla mondo accademico o tenerli legati a una realtà sempre più difficile e a costo di sacrifici, anche in termini di vita personale?
L’impossibilità di avere davanti a sé un percorso, per quanto difficile, almeno chiaro e con un minimo di prospettiva, spinge inevitabilmente molti ad abbandonare l’impresa, e a cercare di soddisfare la propria vocazione in un altro contesto. Ho sempre trovato intollerabile la retorica dei “migliori che se ne vanno”, dei cervelli “in fuga”, quasi a intendere che chi resta è la parte più mediocre, che chi sceglie di trovare la propria strada in un altro Paese sia per definizione l’eccellenza, ma è un dato di fatto che vivo sulla mia pelle da troppi anni e con troppa frequenza per non riconoscerlo: tanti, troppi giovani di valore abbandonano il nostro Paese. La circolazione di persone e idee in un mondo globalizzato è un valore certamente positivo, ma se il flusso di persone di altissima formazione e qualità in uscita non viene compensato neanche da un rivolo di competenze in entrata, è del tutto evidente che il risultato netto è un impoverimento e una perdita netta, di conoscenza e anche economica, dell’Italia.
Ciascuno dei tanti colleghi e amici che hanno lasciato la loro città e la loro nazione l’hanno fatto per scelta consapevole, spesso anche con entusiasmo. Pochi tornerebbero indietro, ed è giusto così. Il cambiamento culturale che però ho avvertito in questi anni, è una sorta di disillusione, di mancanza di speranza, che porta i giovani a non prendere affatto in considerazione l’Italia per un futuro che possa dare loro una prospettiva di crescita e realizzazione, e che li porta a scegliere sempre prima e sempre in misura maggiore un paese estero per il loro progetto. Chiunque viva in ambito accademico conosce il fenomeno che porta verso un paese estero sin dal dottorato di ricerca e ancora prima dall’ultima parte degli studi universitari. Del resto, se la strada nelle istituzioni di ricerca e nell’impresa italiana per chi voglia lavorare nella scienza e nell’innovazione è sempre più stretta e impervia, chi sente quest’aspirazione vede ormai in modo quasi naturale e ovvio fuori dall’Italia il luogo dove realizzarla.
Molto si potrebbe dire, poi, sulla scarsa considerazione della scienza e degli scienziati nella società e nell’opinione pubblica, sul ruolo degli stessi ricercatori, dei mezzi di comunicazione, della politica, ma questo richiederebbe una lunga serie di riflessioni. Così come richiederebbe un’illustrazione dettagliata il complesso di benefici per la vita pratica di tutti i giorni e per l’avanzamento tecnologico e economico di un Paese che gli investimenti in ricerca restituiscono costantemente e immancabilmente.
Mi preme però sottolineare che le realtà dove fare ottima ricerca scientifica, all’avanguardia anche a livello mondiale esistono in Italia, e in grande numero, e resistono anche nelle difficili condizioni attuali. Credo di avere la fortuna e il privilegio di operare in un Ente pubblico che da oltre 60 anni compete con le migliori istituzioni internazionali del settore. Tuttavia la preoccupazione per il futuro è d’obbligo, se prendiamo in considerazione la ricerca scientifica e l’alta formazione nel suo complesso, ma anche per le prospettive di lungo termine delle (non poche) punte d’eccellenza, in una situazione non solo di scarse risorse, ma soprattutto di scarsa attenzione.
Costruire realtà di ottimo livello richiede molti anni d’investimento, una lunga tradizione, il lavoro spesso oscuro di tanti ricercatori che lavorano a fianco delle star che ottengono gli onori della cronaca, ma per non disperdere questo patrimonio occorrono giovani che raccolgano il testimone delle generazioni precedenti. I giovani costituisco la linfa che alimenta, da sempre, la conoscenza: la trasmissione alle nuove generazioni è ciò che garantisce la continuità e la possibilità di progredire in tutti i campi, ma soprattutto permettere di rinnovarsi e aprire nuove strade. Tagliare questo ramo significa rinunciare ai frutti che porterà, e in ultima analisi a un pezzo del nostro futuro.
(*) Istituto Nazionale Fisica Nucleare Sezione di Roma