Il voto tedesco sembra consegnarci l’immagine di una Germania soddisfatta di sé e convinta nel perseguire la via di un “Europa ragionevole” (Ursula von der Leyen), ovvero di un moderato riformismo che punti a non alterare il cuore dell’attuale assetto di potere venutosi a creare sul vecchio continente. In tal senso, la Merkel ha più volte fatto capire che con lei l’Unione europea – e tanto più l’euro – non è in discussione. Quelle che continuano ad essere in discussione sono, invece, le scelte di politica economica degli altri paesi membri, sulle quali Die Triunfantin potrebbe anche, al netto del nuovo scenario disegnato dal voto di domenica, essere disposta a modificare parzialmente la posizione tedesca.
Il rischio, tuttavia, è che non ne muti l’assunto di fondo: l’affermazione di una logica gerarchica secondo la quale, in ultima istanza, è la Germania ad indicare il criterio per il governo dell’eurozona e dell’intero sistema formato dall’Unione. Essendosi liberata dei liberali – e non essendo tallonata in Parlamento dagli euroscettici di Afd – la nuova coalizione di governo potrà infatti dispiegare a pieno l’intero spettro degli strumenti a disposizione della Germania, ricorrendo più frequentemente alla carota che al bastone.
Ciò sarà probabile nel caso di una maggioranza che veda tra le sue fila la presenza dei socialdemocratici, teoricamente più sensibili alle richieste dei paesi dell’Europa del sud. In tal caso, al conservatorismo arcigno messo in mostra dalla coalizione “Union-Fdp” seguirà un conservatorismo compassionevole messo in piedi dalla ditta “Union-Spd”. Non è, infatti, un caso che di tutto si sia parlato nel corso della campagna elettorale fuorché del futuro – e della trasformazione – del sistema connesso all’Unione europea. Chi ha provato a farlo (Afd, i liberali, a tratti l’Spd) ha inequivocabilmente perso. Si può quindi plausibilmente affermare che ai tedeschi l’Ue vada bene così com’è. E le ragioni di tale valutazione positiva dello status quo sono lontane dall’essere meramente economiche.
Il clima venutosi a creare negli ultimi anni in Germania – per esempio Die Welt che titola L’Europa ora parla tedesco – ha dato ai tedeschi l’opportunità di riconciliarsi con il proprio orgoglio nazionale, sentimento sintetizzabile nella formula “certo non siamo i signori dell’Europa ma ne siamo i maestri” (U.Beck).
D’altronde, se si guardassero con più attenzione i dati economici e la situazione sociale di molti cittadini della Bundesrepublik, il presunto “modello tedesco” verrebbe per lo meno ridimensionato. Basti vedere come, per ammissione della stessa Bundesbank, la crescita prevista per quest’anno sia dello 0,3%, mentre continueranno a crescere il debito pubblico – di fatto pari al 98% del Pil – e il precariato, che sembra essersi fatto sistema in una nazione che sembra aver puntato moltissimo sui cosiddetti mini jobs (e conseguentemente sulla diffusione della logica, totalizzante, del “sotto-impiego” e del “sotto-salario”). Ma questi dati, con i loro effetti, non colpiscono – ancora – l’immaginario di quella maggioranza di elettori che si troverà virtualmente accanto alla nuova Große Koalition.
La partita, qui come altrove, si basa infatti molto più sul piano della percezione della propria condizione che su quello del computo della reale consistenza della stessa. A riguardo è importante tenere a mente che la Germania, oltre ad aver ottenuto nel breve periodo alcuni vantaggi economici, è un paese traumatizzato sul piano dell’immaginario, un posto dove si respira ogni giorno, a partire dalle rovine dei bombardamenti rimaste in molte città tedesche, l’enorme fallimento umano e morale della seconda guerra mondiale e dove, dal ‘45 ad oggi, si è tentato a più riprese di andare oltre, di ricostruire un’identità nazionale che fosse capace di portare il paese al di là quel “buco nero”.
Oggi la sensazione di molti tedeschi nel vedere, ad esempio, i giovani europei affluire in una città come Berlino, alla ricerca di un posto di lavoro o di un semplice spazio di sopravvivenza, è quella di essere sulla strada giusta, di aver (ri)trovato il proprio posto legittimo nel mondo. Ma, nonostante questa soddisfazione sia comprensibile, bisogna fare attenzione.
Gli ultimi anni di Europa “a gestione tedesca”, lungi dal risolvere i problemi, ne hanno acuito la portata. Tralasciando il concreto rischio di un tracollo economico che ancora concerne numerosi paesi dell’eurozona, si pensi, ad esempio, a come è vista oggi l’Unione europea dai suoi stessi cittadini. Se infatti quest’ultima – o più mediaticamente e confusamente “l’Europa” – è entrata a pieno titolo all’interno dei talk show di mezzo continente aumentando il suo peso mediatico e quindi “politico”, lo ha fatto, anche grazie ad alcune scelte tedesche, in una maniera disastrosa, finendo per diventare il bersaglio di una retorica sovranista/nazionalista che ha portato alla nascita di vasti e agguerriti fronti euroscettici persino lì dove – ad esempio l’Italia – l’integrazione europea era sempre stata considerata positivamente dalla stragrande maggioranza dei cittadini.
Nella stessa Germania il partito euroscettico di Alternative für Deutschland si è dimostrato in grado di sfiorare la soglia d’ingresso al Bundestag dopo soli pochi mesi di esistenza. L’Europa intera ha quindi visto nascere una forte protesta contro l’Ue che, unita alla diffusa radicalizzazione della dialettica politica, rischia di portare alla distruzione della casa comune europea. Un crollo che potrebbe essere stimolato dalla crisi di quello che appare a tutti come il suo anello debole, l’euro.
Infatti l’adozione dell’euro ha reso indispensabile la creazione di una politica economica e finanziaria comune che tuttavia, toccando nel cuore il funzionamento dei sistemi democratici europei tuttora centrati sulla sovranità dello Stato-nazione, ha messo in questione – e questa è la sola, vera, Krisis (scelta) dei nostri tempi – l’esistenza stessa della democrazia all’interno del sistema costituito dall’Unione e dagli Stati. Tale decisivo problema è destinato a restare sanguinosamente aperto qualora si voglia continuare ad evitare di prendere di petto la contraddizione esistente nell’attuale “sistema dell’Unione”: il rapporto esclusivo tra sovranità, democrazia e livello nazionale, da un lato, e dall’altro l’esigenza di operare scelte vitali e vincolanti al livello europeo in ambiti strategicamente connessi all’esistenza delle sovranità nazionali in questione.
Il punto è di importanza capitale per il futuro dell’Unione. Se infatti passerà – come si sta cercando di far passare – all’interno dei paesi membri l’idea secondo la quale l’Unione è ontologicamente lesiva della democrazia, strumento prediletto di singole potenze egemoni (es. Germania) o di interessi finanziari globali, il futuro della convivenza europea sarà segnato. Per reagire a tutto questo occorrerà accendere un processo di trasformazione dell’Unione – e del sistema ad essa connesso – che vada in senso democratico aprendo così lo spazio per una nuova rappresentazione del progetto europeo. Il punto è che per farlo servirebbe essere disponibili a mettere in discussione l’attuale assetto di potere. Anzi, ancora più paradossale, si dovrebbe procedere ad un suicidio volontario dello stesso: a chi infatti, se non alla principale potenza d’Europa, spetterebbe in primis l’onere e l’onore di prendere in mano l’iniziativa per la trasformazione del “sistema dell’Unione”?
Ma la Germania, alla luce del campagna elettorale appena terminata, sembra pensare ad altro. Una pericolosa tentazione l’attraversa. Le dichiarazioni, apparentemente rivolte in senso opposto, rilasciate subito dopo il voto dallo staff della Merkel sembrano proprio voler esorcizzare, agli occhi degli altri europei, tale palese e inconfessabile voglia: quella di cementare e mantenere l’attuale status quo, il primato tedesco, la presente Europa gerarchizzata, la riconquista di un orgoglio nazionale che a lungo le era mancato. Si tratterebbe di una scelta esiziale di cui, in ultima istanza, risentirebbe la stessa Germania, che – come la Siegerin ben sa – ha fondato la sua rinascita e la sua fortuna sull’Ue (e sull’euro). Infatti non è in alcun modo possibile restare nel collo di bottiglia in cui ci si è infilati: o se ne esce con una nuova Unione federale e democratica, o si metteranno le premesse per la tragica fine del percorso comune.
Ciò detto, non si può non guardare con speranza alla bontà di quel gran verso che recita “Ein guter Mensch in seinem dunkeln Drange/ Ist sich des rechten Weges wohl bewusst” (Un brav’uomo, nel suo stesso oscuro istinto, è sempre consapevole della dritta via, J.W.Goethe, Faust).
(*) Articolo tratto da Newsletter Mondoperaio del 24.09.2013