Rivolgo un saluto a tutti i presenti, che vorrei poter salutare singolarmente, come posso fare con il Presidente della Conferenza Episcopale, Cardinale Zuppi, con il Cardinal Betori, con il Presidente della Regione, con il Sindaco, ringraziandolo per le parole iniziali di ricordo di quanto avvenuto in Romagna nei giorni scorsi, e per il ricordo del regalo che quei territori hanno fatto alla cultura e all’arte con Giotto e il Beato Angelico.
Poc’anzi, vedendo la piccola chiesa qui accanto, vedendo le vetrate realizzate dei ragazzi di don Milani a suo tempo, ho visto che quella creatività artistica non si è esaurita.
Vorrei salutare e ringraziare la Presidente della Corte di Cassazione e il Sindaco di Firenze; ringraziare molto per l’invito la Presidente Bindi e il Presidente Burberi. Grazie per questo invito ad essere qui.
E vorrei ringraziare anche Yasmine per quanto ha detto sull’esperienza che sta continuando a svolgere.
È stato un bel modo, così, di ricordare oggi, nel centenario della nascita, don Lorenzo Milani.
Ricordiamo oggi, nel centenario della nascita, don Lorenzo Milani.
È stato anzitutto un maestro. Un educatore. Guida per i giovani che sono cresciuti con lui nella scuola popolare di Calenzano prima, e di Barbiana poi.
Testimone coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Battistrada di una cultura che ha combattuto il privilegio e l’emarginazione, che ha inteso la conoscenza non soltanto come diritto di tutti ma anche come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana.
Essere stato un segno di contraddizione, anche urticante, significa che non è passato invano tra di noi ma che, al contrario, ha adempiuto alla funzione che più gli stava a cuore: far crescere le persone, far crescere il loro senso critico, dare davvero sbocco alle ansie che hanno accompagnato, dalla scelta repubblicana, la nuova Italia.
Don Lorenzo avrebbe sorriso di fronte a una rappresentazione come antimoderno, se non medievale, della sua attività. O, all’opposto, di una sua raffigurazione come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario.
Nella sua inimitabile azione di educatore – e lo possono testimoniare i suoi “ragazzi” – pensava, piuttosto, alla scuola come luogo di promozione e non di selezione sociale.
Una concezione piena di modernità, di gran lunga più avanti di quanti si attardavano in modelli difformi dal dettato costituzionale.
Era stato mandato qui a Barbiana, come sappiamo, in questo borgo tra i boschi del Mugello – con la chiesa, la canonica e poche case intorno – perché i suoi canoni, nella loro radicalità, spiazzavano l’inerzia.
La sua fede esigente e rocciosa, il suo parlare poco curiale, i suoi modi, a volte impetuosi, lontani da quelli consueti, destavano apprensione in qualche autorità ecclesiastica.
In tempi lontani dalla globalizzazione e da internet, da qui, da Barbiana – allora senza luce elettrica e senza strade asfaltate – il messaggio di don Milani si è propagato con forza fino a raggiungere ogni angolo d’Italia; e non soltanto dell’Italia.
Don Milani aveva una acuta sensibilità circa il rapporto – che si pretendeva gerarchico – tra centri e periferie.
Come uscire da una condizione di emarginazione? Come sollecitare la curiosità, propulsore di maturità? Come contribuire, da cittadini, al progresso della Repubblica?
Il motore primo delle sue idee di giustizia e di uguaglianza era appunto la scuola. La scuola come leva per contrastare le povertà. Anzi, le povertà.
Non a caso oggi si usa l’espressione “povertà educativa” per affermare i rischi derivanti da una scuola che non riuscisse a essere veicolo di formazione del cittadino.
La scuola per conoscere.
Per imparare, anzitutto, la lingua, per poter usare la parola.
“Il mondo – diceva don Milani – si divide in due categorie: non è che uno sia più intelligente e l’altro meno intelligente, uno ricco e l’altro meno ricco. Un uomo ha mille parole e un uomo ha cento parole”.
Si parte con patrimoni diversi. Da questa ansia si coglie il suo grande rispetto per la cultura.
La povertà nel linguaggio è veicolo di povertà completa, e genera ulteriori discriminazioni.
La scuola, in un Paese democratico, non può non avere come sua prima finalità e orizzonte l’eliminazione di ogni discrimine.
“Lettera a una professoressa”, scritta con i suoi ragazzi mentre avanzava la malattia – che lo avrebbe portato via a soli 44 anni – è un atto d’accusa, impietoso, di tutto questo.
“Lettera a una professoressa” ha rappresentato una lezione impartita a fronte delle pigrizie del sistema educativo e ha spinto a cambiare, ha contribuito a migliorare la scuola nel mezzo di una profonda trasformazione sociale del Paese.
Ha aiutato a comprendere meglio i doveri delle istituzioni e ha sollecitato a considerare i doveri verso la comunità.
Sempre più gli insegnanti hanno lavorato con passione per attuare i nuovi principi costituzionali. Perché a questo occorre guardare.
La scuola è di tutti. La scuola deve essere per tutti.
Spiegava don Milani, avendo davanti a sé figli di contadini che sembravano inesorabilmente destinati a essere estranei alla vita scolastica: “Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose”.
Impossibile non cogliere la saggezza di questi pensieri. Era la sua pedagogia della libertà.
Il merito non è l’amplificazione del vantaggio di chi già parte favorito.
Merito è dare nuove opportunità a chi non ne ha, perché è giusto, e anche per non far perdere all’Italia talenti; preziosi se trovano la possibilità di esprimersi, come a tutti deve essere garantito.
I suoi ragazzi non possedevano le parole. Per questo venivano esclusi. E se non le avessero conquistate, sarebbero rimasti esclusi per sempre.
Guadagnare le parole voleva dire incamminarsi su una strada di liberazione. Ma chiamava anche a far crescere la propria coscienza di cittadino; a sentirsi, allo stesso tempo, titolare di diritti e responsabile della comunità in cui si vive.
Aveva – come si vede – un senso fortissimo della politica don Lorenzo Milani.
Se il Vangelo era il fuoco che lo spingeva ad amare, la Costituzione era – mi permettano i Cardinali presenti – il suo vangelo laico. “Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.
Difficile trovare parole più efficaci.
Difficile non riscontrare lo stretto legame del suo insegnamento con la fede che professava: prima di ogni altra cosa, il rispetto e la dignità di ogni persona. Qui si intrecciano il don Milani prete, l’educatore, l’esortatore all’impegno.
L’impegno – educativo, e di crescita – richiede sempre, per essere autentico, coerenza. Spesso sacrificio. Al pari di tanti curati di montagna che hanno badato alle comunità loro affidate, Don Milani non si è sottratto. Era giovane. Chiedeva ai suoi ragazzi di non farsi vincere dalla tentazione della rinuncia, dell’indifferenza.
La scuola di Barbiana durava tutto il giorno.
Cercava di infondere la voglia di imparare, la disponibilità a lavorare insieme agli altri. Cercava di instaurare l’abitudine a osservare le cose del mondo con spirito critico.
Senza sottrarsi mai al confronto, senza pretendere di mettere qualcuno a tacere, tanto meno – vorrei aggiungere -un libro o la sua presentazione.
Insomma, invitava a saper discernere.
Quel primato della coscienza responsabile, che spinse don Milani a rivolgere una lettera ai cappellani militari, alla quale venne dato il titolo “l’obbedienza non è più una virtù” e che contribuì ad aprire la strada a una lettura del testo costituzionale in materia di difesa della Patria per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza.
Padre David Maria Turoldo, amico di don Milani, disse di lui che “diventando disobbediente” (in realtà non lo è mai stato) in realtà obbediva a principi e regole ancora più profonde e vincolanti. Non certo a un capriccio o a una convenienza.
Non c’era integralismo nelle sue parole, piuttosto radicalità evangelica. Ma, come poc’anzi ricordava il Cardinale Zuppi, andrebbe detto autenticità evangelica.
Sapeva di avere in mano un testimone. Un testimone che doveva passare di mano, a cui poi i suoi ragazzi “aggiungessero” qualcosa.
Un grande italiano che, con la sua lezione, ha invitato all’esercizio di una responsabilità attiva.
Il suo “I care” è divenuto un motto universale.
Il motto di chi rifiuta l’egoismo e l’indifferenza.
A quella espressione se ne aggiungeva un’altra, meno conosciuta.
Diceva: “Finché c’è fatica, c’è speranza”.
La società, senza la fatica dell’impegno, non migliora. Impegno accompagnato dalla fiducia che illumina il cammino di chi vuole davvero costruire.
E don Lorenzo ha percorso un vero cammino di costruzione. E gli siamo riconoscenti.
* Intervento del Presidente della Repubblica in occasione della cerimonia per il centenario della nascita di don Lorenzo Milani, Barbiana, 27/05/2023